Terzo settore. Al via un fondo a impatto sociale

L’obiettivo è finanziare cooperative sociali e consorzi che si occupano di difesa e tutela dell’ambiente, di agricoltura biologica oppure di turismo responsabile

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Al via un fondo a impatto sociale

Un fondo di investimento per finanziare il mondo del sociale e creare un impatto positivo, concreto e misurabile su ambiente, persone e comunità, oltre a generare rendimento economico. È questo l’obiettivo di Sefea Impact, la prima società di gestione di fondi di investimento chiusi a impatto sociale in Italia, che lancia oggi il suo primo fondo di investimento “Si-social impact”. Promosso da Sefea insieme con Fondazione di Comunità di Messina, il fondo si propone di catalizzare nuove risorse verso le imprese a vocazione sociale e ambientale. Riservato a investitori istituzionali, “Sì-Social Impact” intende raggiungere una raccolta di 55 milioni di euro. «C’è un mercato potenziale di 30 miliardi di euro di investimenti socialmente orientati – spiega Fabio Salviato, presidente e ad di Sefea Impact Sgr – per i quali non esisteva ancora uno strumento dedicato e in grado di far incontrare domanda e offerta. Vogliamo finanziare il sociale in generale, dalle cooperative sociali ai consorzi che si occupano di difesa e tutela dell’ambiente, di agricoltura biologica oppure di turismo responsabile».

Anche per Luigi Dante, consigliere di Sefea sgr, «il progetto è importante proprio in relazione all’idea di uninvestimento nella qualità dell’azienda nel suo complesso. Quella che abbiamo di fronte è una sfida importante, le imprese che beneficeranno del fondo non saranno lasciate sole».

Primo sostenitore del progetto è la Fondazione con il Sud che ha messo a disposizione dieci milioni di euro. «Vogliamo salvaguardare la dimensione etica di questa missione, tendendo a escludere innanzitutto gli investimenti cosiddetti cattivi: per esempio un’azienda si occupa di armi non potrà essere finanziata – conclude il presidente della Fondazione Carlo Borgomeo -. Abbiamo promosso per primi questo fondo perché abbiamo una naturale propensione alla sperimentazione. Non sappiamo se andrà bene, ma sappiamo che in questo momento c’è la necessità di investire nel sociale».

«Gaudete et exsultate». Quando il santo «fa ridere»: il buonumore apre il cielo

Quando il santo «fa ridere»: il buonumore apre il cielo

Forse la sintesi migliore è nel benvenuto di Domenico Savio a un nuovo amico d’oratorio. «Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nel fare bene il nostro dovere». Se una qualità non può mancare nel “bagaglio” del cristiano, questa è la gioia, di cui il buonumore è specchio, marchio di riconoscimento, immagine esteriore. Lo dicono le agiografie, lo confermano i testi di riflessione spirituale, non moltissimi in verità, lo ripetono fino alla noia i parroci. «Un cristiano non può essere triste». Tesi razionalmente e unanimemente accettata ma molto difficile da realizzare. Perché non si tratta tanto di ridere delle difficoltà ma, ed è più difficile, di affrontare le prove con la sapienza, con il giusto distacco di chi vive nel mondo senza essere schiavo delle sue logiche. Il santo – scrive papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate«è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza». Un atteggiamento che si impara frequentando la scuola della leggerezza, impegnandosi nello sforzo, a volte davvero eroico, di limitare le ingombranti esigenze del proprio io, le pesantezze dell’egocentrismo. «Gli angeli possono volare perché prendono se stessi con leggerezza», recita una folgorante riflessione di Gilbert Keith Chesterton, che aggiunge: «È facile essere pesanti e difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità». Il che non vuol dire ovviamente che il narcisista sia condannato alla dannazione ma solo che per lui il percorso di liberazione da se stessi è più difficile.

Tanto l’egoismo è una corsa ad accumulare beni, prestigio, visibilità quanto il cammino verso la santità chiede di abbandonare gli orpelli luccicanti, di non prendere troppo sul serio onori, ricchezze, premi da copertina. E la meta della felicità, che consiste nel realizzare in pieno il disegno che Dio ha su di noi, si raggiunge più facilmente senza inutili zavorre. Il santo è per così dire uno specialista nell’arte, ardua e impopolare, del togliere, del levare, del liberare spazi occupati dalle certezze effimere, per lasciare posto alla vita dello Spirito. È un profeta del ritorno all’essenziale, uno speleologo nelle profondità dell’uomo, alla ricerca di ciò che conta davvero. E questa capacità di andare oltre, gli consente di cogliere i semi di eternità già quaggiù, di vivere con il cuore proiettato a quello che ci attende dopo. Immerso nel presente sì, ma senza farsene travolgere, nella consapevolezza che ciascuno è una parte del mondo senza esserne il centro. Non a caso “umiltà” e “umorismo” hanno un’origine comune, vengono entrambi da “humus”, terra. Chi non si fa condizionare dalla superbia, chi non ne diventa ostaggio capisce che esiste qualcosa di più grande di lui, e del suo io. Di cui anzi impara a sorridere.

Il buonumore dei santi nasce proprio dalla capacità di non prendersi troppo sul serio, il loro pensare positivo dal sapere che ci attende un destino da risorti. «L’ottimismo cristiano non è ottimismo dolciastro – ha scritto san Josemaria Escrivá de Balaguer – e neppure la fiducia che tutto andrà bene. Affonda le sue radici nella coscienza della libertà e nella sicurezza del potere della grazia; un ottimismo che porta a essere esigenti con noi stessi, a sforzarci per corrispondere in ogni momento alla chiamata di Dio». Ci sono momenti duri, momenti di croce, scrive il Papa in Gaudete et exsultate, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale che – sottolinea l’Esortazione Evangelii gaudium – «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». Il problema semmai si pone quando, anche nel cristiano, il peso della responsabilità confina lo sguardo dentro il perimetro del presente, quando le lacrime sono solo inchiostro per la disperazione e non vocabolario della vicinanza, della compassione. Capita così che le chiese risuonino di inni pasquali mentre il viso di chi le frequenta è ispirato a un perenne Venerdì Santo. Per averne conferma basterebbe osservare la fila di chi si accosta alla Comunione nella Messa domenicale. «Dovrebbero cantarmi dei canti migliori, perché io impari a credere nel loro Salvatore – riassumeva sarcastico Nietzsche –. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più un aspetto da gente salvata».

Una denuncia che ha anche un suo perché storico, come rivela la condanna del riso e del divertimento, di tanti Padri della Chiesa. O come, più prosaicamente, racconta Il nome della rosa di Umberto Eco. È l’atteggiamento di chi crede che sì, sarà gioia ma nel mondo che verrà, non in questo, confinato nella tristezza. Di chi del Salmo 2 si concentra al massimo sull’invito a rallegrarsi «con tremore» trascurando l’osservazione secondo cui «ride colui che sta nei cieli». Di chi fatica a testimoniare il richiamo dell’altro Salmo, il 34: «Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti». I santi, la loro testimonianza, ci aiutano a mettere le cose a posto, sottolineano che il dolore e la sofferenza non possono soffocare la gioia, profonda e duratura, di essere salvati, di avere come destino la vita eterna.

Si dice che don Bosco fosse particolarmente allegro nei giorni delle prove più dure e Francesco d’Assisi, uno che di sofferenza se ne intendeva, è conosciuto anche come “giullare di Dio”. Una filosofia di vita, una capacità di vedere oltre, che Tommaso Moro, apostolo del buonumore, allegro anche sul patibolo dove finì decapitato, spiegava così: «Qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio». La lezione è chiara: non esiste nulla che impedisca un sorriso, che giustifichi il pessimismo o il cattivo umore. Per dirla con Domenico Savio, santo ragazzino: la santità consiste «nello stare molto allegri».

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L’incertezza politica e la mancanza di un governo hanno riacceso i riflessori sul differenziale tra i titoli di Stato decennali italiani e quelli tedeschi. Ecco cosa c’è da sapere

La Borsa di Francoforte (Ansa)

La Borsa di Francoforte (Ansa)

Che cos’è lo spread?
In finanza si parla di “spread” per definire la differenza tra due valori, ad esempio il prezzo di acquisto e di vendita di un’azione. Ma lo spread di cui si è tornati a parlare in Italia in queste settimane è uno spread specifico: la differenza tra gli interessi dei titoli di Stato decennali italiani e tedeschi, misurata in centesimi di punto percentuale. Questo valore, che venerdì ha chiuso a 207 punti mentre una settimana fa era a 164 punti, è interessante perché fa capire quanto, secondo gli investitori, prestare soldi all’Italia sia più rischioso che prestarli alla Germania, considerata il più affidabile tra i grandi debitori governativi della zona euro.

Cosa fa muovere lo spread?
Essendo una differenza tra due valori, lo spread può muoversi in due modi: o perché variano gli interessi dei titoli di Stato italiani o perché variano quelli dei Bund tedeschi. Il problema centrale, per l’Italia, è se lo spread aumenta perché variano verso l’alto i rendimenti dei Btp. Significa che gli investitori si fanno più esigenti quando si tratta di prestarci denaro. Se i nostri interessi salgono, raccogliere fondi sul mercato per un ministero del Tesoro abituato a rifinanziarsi per 200-300 miliardi di euro all’anno può diventare molto più costoso del previsto. A muovere lo spread sono le operazioni degli investitori sul mercato chiamato “secondario”, quello dei titoli di Stato già emessi, che vengono venduti da chi li ha comprati.

Perché continua a salire?

Lo spread quando inizia a infiammarsi non segue di solito una progressione aritmetica, ma geometrica (di ragione due). Non aumenta, cioè, di pochi punti giorno dopo giorno, ma raddoppia progressivamente in breve tempo. La crisi politica e istituzionale italiana, con le voci sulla possibile uscita dell’Italia dall’Eurozona, ha fatto scattare il cosiddetto “panic selling”, le vendite a raffica sulla spinta della crisi di fiducia che sta colpendo il Paese. L’avvertimento sul possibile taglio del rating da parte di Moody’s ha ulteriormente surriscaldato il clima e, soprattutto per quel che riguarda la Borsa, bisogna anche considerare l’azione degli algoritmi che automaticamente iniziano a liberarsi dei titoli allo scattare di determinati allarmi, amplificando le perdite.

Qual’è il ruolo della Bce?

Con politiche monetarie ultra-accomodanti culminate nel piano di emissione di nuova moneta per acquistare obbligazioni di Stato e private, la Banca centrale europea in questi anni ha sterilizzato sui mercati il rischio di rottura dell’unione monetaria. Gli interessi di titoli di Stato dei paesi considerati a rischio sono precipitati. Per l’Italia c’è stata una caduta significativa: i rendimenti dei Btp decennali sono precipitati dai massimi toccati nel 2011 (oltre il 6%) fino a sfiorare l’1%. Questa situazione accomodante però va verso la fine. Quest’anno la Bce terminerà i suoi acquisti (al momento ha in bilancio 341 miliardi di euro di titoli di Stato italiani) e con la stabilizzazione dell’economia e dell’inflazione gradualmente potrà tornare a fare una politica monetaria “normale”. Toccherà al successore di Mario Draghi, il cui mandato termina alla fine del 2019, indirizzare il nuovo corso. I nostri Btp saranno sul mercato senza paracadute. Il rischio di bruschi scossoni o di attacchi speculativi sarà maggiore.

Perché il rating (giudizio) pesa sullo spread?

Le agenzie di rating sono società private che valutano le capacità di un governo, di una società pubblica o di un impresa di ripagare i propri debiti, i soldi cioè che ha raccolto dagli investitori promettendo loro un interesse sotto forma di rendimento. Se uno Stato, ad esempio, è considerato altamente affidabile, avrà un voto alto, il massimo è la “tripla A”, perché giudicato capace di ripagare fino all’ultimo centesimo i suoi creditori ovvero i sottoscrittori dei titoli di Stato. I giudizi di quattro grandi agenzie internazionali – S&P, Moody’s, Fitch e Dbrs – vengono anche utilizzati dalla Bce per comprare obbligazioni governative (i titoli di Stato come i Bot e i Btp, i Bund tedeschi o i Bonos spagnoli) nell’ambito del programma di facilitazione monetaria (il famoso Quantitative easing) iniziato nel 2015 per “calmare” la febbre da spread. Se un compratore del calibro della Bce, cioè, che acquista i titoli diventati troppo rischiosi, il rendimenti tenderanno a “calmarsi” e lo spread a rientrare. I rating vengono anche utilizzati dalla Bce nelle aste per la fornitura della liquidità che ogni mese permettono alle banche di funzionare. Francoforte utilizza sempre il “voto” più alto fra quello espresso dalle quattro agenzie di rating. E può acquistare solo titoli cosiddetti “investment grade”, non rischiosi, livello che li distingue dai “titoli spazzatura”. Attualmente l’Italia è per S&P, Moody’s e Fitch appena due gradini sopra tale soglia, tre gradini per Dbrs. S&P emetterà il suo giudizio in ottobre, Fitch il 31 agosto, Dbrs il 13 luglio e Moody’s – salvo sorprese, considerato l’annuncio di venerdì – il 7 settembre. Se perdiamo il giudizio “investment grade” la Bce non può più comprare il nostro debito e accettarlo come collaterale dalle banche per finanziarsi.

Quali conseguenze sulle imprese?
A risentire di un aumento dello spread ovvero dei rendimenti dei titoli pubblici sono anzitutto quelle imprese chiamate “banche”. Un taglio del rating sul debito sovrano si riflette del resto anche su quello degli enti pubblici e delle grandi società finanziarie, a partire dagli istituti di credito. Anche questi ultime, infatti, oltre a dipendere per la liquidità dalle aste della Bce (vedi domanda 6, ndr), si finanziano chiedendo soldi agli investitori, tramite i bond, in cambio della prospettiva di un rendimento. Ricordiamo che quando lo spread (e quindi i rendimenti) dei titoli aumentano, è il loro “prezzo” a diminuire. Quei titoli, cioè, valgono di meno. Secondo Unimpresa, dei quasi 2.290 miliardi di debito pubblico italiano di fine 2017 poco meno di un terzo era detenuto da fondi e istituzioni straniere, la Banca d’Italia – che compra i titoli per conto della Bce nell’ambito del QE – è al 15,45%, fondi di investimento e assicurazioni (le nostre pensioni e risparmi) detengono il 19,9%, famiglie e imprese sono a poco più del 5%, 120 miliardi circa. Le banche italiane hanno invece ancora in pancia oltre 300 miliardi di titoli. Una loro forte svalutazione avrebbe un impatto dirompente sui bilanci e quindi sulla capacità di erogare credito a imprese e famiglie. A risentire infine velocemente, fra le imprese, di un impennata dello spread, è il mercato immobiliare: perché il mercato dei mutui si inceppa.

E sulle famiglie?
Le famiglie “risentono” dell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato in modi diversi, direttamente come “piccoli investitori” del debito pubblico italiano, di cui hanno in tasca circa 120 miliardi, e indirettamente come clienti delle banche ai quali chiedono prestiti e mutui o affidano i risparmi per metterli in fondi d’investimento e fondi pensione (rimettendo quindi in modo indiretto i panni dei piccoli investitori) attraverso i quali generare una rendita per il futuro. Se il prezzo dei titoli dei bond governativi e di quelli privati crolla e i titoli vengono venduti e non mantenuti fino alla durata naturale sul mercato secondario, i piccoli investitori contabilizzeranno una perdita. Per quanto riguarda invece i prestiti e in particolare i mutui, sui tassi fissi in essere l’aumento della spread non avrà nessuna conseguenza. Qualche difficoltà – ma non a breve – potrebbe invece interessare i mutui variabili, che sono quasi tutti ancorati al tasso Euribor a uno o tre mesi, i cui valori sono sotto zero ormai da quasi due anni. Se però l’Italia creasse un contagio a livello europeo e i parametri ricominciassero a salire, l’aumento della rata sarebbe sensibile. Nell’autunno del 2008 l’Euribor a tre mesi toccò il 5,5%. Per chi invece deve sottoscrivere un nuovo mutuo, è ipotizzabile un aumento dei costi iniziali, visto che le banche dovrebbero trovare ulteriori entrate, essendo più in difficoltà a finanziarsi, e dello spread bancario, soprattutto sui mutui fissi, per i quali negli ultimi anni sono stati applicati costi molto bassi. Nel “terribile” 2011, le rate salirono del 4%, senza considerare la stretta alle erogazioni che si riverberò sulle altre condizioni per ottenere un finanziamento. Naturalmente, oltre ai mutui, tra le conseguenze di una febbre da spread ci sarebbe da mettere in conto anche l’aumento delle rate dei prestiti e dei finanziamenti.

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Azione Cattolica. Truffelli: «Cattolici in politica, è l’ora delle proposte»

Il presidente di Ac raccoglie l’invito del cardinale Bassetti: servono nuove modalità di impegno, con argomenti validi per tutti

Matteo Truffelli, presidente nazionale di Azione Cattolica (Siciliani)

Matteo Truffelli, presidente nazionale di Azione Cattolica (Siciliani)

«No, i laici cattolici impegnati in politica non sono estinti. Ci sono, e sono tantissimi. Però…». Martedì scorso il cardinale Bassetti ha dedicato un ampio capitolo del suo discorso all’Assemblea generale della Cei al «clima di smarrimento culturale e morale», al «sentimento di rancore diffuso » e ai loro «effetti pesanti anche in politica ». Eppure la conclusione del presidente della Cei non era negativa: «Non credete – diceva ai vescovi – che ci siano ragioni fondate per dire che la partita non è persa?». Da quel «però» parte la riflessione di Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione cattolica, che comincia là dove Bassetti finisce.

Nonostante le apparenze, sembra dire Bassetti, c’è un terreno fertile. I cattolici impegnati in politica non sono dunque estinti?

No, sono tantissimi. In schieramenti diversi e impegnati soprattutto nelle amministrazioni locali, un livello non meno decisivo per le sorti della comunità civile.

Non le sembra però che la rappresentanza a livello nazionale sia carente?

Sì, è meno forte ed evidente che nel passato. Però la passione per il bene comune rimane diffusa. Ma forse si traduce in forme diverse di impegno e nella scelta di priorità differenti, soprattutto tra i giova- ni. Penso ad esempio alla loro attenzione per la tutela dell’ambiente, del creato.

Le radici sono sane, ribadisce il presidente della Cei, e il Paese è migliore di quanto spesso venga dipinto. Un eccesso di ottimismo?

No, ha ragione. Non solo il cattolicesimo italiano ma l’intero Paese sono ancora irrigati da energie morali e da impegno generoso. L’apertura solidale e inclusiva rappresenta un aspetto importante della nostra identità nazionale. Una caratteristica che dovrebbe essere coltivata e sostenuta dalla politica, non soffocata.

L’impegno politico dei cattolici ha una grande tradizione. Che cosa ne stiamo facendo?

Per esserne degni eredi, come invita Bassetti, non possiamo limitarci a conservarla sotto vetro, o a rimpiangere il passato. Il passato va guardato, studiato e apprezzato, sì, ma per tradurlo in nuove modalità di impegno, nuove formule. E il momento è proprio questo, come cerco di spiegare nel mio libro, La P maiuscola. Nostro, qui e ora, è il compito di elaborare proposte buone per il Paese e di raccogliere consenso attorno ad esse, sapendole argomentare in modo comprensibile per tutti, non attraverso affermazioni valide solo per noi.

Non le sembra che dalla comunità ecclesiale non emerga tutta questa ‘domanda di politica’?

Per molto tempo tra i cattolici la questione politica è stata motivo di divisione, forse più di ogni altra. Non siamo stati capaci di far nostra l’idea che i princìpi possano essere declinati in scelte politiche diverse. Abbiamo fatto tanta fatica, e continuiamo a farla, ad accettare la pluralità.

Eppure lo stesso Concilio la ammetteva: talvolta, di fronte allo stesso problema, è possibile che i cattolici optino per soluzioni diverse…

È un insegnamento che non abbiamo saputo far nostro in modo autentico e consapevole. Molti sono ancora lì, in attesa di un’unità svanita.

Rimangono molti laici cattolici che avvertono la vocazione all’impegno politico ma non trovano occasioni formative. Non sono aiutati. Che cosa si può fare?

Due cose. Abbiamo il dovere di formare credenti consapevoli che non possono essere autenticamente tali senza vivere da cittadini responsabili. Non solo quelli che intendono impegnarsi in modo forte, ma proprio tutti. Ciò di cui più abbiamo bisogno è di cittadini appassionati. Poi, non possiamo dire: «Abbiamo bisogno di voi» e guardare con sospetto chi si impegna, voltandogli le spalle. Dobbiamo creare attorno a essi una rete di persone e comunità che li stimi e gli voglia bene. Dobbiamo accompagnarli, offrire loro occasioni di dialogo e confronto, di formazione e di continua riscoperta delle motivazioni del loro impegno.

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L’uomo dei ghiacci aveva il cuore malato Per Oetzi problemi alle coronarie

Ricostruzione dell’aspetto di Oetzi sulla base della mappa del suo Dna (fonte: South Tyrol Museum of Archaeology/EURAC/Marco Samadelli-Gregor Staschitz) © Ansa

Alla presunta età di 46 anni l’Uomo venuto dal ghiaccio, Ötzi, aveva seri problemi al cuore. Un’analisi basata sulla radiografia condotta a Bolzano da Patrizia Pernter indica infatti che l’uomo del Similaun aveva tre calcificazioni alle coronarie. I risultati dell’esame sono stati pubblicati nella rivista scientifica specializzata RöFo – Fortschritte auf dem Gebiet der Röntgenstrahlen.

Il test indica che la predisposizione genetica è un fattore scatenante significativo per l’arteriosclerosi. La quantità di calcio rilevata è infatti paragonabile a quella che si può riscontrare in un uomo di carnagione chiara dei giorni nostri di età compresa tra i 40 e i 50 anni. Ötzi, però, non aveva uno stile di vita sedentario e questo dato avvalora l’ipotesi del ruolo dei geni.

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Un super algoritmo per l’internet delle cose Nel 2020 connessi 50 miliardi di oggetti

Nel 2020, con l'arrivo delle connessione 5G, si prevede che almeno 50 miliardi di oggetti saranno connessi fra loro nel mondo (fonte: Pixabay) © Ansa

Pronto il super algoritmo destinato a gestire l’esplosione dell’internet delle coseattesa per il 2020, con l’arrivo della connessione 5G, quando si prevede che almeno 50 miliardi di oggetti saranno connessi fra loro nel mondo. Permetterà ai dispositivi dicomunicare direttamente fra loro, senza passare per i ripetitori. Messo a punto dal gruppo dell’americana Tufts University, l’algoritmo è descritto sulla rivista ‘Proceedings of the IEEE’.

In un mondo in cui tutti gli oggetti, dagli elettrodomestici, alle automobili, ai pc sarannoconnessi fra loro, sarà cruciale conoscere la posizione precisa di tutti i dispositivi e permettere loro velocemente di riconoscersi e scambiarsi informazioni, ha rilevato il coordinatore della ricerca, Usman Khan. Questo impone lo sviluppo di nuovi sistemiche permettano di localizzare gli oggetti e farli comunicare.

Attualmente, il funzionamento dei dispositivi wireless si basa su cosiddette “ancore“, costituite da ripetitori per i cellulari e da satelliti Gps, che comunicano con ciascun dispositivo e che sono gestite da un sistema centralizzato che raccoglie ed elabora i dati e li smista ai singoli oggetti. Ma questo sistema diventa difficile da gestire con l’aumento del numero dei dispositivi connessi fra loro, perché si dovrebbe installare un numero elevatissimo di ripetitori sugli edifici, che sono difficili da gestire in modo centralizzato.

Il super algoritmo evita tutti questi problemi perché permette ai dispositivi di comunicare direttamente fra loro, evitando di passare per le ancore. In pratica i dispositivi misurano la loro posizione l’uno rispetto all’altro, piuttosto che fare riferimento ai ripetitori. “Oltre a prepararci a un futuro in cui gli oggetti connessi fra loro saranno onnipresenti, questo approccio – ha osservato Khan – potrebbe alleviare la pressione sull’infrastruttura attuale, eliminando la necessità di installare i ripetitori sugli edifici”.

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La Maturità 2018 dalla A alla Z Non tutti gli studenti conoscono come funzionano di preciso le varie fasi dell’esame

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La maturità 2018 è dietro l’angolo, ma non tutti gli studenti conoscono come funzionano di preciso le varie fasi dell’esame. Così come ignorano molte delle tradizioni che accompagnano ogni maturità e come è cambiata (e cambierà) nel tempo. Skuola.net ha perciò deciso di riassumere il grande universo dell’esame di Stato, strutturandolo per parole chiave, come in un ideale alfabeto.

A come Ammissione
La regolarità: è questo il segreto per essere ammessi alla maturità. Non basta, infatti, avere la media del 6 ma è necessario avere la sufficienza in tutte le materie. Condotta compresa.

B come Bonus
Impegnarsi conviene. A chi riesce a raggiungere il massimo dei voti alla maturità – ovvero 100 punti e la lode – il Miur riconosce un premio in denaro. Unica nota negativa: il valore del bonus, nel corso degli anni si è più che dimezzato.

C come Commissione
La commissione che giudicherà i maturandi è composta da 3 membri interni, 3 esterni più il presidente (anch’esso esterno). I nomi dei commissari esterni vengono svelati solo un paio di settimane prima della maturità. Ma l’accoppiata commissario-materia è chiara sin dalla fine di gennaio: nel 2018, ad esempio, la materia di seconda prova è affidata quasi ovunque al professore esterno.

D come Date
Sembra una cosa ovvia, ma molti maturandi non conoscono le date precise in cui si dovranno presentare a scuola per sostenere le prove di maturità. Si inizia mercoledì 20 giugno con il tema d’italiano, il 21 giugno (giovedì) si replica con la seconda prova, quella d’indirizzo. Il lunedì successivo – 25 giugno – va in scena la terza prova. Tempo qualche giorno è via agli orali. Che finiranno entro la metà di luglio.

E come Esame di Stato
Quella che tutti conosciamo come Maturità, in realtà, si chiama Esame di Stato. A introdurre la nuova denominazione il decreto del 1997 (firmato dall’allora ministro Luigi Berlinguer) che ne cambiò la struttura: con il debutto della terza prova, con la valutazione del curriculum scolastico e con il voto finale in centesimi.

F come Foglio protocollo
Un altro dettaglio di non poco conto: non si possono portare fogli da casa. Tutto quello che si scrive il giorno delle prove deve essere messo nero su bianco esclusivamente sui fogli protocollo in possesso della Commissione, timbrati e firmati dal presidente.

G come Greco (esterno)
Per i maturandi del liceo classico è stato un vero incubo scoprire, lo scorso gennaio, le materie dell’esame 2018. Peggio di così non poteva andare: non solo per la seconda prova – la versione – era stato scelto Greco (molto più indigesto del latino) ma, se ciò non bastasse, ne è stata affidata la correzione al commissario esterno. La cosa curiosa è che la combinazione fatale non è mai avvenuta negli ultimi 20 anni.

I come Invalsi
È una delle grandi novità in cantiere che attendono i ragazzi di quinto superiore dal prossimo anno (2018/2019). In base alla riforma della maturità diventa condizione preliminare, per accedere alle prove, aver sostenuto le tanto temute prove Invalsi (ma non saranno parte dell’esame, né parteciperanno al voto finale).

L come Lavoro
Uno dei dubbi che sta animando la vigilia della maturità 2018: è obbligatorio aver svolto tutte le ore di alternanza scuola lavoro per sostenere l’esame? In teoria sì, perché siamo alla fine del primo triennio pieno di funzionamento dello strumento. E quindi tutti i ragazzi di quinto dovrebbero aver svolto per intero l’alternanza (200 ore al liceo, 400 nei tecnici e professionali). Ma solo dall’anno prossimo sarà requisito di ammissione per l’esame.

M come Mappa concettuale
Alla maturità 2018 i maturandi potranno portare al colloquio orale un elaborato con cui cominciare l’interrogazione. Una delle forme previste è la cosiddetta mappa concettuale: una sorta di diagramma che riassume i collegamenti che lo studente ha fatto tra le varie materie, partendo da un argomento a piacere. Dal prossimo anno potrebbe essere sostituita dalla relazione sul periodo di alternanza scuola lavoro.

N come Notte prima degli esami
La canzone di Antonello Venditti è ormai diventata la colonna sonora di milioni di maturandi. Ma la notte prima dell’inizio della maturità è soprattutto il momento per raccogliere le idee e mettere a punto gli ultimi dettagli. Molti la passeranno pressoché insonne. Per loro Skuola.net ha in cantiere una diretta web che li accompagnerà fino alla campanella della prima prova, cercando di allentare la tensione della vigilia.

O come Orale
Il colloquio orale segna la conclusione dell’esame di Stato, l’ultimo sforzo prima del traguardo. In passato era incentrato solo su due materie (una scelta dalla commissione e una dal candidato), oggi è su tutto il programma di tutte le materie dell’ultimo anno. Più facile o più difficile? Meglio pochi argomenti ma approfonditi o tanti ma più generici? Dipende dai punti di vista.

P come Prove
Altra questione banale ma utile da ricordare: le prove della Maturità 2018, per l’ultimo anno, saranno quattro. Le prime due – quella d’italiano e quella d’indirizzo (al liceo scientifico, ad esempio, da sempre è matematica) – fanno ormai parte della storia dell’esame. La terza – il cosiddetto ‘quizzone’, sulle altre materie di competenza dei commissari – è stata introdotta dall’ultima riforma. Si chiude, ovviamente, con l’orale (anche qui su tutte le materie).

R come Riforma
Stavolta non parliamo di quella del passato ma di quella del futuro. Nel 2017, infatti, il Miur ha dato il via libera alla nuova maturità. A partire dall’anno scolastico 2018/2019, dunque, cambierà nuovamente la struttura dell’esame: abolita la terza prova, restano le prime due (a cui può essere assegnato un numero maggiore di crediti, fino a 20), sarà richiesta una relazione sull’alternanza scuola lavoro, si darà maggiore peso alla carriera scolastica (fino a 40 punti). Senza dimenticare, come visto, l’arrivo delle prove Invalsi nel corso del quinto anno, a cui bisogna partecipare per poter sostenere l’esame.

S come Saggio breve
È una delle nuove tipologie di tema introdotte dalla riforma Berlinguer. Durante la prima prova, infatti, i ragazzi possono scegliere tra ben sette tipi di elaborato. Così, tra le tracce, ce ne saranno quattro che affronteranno degli argomenti generali – una di stampo storico-politico, una artistico-letteraria, una tecnico-scientifica, una socio-economica – da sviluppare come si stesse scrivendo un piccolo saggio o un articolo di giornale.

T come Tesina
Lo strumento che ha salvato l’orale di un’intera generazione di diplomati, come visto, dal 2019 potrebbe venire sostituita da una relazione sull’esperienza di alternanza scuola lavoro. Ma, i maturandi del 2018, hanno ancora sicuramente l’opportunità di decidere da dove far partire il colloquio: si sceglie un argomento e lo si approfondisce in un elaborato che affronti varie materie. Se l’esposizione è convincente metà dell’opera è praticamente fatta.

U come Università
E dopo il diploma? Beh, quasi tutti vanno all’università. Secondo una ricerca, condotta sempre da Skuola.net, circa 2 maturandi su 3 si orientano verso gli studi accademici. Solo 1 su 10 cercherà subito lavoro.

V come Voto
Gli esami di maturità segnano anche la fine di un percorso. Ma a chiuderlo definitivamente, ci penserà la commissione elaborando un voto finale certificato dal diploma. Minimo 60 (per essere promossi), massimo 100 e lode. Ogni prova scritta vale un massimo di 15 punti, mentre l’orale può regalarne fino a 30 e il credito scolastico – basato sul percorso degli ultimi 3 anni – fino a 25. C’è anche la possibilità di 5 punti bonus, assegnati dai commissari, qualora il candidato abbia svolto un esame particolarmente brillante.

Z come Zero…bocciati
Lo dicono le statistiche: una volta ammessi alla maturità è praticamente impossibile essere bocciati. In base ai dati diffusi dal Miur alla fine di ogni ciclo di esami, la percentuale di ragazzi a cui verrà fatto ripetere il quinto anno si aggira attorno allo 0,5%. Quindi, niente paura: nonostante l’ansia della vigilia, la maturità quasi sempre non è altro che una formalità.

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Il sacro nel parco: le dieci cappelle del padiglione Vaticano

L’interno della “capanna” del giapponese Teronobu Fujimori, dove la croce s’innesta nell’elemento strutturale (Alessandra Chemollo)

L’interno della “capanna” del giapponese Teronobu Fujimori, dove la croce s’innesta nell’elemento strutturale (Alessandra Chemollo)

Dopo due esperienze nelle Arti visive, la Santa Sede da domani approda alla Biennale Architettura. Lo fa con un progetto importante, presentando dieci cappelle nel parco che occupa parte dell’isola di San Giorgio. Vatican Chapels (fino al 25 novembre) è dunque una tappa storica: ma non del dialogo tra Chiesa e contemporaneità. Questa è un’espressione che sottende un equivoco, ossia che le due siano enti separati chiamati a incontrarsi. Pare più giusto invece parlare di dichiarazione e presa di coscienza di come il cattolicesimo sia parte integrante e attiva della modernità.

Come spunto il curatore Francesco Dal Co ha proposto al Pontificio Consiglio della Cultura, e quindi a dieci architetti di tutto il mondo, la Skogskapellet, la Cappella nel bosco realizzata da Erik Gunnar Asplund tra 1918 e 1921 nel cimitero di Stoccolma. Capolavoro di misura ed essenzialità, fonde in sé il sentimento romantico della natura proprio del Nord Europa e una riflessione sulle radici dell’architettura classica, attraverso il rapporto primitivo tra tempio e capanna. Si tratta di una cappella funeraria e luterana, e quindi dotata di proprio e preciso spirito. Ma ciò che conta per Dal Co è il rapporto dell’architettura con lo spazio naturale, «un dialogo sottile e complesso» nel segno della contiguità fisica e spirituale, «un luogo di orientamento, incontro, meditazione» all’interno di un bosco come «evocazione del labirintico percorso della vita e del peregrinare dell’uomo in attesa dell’incontro ».
Una dimensione simbolica ben rievocata nell’allestimento nel bosco di San Giorgio, dove l’esiguità della superficie è compensata dall’estensione metafisica della laguna. Gli architetti sono Andrew Berman (Usa), Francesco Cellini (Italia), Javier Corvalán (Paraguay), Eva Prats e Ricardo Flores (Spagna), Norman Foster (Regno Unito), Teronobu Fujimori (Giappone), Sean Godsell (Australia), Carla Juaçaba (Brasile), Smiljan Radic (Cile), Eduardo Souto de Moura (Portogallo). Lasciati liberi davanti al tema, la maggior parte ha esplorato il rapporto con l’ambiente aperto tralasciando la cappella di Asplund per guardare invece a esempi vicini, più spesso nel segno della presenza forte (Zumthor, Botta…) che della fusione con la natura.

Il catalogo Electa presenta per ogni cappella un testo dell’architetto, schizzi e bozzetti, le tavole del progetto, la documentazione fotografica del montaggio e dell’edificio costruito. Gianfranco Ravasi in catalogo spiega che «cappella è una chiesa piccola, riservata a un ristretto numero di fedeli, con eventuale apparato rituale comprenden- te altare e ambone». Non tutte le dieci cappelle però si conformano in toto a questa definizione. In altre proprio l’introduzione di un altare le completerebbe in maniera essenziale: è il caso di Javier Corvalán, che propone un grande cerchio sospeso su cui si libra una croce tridimensionale. È uno spazio ricco di potenziale ma astratto: una mensa, centro non fisico ma teologico, ne attiverebbe tutta la forza simbolica. In alcune bisogna dire che sorprende l’assenza di un segno religioso in favore di una visione piuttosto lata della spiritualità.
Andrew Berman crea uno spazio estremamente concentrato, ma il piccolo altare in legno nel buio su cui scende una luce è rimando a una presenza tanto flebile da sembrare dispersa. Norman Foster, che pure evoca le croci, realizza una struttura tecnicamente spettacolare in legno e acciaio: ma il percorso, nonostante la bella idea del mutamento di direzione, non ha una conclusione, la cappella si disperde nel paesaggio e quello che pare essere l’altare è un oggetto inaccessibile.

Molte altre cappelle invece colgono perfettamente nel segno, dimostrando una riflessione sulla specificità spirituale dello spazio cristiano. La cappella di Fujimori è uno degli apici del percorso. La sua è una capanna, un luogo tranquillo. Vi si entra per una porta strettissima. L’interno è bianco, un’impalcatura in legno regge una semplice falda. Ma proprio nell’elemento strutturale Fujmori innesta la croce, fatta emergere all’incontro tra traversa e pilastro da piccole foglie d’oro e tre chiodi. La parete di fondo è cosparsa da pezzi di carbone, assenti dietro la croce così da creare un alone luminoso.

La cappella della brasiliana Carla Juaçaba, due croci che si rispecchiano dando corpo al luogo (Alessandra Chemollo)

La cappella della brasiliana Carla Juaçaba, due croci che si rispecchiano dando corpo al luogo (Alessandra Chemollo)

Se la croce è struttura dello spazio, su di lei converge il silenzio. Anche Juaçaba chiama la croce a dare corpo al luogo. Due grandi croci in acciaio, una verticale e una parallela al terreno con funzione di seduta, nascono da un punto comune e definiscono le coordinate. Non ci sono muri. La natura sacralizzata si riflette nella superficie lucida. Come nella cappella nel bosco realizzata da Paolo Zermani sull’Appennino parmense nel 2012, non c’è altare ma non importa: è un luogo per la preghiera, sosta nel mezzo di un lungo cammino.

La cappella dell’australiano Sean Godsell (Alessandra Chemollo)

La cappella dell’australiano Sean Godsell (Alessandra Chemollo)

La cappella di Godsell trasforma lo spazio attorno a sé connotandolo come liturgico. È un alto parallelepipedo in acciaio: le parti inferiori si alzano formando una croce e rivelando all’interno un altare. Un piccolo leggio pieghevole è ancorato alla struttura. La parte interna del volume, una sorta di alto tiburio aperto alla sommità, è di colore dorato così da gettare sul sacerdote una luce di qualità differente. Grazie alla forza centripeta della cappella, la natura circostante, luogo dell’assemblea celebrante, diventa parte stessa dell’architettura.

La cappella in blocchi modulari di pietra di Vicenza realizzato dal portoghese Eduardo Souto De Moura (Alessandra Chemollo)

La cappella in blocchi modulari di pietra di Vicenza realizzato dal portoghese Eduardo Souto De Moura (Alessandra Chemollo)

Souto De Moura offre un capolavoro commovente. Un recinto in blocchi modulari di pietra di Vicenza, in parte coperto da due lastre monolitiche. È un luogo caldo e rigoroso, austero e famigliare. Uno sbalzo corre tutto attorno al perimetro interno, come una seduta che avvolge un semplice altare, essenziale a creare il luogo. Una croce è incisa sul fondo. Precede l’ingresso un piccolo vano quadrato, memoria di un nartece. Qui il tempo rallenta, si entra in uno spazio altro e insieme concreto.

L'interno della cappella di Eduardo Souto De Moura (Alessandra Chemollo)

L’interno della cappella di Eduardo Souto De Moura (Alessandra Chemollo)

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