Agar è incinta di Ismaele e viene cacciata da Sara. Ella fugge nel deserto, dove trova Dio che la consola personalmente e le dice parole cariche di promesse (Gen 16). Il filosofo francese Paul Ricoeur ha scritto molto sulla memoria e su tutto ciò che riguarda passato e storia. In uno dei suoi testi egli spezza una lancia in favore dell’arte del dimenticare: l’oubli heureux (l’oblio felice). Anche questo è una medicina, e chi desidera prosciugare la fonte del suo rancore, dovrà impadronirsi sempre più di questa arte. A volte incontri gente che viene a chiedere perdono, ma con poco o nessun rimorso o pentimento. Il racconto della riconciliazione tra Giuseppe e i suoi fratelli sorprende per il lungo processo di avvicinamento. Anche nella tradizione giudaica è stata posta la questione: perché Giuseppe aspetta così a lungo prima di farsi riconoscere dai suoi fratelli? Nel Medioevo lo studioso Maimonide diede la seguente spiegazione: «Giuseppe vuole certamente riconciliarsi con i suoi fratelli, ma intende prima saggiare la loro disposizione d’animo più profonda, affinché la riconciliazione non divenga un gesto superficiale, senza comprensione e senza rimorso». Dopo la morte del loro padre Giacobbe, alla fine del racconto, i fratelli pensano, in effetti, che Giuseppe voglia ancora vendicarsi. Essi escogitano una bugia madornale nella speranza che Giuseppe possa perdonarli. L’epilogo è commovente: «Ma i fratelli di Giuseppe cominciarono ad aver paura, dato che il loro padre era morto, e dissero: “Chissà se Giuseppe non ci tratterà da nemici e non ci renderà tutto il male che noi gli abbiamo fatto?”. Allora mandarono a dire a Giuseppe: “Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male! Perdona dunque il delitto dei servi del Dio di tuo padre!”. Giuseppe pianse quando gli si parlò così. E i suoi fratelli andarono e si gettarono a terra davanti a lui e dissero: “Eccoci tuoi schiavi!”. Ma Giuseppe disse loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso. Dunque non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini”. Così li consolò e fece loro coraggio» (Gen 50,15-21). Un racconto chassidico sottolinea quanto sia importante che chi desidera essere perdonato lo faccia in tutta lealtà. Il perdono che riceviamo è commisurato alla nostra fede, al nostro impegno, alla nostra più profonda lealtà d’animo. Chi fa molti calcoli, ne dovrà pagare anche le conseguenze.
Il rabbino Nahum di Chernobyl veniva continuamente offeso da un avversario. Un giorno, gli affari di quest’ultimo cominciarono ad andare molto male e pensò di andare a chiedere scusa al rabbino. «Io ti perdono con lo stesso spirito con cui tu me lo chiedi» (cfr. Nm 14,19), rispose il rabbino. Ma le perdite dell’uomo aumentarono sempre di più e i discepoli del rabbino lo supplicarono di aver misericordia e di perdonarlo con tutto il cuore. Il rabbino accondiscese alla richiesta, ma l’uomo si ritrovò ridotto in miseria. I discepoli chiesero al rabbino perché il suo perdono aveva aggravato ancora di più la posizione dell’uomo. Egli rispose: «Mosè era il più mite di tutti gli uomini [cfr. Nm 12,3]. Quando sua sorella lo offendeva, egli non tramava alcun male, ma la perdonava immediatamente. Ma Dio la punì in modo ancor più duro. La stessa cosa è successa a me. Più era grande il mio perdono, più aumentava la punizione del Signore, visto che l’uomo non si era pentito del suo errore con tutto il cuore». In seguito i discepoli raccolsero denaro per il pover’uomo e, ora che il suo peccato era stato perdonato in virtù della sua miseria, la fortuna gli sorrise nuovamente ed egli prese a cuore la giustizia. In questo percorso di perdono la frase «Io ti perdono» può essere pronunciata solo come parola assolutamente libera. Solo allora essa opera liberando, sia in chi è stato offeso sia nel colpevole che riconosce lealmente la sua colpa. Molti conoscono il racconto di Maiti Girtanner. Ella fu torturata durante la guerra e per tutta la vita ne ha portato le conseguenze nel suo corpo segnato, immobilizzato e pieno di dolori. Quarant’anni dopo ritrova il suo aguzzino, affetto da un male incurabile. La morte gli fa paura e chiede di essere perdonato. I ruoli si sono capovolti: un tempo, l’uomo aveva potere di vita e di morte ed era in grado di provocare sofferenza e incutere paura. Ora è la donna che, nonostante giaccia malata rannicchiata in un letto, dispone di quel potere. Potrebbe guardare quest’uomo con disprezzo e mandarlo via. Solo lei però è in grado di rassicurarlo contro la sua terribile angoscia. Non un prete, non uno psichiatra. Soltanto lei ha il potere di dire: «Io ti perdono», cosicché lui si possa sentire veramente perdonato.
Processi del genere non sono automatici. Quando papa Giovanni Paolo II visitò Ali Agca in carcere, non era chiaro come avrebbe reagito il delinquente trovandosi faccia a faccia con la persona che aveva tentato di eliminare. Avrebbe potuto rifiutare o disprezzare il gesto del papa, per il cruccio di non essere riuscito nella sua impresa criminale. In realtà egli rimase sconvolto da quella visita da parte della sua vittima e ciò lo indusse a riflettere sul suo comportamento. Una reazione non prevedibile. Questi esempi ci mostrano che la pratica del perdono è un evento umano complesso, che può realizzarsi soltanto passo dopo passo e con pazienza. Su questo, possiamo imparare molto dagli altri. Dopo il genocidio in Ruanda si è tentato di avviare un movimento di riconciliazione, con il sostegno di diversi mediatori provenienti da diversi movimenti per la pace come Pax Christi. È stato diffuso un pieghevole, scritto in due lingue (francese e kinyarwanda), che illustrava, passo dopo passo, una via di riconciliazione. Nella parte bassa dell’opuscolo appaiono le immagini delle fosse dove sono sepolti migliaia di morti, delle macerie di numerose case distrutte e di alcuni dei sopravvissuti, donne e bambini. Più in alto troviamo una scala composta di nove gradini. Alla base si trovano i mattoni indispensabili per la ricostruzione: desiderio, volontà, verità, rispetto, interesse. I vari gradini in successione si chiamano: comunicazione, mediazione, incontro, discorso, discussione, dialogo, trattativa, intesa e infine coabitazione. Più in alto ancora compare l’immagine di una capanna sulla quale campeggia la scritta «Riconciliazione». All’interno della capanna vediamo una zucca africana con tre cannucce: i tre gruppi etnici (hutu, tutsi e pigmei twa) possono bere di nuovo insieme la birra locale, sorseggiandola dalla stessa zucca all’ombra di una capanna. In cima a tutto si staglia la scritta: «È difficile, richiede tempo, ma è possibile».
Un giorno, durante un viaggio in autobus, mi ritrovai a sedere accanto a un giovane che mostrava chiaramente di avere un peso sul cuore. Mi raccontò che era appena uscito dal carcere e stava facendo ritorno a casa. La sua condanna era stata causa di vergogna per i suoi familiari. Quando era in prigione non erano mai venuti a trovarlo e soltanto sporadicamente gli avevano scritto brevi lettere. Nonostante ciò, egli sperava ancora che lo avessero perdonato. Per rendere le cose più facili, aveva inviato loro una lettera in cui proponeva di dargli un segno del loro atteggiamento nei suoi confronti: nel caso l’avessero perdonato, avrebbero legato un nastro giallo intorno alla quercia della piccola fattoria di famiglia; se invece non intendevano più vederlo, non avrebbero dovuto far nulla. In questo caso, egli sarebbe rimasto a sedere sul bus e continuato il viaggio, solo Dio sa fin dove. Quando l’autobus cominciò ad avvicinarsi al paese, la tensione del giovanotto divenne talmente forte che non osava più guardare dal finestrino. Scambiai allora il posto con lui, promettendogli che avrei tenuto d’occhio io la quercia. Dopo poco, gli appoggiai la mano sul braccio. «Eccola!», sussurrai e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Tutto era a posto: non uno, ma cento nastri gialli decoravano l’albero! In quel momento vidi scomparire l’amarezza che aveva avvelenato la vita del giovane. Era come se avessi vissuto un miracolo. Forse ne era avvenuto realmente uno…