Adolescenti. «Non esco più di casa». Quei figli che si tagliano fuori

Nel 2020, 540mila ragazzi hanno lasciato la scuola dopo le medie Salgono le richieste di aiuto psicologico Genitori disorientati e da aiutare. Parla la psicologa Alessia Lanza
«Non esco più di casa». Quei figli che si tagliano fuori
Avvenire

Abbandonare la scuola, gli amici, lo sport e la vita all’aperto per chiudersi nella propria stanza. Il ritiro sociale degli adolescenti, disagio che mette a dura prova sempre più famiglie, è emerso con tutta la sua drammaticità con la pandemia e oggi è in aumento in Italia e in tutta Europa. Lo scorso anno ben 543mila giovani hanno lasciato la scuola dopo la licenza media e sta crescendo il numero di richieste di presa in carico da parte dei servizi di neuropsichiatria infantile per problemi psicologici di adolescenti.

Di questa sofferenza nascosta ha parlato, nell’ambito del ciclo di incontri ‘Le conquiste della medicina al servizio della persona’ organizzati a Milano dalle Fondazioni Ambrosianeum e Matarelli, la psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro Alessia Lanzi, che si occupa da dieci anni di ragazzi ritirati. «Gli hikikomori giapponesi hanno rappresentato il primo segnale di allarme – spiega –. Il Covid è stato un detonatore che ha portato alla luce un fenomeno sociale, un disagio della generazione adolescenziale che in realtà si manifesta già da anni. I ragazzi sono stati chiusi in casa, davanti allo schermo per la didattica a distanza (Dad). Purtroppo la Dad, anche se ha avuto il merito di mantenere un legame con la scuola, non si è rivelata un’esperienza di aiuto alla crescita anche perché la maggior parte degli insegnanti non era pronta a un cambiamento di mentalità. Molto spesso è stata una trasposizione di quello che accadeva nella realtà della classe e ha comportato tanti disturbi legati l’isolamento».

Secondo la psicologa, il ritiro sociale colpisce soprattutto i maschi e non riguarda solo determinate classi sociali. «Non ha a che fare con famiglie che hanno un reddito basso o che vivono nelle periferie – chiarisce –. Il ritiro si può trovare anche in una famiglia in cui tutto è andato sempre bene, in cui i genitori lavorano e con uno status sociale ed economico alto. Possiamo parlare di un disagio trasversale ». Le richieste di aiuto arrivano soprattutto dai genitori. «È difficile che un ragazzo ritirato voglia uscire dalla sua situazione e questo accade non perché questi adolescenti siano svogliati, non perché stiano bene, in realtà soffrono tantissimo, – continua –. Ma perché percepiscono, nella situazione di blocco, che non c’è futuro, che non c’è speranza. Quindi si adagiano in una situazione di dolore psichico molto profondo senza trovare risorse per poterne uscire».

Una sofferenza che si rispecchia nei genitori, a loro volta in grande difficoltà perché si scoprono impotenti. «Sono nell’impossibilità di esercitare il proprio ruolo genitoriale e si sentono molto frustrati, ma d’altra parte si trovano impreparati di fronte a questa sintomatologia perché ci raccontano di bambini che in passato sono stati meravigliosi e amati nel contesto sociale. Bravi a scuola, intelligenti, bambini che non hanno mai dato problemi. Bambini che sono stati guardati dai genitori e dai familiari pensando che avrebbero fatto grandi cose. Forse c’è stato da parte dei genitori un iperinvestimento, l’aspettativa di un progetto grandioso che questi bambini avrebbero potuto realizzare diventando grandi. Dall’altra parte ci sono anche genitori che hanno preservato molto questi bambini dalla possibilità di sperimentare dolore e frustrazione».

L’esordio del ritiro, come descrive Lanzi, avviene in momenti di passaggio generazionale: per esempio, in terza media oppure nell’ultimo quadrimestre della quarta superiore. Si manifesta in quei momenti in cui ci si affaccia a un cambiamento. I ragazzi ritirati non hanno necessariamente alle spalle episodi traumatici, né hanno vissuto a scuola bullismo o prevaricazioni violente. A volte l’episodio che fa scattare la chiusura è un commento o una situazione un po’ difficile. «È come se quell’evento apparentemente poco importante crei una frattura nell’individuo – osserva Lanzi –. Si tratta di un momento di grande crisi perché è accompagnato da una profondissima vergogna. Quell’episodio nella loro mente li fa sentire non adatti a crescere. Cominciano a pensare che forse quelle aspettative che tutti avevano nei loro riguardi non si tradurranno mai in realtà. La vergogna è un sentimento che porta a voler sparire dalla scena, a voler non esserci più. Questo si accompagna a un fortissimo sentimento di inadeguatezza». Iniziano spesso i disturbi che molti genitori conoscono bene, come mal di pancia, mal di testa, disturbi del sonno, accompagnati da promesse di tornare a scuola l’indomani.

«I ragazzi, però, non hanno disinvestito sulla scuola, anzi per loro la scuola è importantissima perché significa far vedere quanto valgono – sottolinea la psicologa –. Se arriva un brutto voto può succedere che ci si chiuda e si cominci a non andare più a scuola, in modo che il ritardo si accumula. Poi è difficile rientrare tra i banchi e lentamente ci si sfila». Questi ragazzi hanno comunque un forte desiderio di conoscere e in segreto coltivano interessi curiosità, a volte quasi da adulti. «Mi capita di incontrare adolescenti che sono esperti di matematica, meccanica, scienze, storia e fumetti manga – racconta Lanzi -. Oppure ragazzi che vivono nel mondo virtuale. Stanno attaccati alla rete giorno e notte, a volte invertendo il ritmo sonno-veglia. Internet in questi casi è una via di fuga al buio totale. Il problema è che è l’unico luogo in cui sperimentano».

Ma le tipologie di ritiro sono molto diverse, come evidenzia l’esperta, ci sono anche adolescenti che possono sviluppare sintomatologie psicotiche gravi. A questo punto ci si chiede che cosa possiamo fare per loro. «Le rassicurazioni degli adulti non bastano per infondere coraggio e far tornare questi ragazzi sul palcoscenico sociale – commenta la psicoterapeuta –. Viviamo in un mondo in cui i valori e i punti di riferimento sono stati un po’ stravolti. Oggi risulta difficile per un genitore rassicurare e dire ai propri figli che le cose andranno in un certo modo, che troveranno un lavoro adatto o fare in modo che la propria esperienza possa essere messa al loro servizio. Possiamo dire che bisogna trovare un nuovo modo di essere genitori, con nuovi punti di riferimento. Partendo dal fatto che bisogna provare ad ascoltare un po’ di più per capire di cosa hanno bisogno e costruire nuove risposte proprio perché i bisogni che esprimono sono nuovi».

Una caratteristica rilevante è che gli adolescenti ritirati stanno vivendo un momento di stallo in cui la loro progettualità futura è sospesa. «Non vedono un futuro per loro e si sentono senza futuro – considera Lanzi –. Ma così è difficile tener viva la speranza che si possa stare meglio e che ci sia una soluzione ai propri problemi. Si rende necessario recuperare questi ragazzi nel punto in cui si sono fermati e cominciare ad entrare in ascolto con il deserto relazionale che stanno vivendo. A volte sono andata a casa loro cercando di vivere insieme il buio, il vuoto, lo schermo acceso e provare a capire che cosa è successo. Piano piano si costruiscono delle ‘azioni parlanti’ che possono davvero permettere di uscire da quella situazione. È difficile che dal ritiro si esca soltanto con colloqui di psicoterapia, che pure sono importanti.

Si può dire che accanto alla ‘stanza delle parole’ si debba attivare una ‘stanza di sperimentazione’. Spesso è il ‘fare’ che riattiva i pensieri. Un ‘fare’ che dev’essere fare guidato, che ha un significato importante, cioè vuol dire tornare a sperimentare, a conoscere ed esplorare nuove parti di sé che appaiono più funzionali a costruire relazioni con gli altri, più competenti per poter sostenere la complessità del mondo. Attraverso una sperimentazione reale, laboratori con i ragazzi, partendo da attività espressive o manuali si riattiva la speranza». Per questo le nuove prospettive di trattamento degli adolescenti, come quelle del Minotauro che ha fatto da apripista in questo campo, mirano a costruire interventi multifocali, quindi anche luoghi in cui si possano accompagnare i ragazzi a sperimentare e a costruire nuove parti di sé per completare un’identità adulta. Questo tipo di lavoro coinvolge anche i genitori, che devono responsabilizzarsi e mettersi in gioco, oltre alle agenzie educative che si occupano dei giovani.

«Tutti dobbiamo cercare di capire come fare ad aiutare questa nuova generazione – conclude la psicoterapeuta –. Il fatto, per esempio, di aver voluto tenere lontano i figli dal dolore forse li ha resi molto fragili. Da una parte li ha protetti, dall’altra gli ha restituito un’immagine di sé come di incompetenti, che non possono soffrire o avere momenti di difficoltà nella vita. Mentre è importante riuscire a resistere nelle situazioni difficili, pensare che qualcosa di buono si può sempre fare, che le situazioni si possono cambiare e trasformare. Proprio nella sperimentazione quotidiana di un qualcosa, di un fare, si può costruire un nuovo modo di pensare anche a se stessi e alla propria crescita. Cioè, rimettere in moto il pensiero su di sé. Forse accanto all’adulto competente, che sa cosa è bene e cosa è male, si può affiancare un adulto che si fa mentore, cioè che porta la propria esperienza che può essere condivisa e dalla quale si può ricavare un nuovo sapere».

“Seme diVento”, il progetto per gli adolescenti

È dedicato agli adolescenti il nuovo progetto “Seme diVento” che è stato presentato lunedì 12 luglio, alle 15, in diretta streaming. Elaborata dal Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, insieme all’Ufficio Catechistico Nazionale e all’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, l’iniziativa rappresenta un impegno condiviso per incontrare gli adolescenti con tutta la comunità cristiana, aprendo processi educativi che la possano rinnovare profondamente.

“Quello che è successo nell’ultimo anno ci porta a prendere in considerazione questa età in un modo nuovo. Non si diventa grandi da soli. Siamo convinti che i ragazzi abbiano molto da dire alla comunità ecclesiale, in quanto portatori del futuro che è provocazione, richiesta di essere seme del vento cristiano nella storia di oggi”, sottolinea don Michele Falabretti, responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile. Il titolo del progetto, aggiunge, fa riferimento all’adolescenza come ad “un momento di semina” e, con un gioco di parole, ricorda che “’il termine ‘divento’ non indica solo il divenire, ma anche l’idea di una formazione che tiene conto dell’aspetto umano e del vento dello Spirito che rinnova la vita”.

Obiettivo del percorso, che nasce “per aiutare gli adolescenti a recuperare la bellezza che è una prerogativa della loro età”, è “ascoltarli e dialogare con loro” oltre che fare “una verifica per capire come la comunità cristiana si è posta nei loro confronti”, aggiunge mons. Valentino Bulgarelli, direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale. L’invito è a “lasciarsi raggiungere dal grido degli adolescenti”, osserva fra Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, per il quale “questo strumento potrebbe aiutare a creare una comunità capace di accoglierli”.

Nel corso dell’incontro di presentazione, Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia, ha presentato i risultati di un’indagine sugli adolescenti condotta nell’ambito del progetto. Pierpaolo Triani, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha illustrato le linee pedagogiche nell’incontro con gli adolescenti, mentre i direttori dei tre Uffici promotori si sono soffermati sulla dimensione pastorale.

Adolescenti e fede

settimanannews

Sembrano imprendibili. Gli adolescenti (circa da 12 a 18 anni) sfuggono alle cure educative scolastiche come a quelle ecclesiali. Non è difficile incontrare genitori esasperati dalle loro sfide. Eppure è una stagione decisiva dove fioriscono le possibilità, anche in ordine alla fede. Il n. 12 (2018) di Documents episcopat, edito dalla segreteria della Conferenza episcopale francese indica attraverso una decina di brevi saggi le sfide maggiori dell’età: educative, missionarie ed ecclesiali.

Trascinati dai tumultuosi cambiamenti del corpo, della mente e della coscienza i ragazzi sono costretti a rispondere alla perenne domanda «Chi sono io?» in un contesto in cui la norma sociale sembra scomparsa, mentre si moltiplicano le ingiunzioni (vestiti, linguaggi, musica ecc.) e diventa martellante l’imperativo all’autonomia.

Riconoscere il bene, apprendere a scegliere, vivere in relazione: sono le sfide educative maggiori.

Digitali e gaudenti

Lo spazio numerico e il gioco sessuale sembrano le caratteristiche più intriganti della nuove generazioni. I «nativi digitali» (definizione peraltro assai discussa) vivono lo spazio numerico come obbligatorio. Le loro capacità sono frutto di apprendimento nell’imitazione. Diventano digitali, non nascono tali. Ne assumono gli imperativi: «immediatezza, illimitatezza e continuità rappresentano i tre piloni del digitale».

L’essere sempre connesso non è solo un compito ma uno spazio di personalità che si aggiunge all’«Es – Ego – SuperEgo» della tradizione freudiana. Così vengono identificati i punti che caratterizzano i «ragazzi mutanti»:

– i “mutanti” non sono più psicosocietariamente sagomati per integrare l’autorità di tipo paterno;

– non sono più psicosocietariamente sagomati per integrare i modi di apprendimento fondati sulla “sottomissione” al sapere di un maestro;

– non imparano il rispetto se non a partire dal rispetto che è loro accordato;

– apprendono da noi (adulti) da ciò che ci vedono fare e non da ciò che ordiniamo loro di fare;

– conversazioni e negoziazioni “egualitarie” diventano gli strumenti privilegiati del co-sviluppo nostro e dei nostri ragazzi». La frattura generazionale manifesta spesso più la paura degli adulti che la reale situazione degli adolescenti.

Nei confronti della sessualità la sfida che essi affrontano è quella di riconoscere lo statuto del corpo, l’unità della loro persona e il senso dei gesti e degli atti. Si tratta di un orizzonte antropologico rispetto a cui le liste normative risultano incomprensibili.

Il sesso è vissuto anzitutto come un puro gioco di piacere, sottomesso all’unica regola del consenso. Una vertigine immediata senza durata e senza impegno. La paratia del genere diventa fluida e, al di là delle infinite discussioni della teoria di genere, essa condiziona la vita affettiva e sessuale degli adolescenti, trascinati dai modelli loro proposti dalla cultura mediatica.

La sessualità tende e diventare il gioco dei possibili e si espande sull’onda di desideri molteplici e fluttuanti. L’atto sessuale si riduce ad esperienza, anche quando è di tipo omosessuale o bisessuale.

I modelli di conformità sono, da un lato, quelli della pubblicità e, dall’altro, quelli della pornografia, che «è la principale fonte d’informazione e di formazione in materia sessuale per gli adolescenti».

Ma proprio il rapporto meccanico e disconnesso dall’emozione trasmesso dalla pornografia rilancia l’esigenza, assai viva nei ragazzi, dell’unità della loro persona e del pericolo di una intima dissociazione quando il corpo, proprio e altrui, è ridotto a strumento. Da qui nasce una presa di coscienza non solo della propria unità di persona, ma anche di un dono di sé libero e responsabile. Il controllo dei gesti non è più castrazione, seppur raggiunto attraverso prove ed errori.

Si apre così una nuova confidenza con l’adulto, chiamato ad accompagnare e a non forzare le tappe. Fino alla scoperta dell’interiorità che abita il corpo, al silenzio meditativo che alimenta la persona, alla capacità di stare con se stessi nel dono ad altri.

L’«io» e il «credo»

Il percorso catecumenale sembra quello più adatto ad accompagnare la formazione di fede nei ragazzi. A partire dalla loro consapevolezza di vedere morire il bambino che è in loro a favore di un nuovo adulto, percezione che si avvicina al compito del cristiano di lasciare morire l’uomo vecchio per una nuova vita. Al momento della crescita il bambino che diventa adolescente impara a pensare da solo, ad agire per propria volontà, ad essere un «io» di fronte agli altri.

Il percorso catecumenale trasforma similmente un simpatizzante della Chiesa in una persona che è in grado di dire «io credo». Così i piccoli gesti di emancipazione si possono collocare accanto al rito di passaggio della cresima. Un cammino da fare in gruppo e dentro le relazioni che si istaurano con i leader di fatto e quelli proposti dagli adulti. A questi ultimi compete in particolare il delicato compito dell’accompagnamento. Esso conosce la pazienza della crescita, la scansione delle tappe, la dimensione relazionale e sociale.

«Accompagnare un bambino, un adolescente sul cammino di fede, significa sforzarsi di creare le condizioni di un incontro con Cristo, è la proposta di partire alla sequela di Cristo in un cammino che gli sia proprio. Insomma, si tratta di aiutarlo a udire l’appello del Cristo dentro la sua vita,  a scoprire la vocazione che gli è propria e a rispondervi».

Le piccole decisioni alla loro portata hanno l’effetto di strutturare e rilanciare energie per passi ulteriori. È camminando che si impara a camminare, permettendo di intuire il filo rosso dello Spirito che attraversa le singole decisioni. L’appello vocazionale è del tutto funzionale alla costruzione dell’identità personale.

L’insieme della comunità cristiana e i singoli educatori sono chiamati a vivere la relazione educativa all’insegna di tre gesti fondamentali: «io credo in te», «io spero con te», «ti amo alla maniera in cui Cristo ti ama». Sapendo che sempre meno saranno i ragazzi che vengono alla Chiesa e sarà necessario raggiungerli nei luoghi che loro frequentano.

Un insegnamento “dall’alto” non funziona più. «I giovani vogliono essere attori delle loro scoperte, apprendono meglio se sono interattivi con quanto proponiamo loro. Entrare nei loro modi di funzionamento, utilizzare i loro strumenti mediali, non può che aiutarci  a entrare in una dinamica nuova dell’annuncio con gli strumenti del nostro tempo».

La messa e i riti

E la messa? «Troppo lunga, sempre la stessa cosa, sempre lo stesso che parla», «Bella negli incontri con gli altri, ma la domenica senza gli amici è noiosa», «Non si capisce niente delle parole del prete e dei lettori… persino in classe si possono fare domande», «Andarci coi genitori è banale e poi ci sono solo vecchi»: l’asprezza adolescenziale delle affermazioni (alcune del tutto condivise anche dagli adulti) non nasconde la sfida esplosiva contenuta nel rito, di un mistero che si svolge davanti e con noi, che decentra la vita, che interrompe forzosamente i nostri tempi, che ci obbliga all’interiorità.

Non è facile per l’adolescente capire lo scarto fra la turbolenza interiore prodotta dal rito e il suo aspetto immutabile. «Penso che la messa faccia problema perché è fonte di angoscia per molti adolescenti e adulti che hanno sempre meno l’abitudine al silenzio e alla gestione delle frustrazioni». «Dobbiamo riconoscere la scomodità rappresentata dalla messa e come essa richieda delicatezza e accompagnamento da parte nostra».

Due le piste proposte: il rito e la partecipazione della famiglia. La ritualità è necessaria a tutti e vivere l’eucaristia con la famiglia o con gli educatori è l’unico mezzo per renderla feconda ai ragazzi.

Documents episcopat propone nella seconda parte della rivista una serie di esperienze pratiche di associazioni e di movimenti che sono propri della tradizione francese come il lavoro nelle scuole cattoliche e nelle cappellanie scolastiche, l’azione educativa delle nuove comunità, i pellegrinaggi giovanili e l’esperienza delle «chiese dei giovani». Ve ne sono altri, come lo scoutismo e l’associazionismo cattolico, che valgono anche nel contesto italiano.

Mi limito ad evidenziare il ruolo di Taizé che è qui ricondotto alla sua introduzione alla preghiera. «Tre dimensioni della preghiera a Taizé sembrano fare eco alla ricerca dei giovani: una preghiera accessibile, una preghiera meditativa, una preghiera del cuore».

La preghiera della comunità aperta a tutti è stata progressivamente smagrita e limata per accogliere l’attenzione più estesa possibile. Il canto su testi brevi della Scrittura in forma responsoriale e ripetitiva facilita la meditazione. «Attraverso il canto, il silenzio, i giovani si scoprono capaci di un cuore nuovo, di un cuore semplice nel senso etimologico della parola, di un cuore contrito».

Come io ho amato voi. Vivere la misericordia: un training per adolescenti

Vivere la misericordia: un training per adolescenti. L’anno della misericordia sta ormai per iniziare, ma come fare per aiutare gli adolescenti a viverlo al massimo delle loro possibilità? La sfida è dura, e sappiamo che in questi giorni sono molti i catechisti alla caccia di idee interessanti. Così noi Paoline abbiamo appena consegnato alle nostre librerie e store un percorso tutto da scoprire e vivere.

Come io ho amato voi, è un itinerario in sei tappe che, tra canzoni, dinamiche di gruppo, esperienze da vivere, esercizi concreti, può aiutare catechisti e ragazzi ad allenarsi in misericordia.

Per ogni tappa gli atleti della misericordia (i ragazzi) dovranno allenarsi instancabilmente su un particolate atteggiamento. Per ogni atteggiamento ci sarà con loro un compagno di viaggio, un personaggio biblico che lo avrà già vissuto in prima persona. Ad attenderli al traguardo? Naturalmente le braccia del Padre.

Vi aspettiamo in libreria Paoline Reggio Emilia

  • Via: Emilia S. Stefano, 3/b
  • Cap: 42124
  • Città: Reggio Emilia – RE
  • Telefono: 0522 437620
  • Fax: 0522 541915
  • E-Mail: libreria.re@paoline.it

Buon allenamento!

Segnalazione web a cura di webmastersantostefano@simail.it

Giovani attratti dall’azzardo: il 12 per cento gioca on line

Un bambino su quattro in Italia è coinvolto dal fenomeno del gioco a soldi. Fra i più piccoli è molto popolare il Gratte e vinci. Fra gli adolescenti invece prevalgono le scommesse sportive. È l’allarme lanciato da Telefono Azzurro ed Eurispes che oggi hanno presentato alla Camera dei deputati l’Indagine conoscitiva sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia edizione 2012.

PICCOLI GIOCATORI CRESCONO

Se l’82,9% dei bambini (7-11enni) cui è stato sottoposto il questionario di Telefono Azzurro e Eurispes dichiara di “non aver mai giocato online a soldi”, la percentuale scende al 74,1% per il gioco a soldi non online: in pratica oltre 1 bambino su 4 è coinvolto dal gioco. Un “fenomeno la cui portata e rilevanza non devono essere assolutamente sottovalutate”, avvertono gli autori dello studio. Il Gratta e vinci piace: lo preferisce il 33,7% dei bambini ‘giocatori’, mentre l’11,4% e l’11,1% ha giocato rispettivamente alle Lotterie e al Bingo. I bambini non sono immuni nemmeno a Videopoker e le Slot machines: ci ha giocato rispettivamente il 7,8% ed il 6,9% dei bambini ‘giocatori’. E il 13% di chi non l’ha mai fatto vorrebbe farlo. Il 18,9% dei bambini riferisce di aver giocato per puro divertimento, l’11,1% per l’emozione che suscita il gioco o perchè lo ha visto fare ad amici o parenti, mentre il 9% sostiene di averlo fatto per vincere soldi e/o premi.
ADOLESCENTI PAZZI PER LE SCOMMESSE
Il gioco a soldi on line coinvolge il 12% degli adolescenti (il 2,5% gioca spesso). Percentuale che sale al 27% nel caso del gioco non online. Uno su 5 dei giocatori online è attratto dalle scommesse sportive che stimolano i ragazzi a giocare più spesso per soldi. Se si somma il dato di chi scommette sullo sport qualche volta o raramente si sfiora il 44,6% dei giocatori off line. Altrettanto amato il Gratta e vinci: compra i tagliandi il 49,6% dei giocatori che non ricorrono all’on line. Gettonato anche il poker (32,3% dei casi). Le slot machines si ‘fermanò al 21,5% delle preferenze. Uno degli episodi che capita più di frequente ai ragazzi è quello di perdere molti soldi: capita infatti al 24,9% di quanti giocano. Di questi sente di frequente l’esigenza di giocare il 25,2%. Il 16,4% dei ragazzi tende a giocare tutti i soldi che ha a disposizione e il 15,1% ha l’abitudine di sottrarre soldi in casa o dove capita. Il 13,7% chiede soldi in prestito ad amici o parenti.
CONSUMO DI ALCOL IN AUMENTO
Il 64% dei ragazzi di 12-18 anni dichiara di bere alcolici. È quanto emerge dall’Indagine. Si tratta quasi di un’abitudine per il 10,6% e per il 2,5% che ne fa un uso quotidiano, mentre sceglie qualche volta questo genere di bibite il 50,9%. Solo il 35,2% dei ragazzi afferma di non essere interessato all’alcol. Il consumo di alcolici sembra avere inizio soprattutto nel periodo della scuola media: è così per il 65,7% dei ragazzi più giovani (12-15 anni) e per il 44,1% dei più grandi. Questi ultimi – ben il 46,2% – dichiarano, inoltre, di aver bevuto alcolici la prima volta dopo i 15 anni. Allo stesso tempo si deve sottolineare anche che il 21,1% dei protagonisti della ricerca aveva meno di 11 anni quando hanno bevuto la prima bevanda alcolica.
avvenire.it

Nulla oltre il pc. Isolati in casa, senza scuola né amici: la nuova malattia

Nulla oltre il pc. Isolati in casa, senza scuola né amici: la nuova malattia
Antonella Mariani
Li chiamano “reclusi sociali”, adolescenti eremiti”, “ragazzi spariti”: sono le vittime della nuova patologia che colpisce i nostri teenager, fenomeno in espansione ma di cui in Italia si sa e si parla ancora poco. Non vanno a scuola, rifiutano ogni contatto con l’esterno (genitori compresi), si barricano nella loro cameretta per mesi, talvolta anni, e vivono incollati al pc, sempre connessi, immersi in una realtà puramente virtuale, svegli di notte e svaniti nel sonno di giorno. In Giappone gli hikikomori (termine che tradotto in italiano suona come “stare in disparte, isolarsi”) raggiungono il terrificante numero di un milione: in una società competitiva fin dall’asilo, in cui l’insuccesso è vissuto come intollerabile e come vergogna sociale, l’autoreclusione è la patologia più diffusa fra i ragazzi che non stanno al passo delle aspettative altrui. Meglio barricarsi in casa e scomparire al mondo piuttosto che affrontarlo. Ma quanti sono gli hikikomori d’Italia? «Dalla mia esperienza direi che un ragazzo ogni 250 presenta comportamenti a rischio di reclusione sociale. In una città come Milano si tratta di duemila adolescenti», afferma Antonio Piotti, filosofo e psicoterapeuta, docente all’Alta scuola di psicoterapia Arpad “Minotauro” di Milano. In questi ultimi anni si è specializzato nell’aiuto a ragazzi “reclusi”, tanto da dare alle stampe per Franco Angeli un libro originale e drammatico, Il banco vuoto (pagine 128, euro 16,50), con la presentazione di Gustavo Pietropolli Charmet, in uscita nei prossimi giorni. Non è un trattato “tecnico”, non almeno nella sua forma classica: Piotti infatti ha scelto di compilare una sorta di diario esistenziale, con i racconti in prima persona di un autorecluso, Enrico, e i “commenti”, come una voce fuori campo, dello psicoterapeuta (l’autore stesso) con il quale a un certo stadio del suo disturbo il ragazzo viene in contatto.
Un espediente letterario, perché nella realtà gli adolescenti che si isolano dal mondo non hanno parole per descrivere il loro malessere, rifuggono dai contatti con gli altri se non nella modalità online dei giochi elettronici. Il rischio di isolarsi in casa, dunque, secondo Piotti è dello 0,4 per cento tra gli adolescenti: i sintomi, secondo Piotti, sono principalmente «la fobia scolare e l’uso del computer per 7 o 8 ore al giorno». Il protagonista del libro, Enrico, inizia a stare male appena entra in classe, un male fisico fatto di scariche continue di dissenteria, accompagnate da una grande sensazione di vergogna, che lo porta a interrompere la frequenza della prima liceo. Non è semplicemente un rifiuto della scuola perché percepita come troppo esigente, piuttosto è una fuga dal contatto con i compagni, dalla relazione sociale che costringe al confronto. Nel suo diario, Enrico scrive: «Se dovessi dire chi sono dovrei dire semplicemente: io sono uno che si vergogna». Bambino bravissimo alle elementari, alla fine delle medie Enrico si confronta con l’insuccesso. E, anni dopo, chiuso nella sua cameretta, scrive, pensando alle aspettative deluse dei genitori: «Come dichiarare che tu non ce la farai? Come accettare lo sguardo triste e infelice di chi ti ha così profondamente amato? Con che coraggio andar davanti a loro e confessare che tu non sei all’altezza?».

Così nasce la voglia di fuga, il disagio della scuola, la vergogna, il disprezzo cieco e immotivato per i compagni. Infine, la decisione di rinchiudersi e di non vedere più nessuno: «Io mi sono nascosto perché non ero costruito in modo tale da affrontare l’esistenza». Per passare il tempo, ricorre ai videogiochi on line, soprattutto a quello “spara-spara”: «Intento com’eri a uccidere nemici, cominciavi a intuire che esisteva almeno un posto dove la realtà non poteva raggiungerti e dove il sapore acre della vergogna si attutiva, mentre ogni pensiero poteva essere ucciso prima ancora di venire formulato (…). Il tempo passava e, mentre lui scorreva, tu godevi del fatto di non esserci». L’isolamento sociale acuto, del quale la dipendenza da internet non è una causa ma casomai un effetto, per la sua radice nella corporeità non accettata è imparentato con l’anoressia e con l’autolesionismo: altre patologie che attaccano i nostri giovani, spesso troppo fragili di fronte alle attese del mondo. È inevitabile, per lo psicoterapeuta che va a caccia delle radici della patologia, soffermarsi sulla figura della madre. Se nel libro una buona parte della responsabilità del comportamento di Enrico è attribuita a una madre iperprotettiva, nella realtà le cose sono più complesse. «Il fattore chiave – analizza Piotti – è la difesa dell’unicità del figlio. Dietro un isolato sociale c’è quasi sempre una madre che costruisce con il figlio un progetto di successo poco realistico e, d’altro canto, un padre che non sa riportarla alla realtà».

Quanto alle cure, si tratta di un processo lungo, che non sempre porta a una totale guarigione. «Possono bastare 7/8 mesi, ma a volte ci sono voluti anche 2 o 3 anni» conclude Piotti. Lo stesso Enrico non ne è venuto fuori del tutto, dopo che dai 15 ai 21 anni è vissuto nella trincea della sua cameretta, non uscendo dal suo guscio maleodorante neppure per consumare i pasti, che gli venivano semplicemente passati attraverso uno spiraglio della porta, da una madre impaurita e incapace di reagire. Serve la psicoterapia, accompagnata a proposte di laboratori (musica, teatro, recitazione) per re-imparare a socializzare, ma è necessario anche intervenire con i genitori per aiutarli a interagire con i figli, servono strutture scolastiche flessibili che consentano di sostenere esami senza l’obbligo di tornare sui banchi. Servirebbe, forse, una società meno schizofrenica.
avvenire.it