Terremoto Emilia, un mese dopo è già incubo L’Aquila

La spiegazione della Roberta è di una semplicità disarmante: «Il nostro capannone è lesionato e senza un contributo pubblico tra qualche mese getteremo la spugna: a cinquanta-sessant’anni non ti carichi sulle spalle un mutuo». Il suo bar è agibile. Si trova di fronte alla Coop Estense, la quale non ha una crepa e ha riaperto, precisano in direzione, «senza alzare i prezzi», del resto le nettarine stanno già a 3,64 euro… Il marito di Roberta è carrozziere e fino a un mese fa gestiva un’officina che invece è crollata il 29 maggio. «Abbiamo cinquant’anni – racconta lei tra bicchieri di lambrusco e vassoi di tigelle – e siamo la generazione della ceramica, siamo venuti su con il boom del distretto di Sassuolo. Avevamo appena finito di pagare i debiti. Ora, piuttosto che ricominciare da zero mio marito andrà sotto padrone».

L’Emilia che non si rassegna al terremoto potrebbe arrendersi alla burocrazia della ricostruzione, che ha tempi insopportabili per chi è abituato a produrre ogni anno un punto di Pil. «La voglia di riprendersi c’è, tant’è che abbiamo “riaperto” subito la scuola materna nel cortile dell’oratorio per consentire ai genitori di tornare al lavoro» conferma Antonella Diegoli, maestra “a righe” (cioè di italiano) e anima del campo estivo del seminario. Fa da chioccia alle mamme del circondario. «Io lavoravo alla Moma, facevamo le piastrelle speciali – dice Claudia Storari –; adesso l’azienda è chiusa e i macchinari vanno ricalibrati. Chissà quando tornerò in reparto». Incertezza. Giornate che passano. Claudia e la sua famiglia dormono nel garage di casa. Monia Ferranti ha dovuto adattarsi alla tendopoli, campo 2. «Non è semplice dividere la tenda con altre famiglie, non hai più il tuo mondo e non è chiaro quando te lo restituiranno – ci racconta –. Le verifiche sulle case procedono, ma le imprese sono ferme e per la normalità servono i soldi: se ogni mattino non esci dal campo a fare la spesa, a camminare in centro, a prendere un gelato, come arrivi a sera?» Si accalora: «Ci guardano come dei marziani perché la terra trema e noi vogliamo tornare in fabbrica ma il lavoro ti dà un senso di libertà che ora abbiamo perso». Conclusione gelida: «Lasciarci senza informazioni e prospettive, come sta accadendo, è crudele».

L’incubo dell’Aquila si materializza. La ricostruzione annunciata, tentata, frenata, polemizzata, comprata e venduta, insomma sprecata. E infinita. I finalesi affidati all’assistenza della Protezione civile sono duemila su sedicimila. Gli edifici danneggiati quattromila. Pochi si adattano a dormire nelle tende promiscue della Protezione civile, dove in questi giorni si superano i quaranta gradi e non si contano le dermatiti, gli eritemi, le infezioni. Scabbia e pidocchi in agguato. «Sono rimasti – bofonchia un’anziana – solo quelli dei mondi loro, ormai qui sono i padroni». Anche l’Emilia progressista, quando ti crolla tutto addosso, se la prende con l’immigrato. Il rischio di una ghettizzazione è reale. Ci mettono una pezza gli scout e i salesiani, i volontari delle parrocchie e dei centri di aiuto alla vita, la Caritas, ma lo scenario resta quello di una terra grassa che un bel giorno cade nel vuoto, oltre tutto un vuoto torrido e afoso. A Finale, non è ancora apparso un condizionatore d’aria, figurarsi i megaschermi, che aiuterebbero ad ammazzare la noia: la Rai ne ha installato uno nei giardini De Gasperi, ma si accende solo se gioca la nazionale. Quant’è distante l’Abruzzo e quanto sono distanti le sue tendopoli che traboccavano di ogni ben di Dio, Berlusconi con il caschetto, Bertolaso con tanti soldi, la ressa dei volontari, la lista di nozze e la pioggia di donazioni… Te lo dice lo sfollato: «A non farsi compatire ci si perde, a tal digh mi!»

La maggioranza ha piantato la tenda in giardino – li chiamano “campeggi” perché “tendopoli” pare brutto – e vorrebbe rimboccarsi le maniche alla friulana, ma il sindaco, Fernando Ferioli, ammette: «il governo centellina le risorse ed è stato sospeso il patto di stabilità, tuttavia servono strutturisti che non possiamo assumere e vorremmo far lavorare le ditte locali che ne hanno bisogno, ma non è semplice. Soprattutto, ai vertici non c’è ancora un’idea su come saranno gestiti i fondi, quando arriveranno i miliardi promessi e quanto copriranno realmente gli indennizzi per aziende e abitazioni». Confindustria Modena riunirà lunedì i suoi associati a Mirandola per fare il punto sul decreto legge 74/2012. «Due miliardi e mezzo non basteranno – dice il direttore Giovanni Messori –. Vogliamo sapere al più presto quale sarà la percentuale di contributo a fondo perduto per la ricostruzione delle imprese; qui ci sono parecchie medie e grandi aziende, con un numero elevato di dipendenti, e ogni giorno che passa è una fetta di mercato che se ne va».

La rivendita di legname dei Ferraresi, nel centro del paese, rifornisce l’edilizia locale dal 1890. È stata colpita dalle scosse ma non ha chiuso mai e Chiara, la titolare, ora denuncia: «non si capisce chi decida». Invoca il modello Umbria: «una moratoria fiscale di dieci anni». La paura del futuro fa emergere vecchie rivalità: «Anche le piccole imprese hanno bisogno di certezze, la nostra non è solo la terra delle multinazionali del biomedicale, non c’è solo Mirandola». Interviene papà Enzo, ottant’anni: «Eravamo una piccola capitale sotto gli Este, noi siamo ferraresi diventati sudditi dei modenesi. Purtroppo il terremoto ha distrutto il nostro glorioso passato» e indica il pezzo di cielo in cui si ergeva la torre dei Modenesi. Al terremoto una sola concessione: «Questo era un paese laborioso ma chiuso – ammette il patriarca – la televisione ci aveva rimbecilliti tutti, e da quando siamo in difficoltà ci siamo ritrovati». Ogni sera, nel cortile dell’azienda si riuniscono infatti le famiglie della via. Gnocco fritto e discussioni senza fine su come ripartire. Anche senza tornare sotto Ferrara.

Paolo Viana – avvenire.it