L’eredità di Carlo Maria Martini per Milano e la Chiesa

Le riflessioni sulle Sacre Scritture, l’attenzione ai cambiamenti della società

L’ultima dedica, la pagina di commiato, portava una scritta sghemba, soave, decisa: «Pregate!». Il principe della Chiesa e la Parola di Dio. La preghiera come atto di devozione, amore, rigenerazione. Carlo Maria Martini, l’arcivescovo di Milano che doveva essere Papa, l’intellettuale della Chiesa che divenne un insuperabile pastore, l’uomo del dialogo, della povertà, della cattedra dei non credenti, il sacerdote che, se la vocazione non l’avesse felicemente travolto, sarebbe stato un (grande) giornalista, il sacerdote con gli occhi azzurri cui le Brigate rosse consegnarono le armi, il cardinale Carlo Maria Martini dunque visse gli ultimi giorni, in quell’agosto 2012, con un’insuperabile voglia di vivere. Un giorno citò Victor Hugo, I miserabili, la rinascita del detenuto Jean Valjean per opera del vescovo di Digne, l’amato monsignor Myriel. Lo citò per ricordare un antico timore: «Quando fui ordinato a Milano da Giovanni Paolo II, pensavo che mi attendesse di essere un uomo solo, collocato come in una nicchia, lontano dalla gente. E che ciò potesse avvenire in misura assai più ampia in una diocesi vasta come Milano, che va dal Ticino all’Adda. Ricordo che, esponendo questi dubbi, il Pontefice mi confortò: non tema, sarà la gente a venirle incontro».

Ecco: l’esigenza di comunicare, di farsi capire. Martini era attento, curioso. Chiedeva informazioni, approfondiva. Rifletteva, s’indignava. Perdonava ed era severo. «Se si vuole un vescovo profeta, bisogna dargli molto tempo per pregare». Scrisse Il Vescovo nella scia della grande tradizione del Liber pastoralis, da Gregorio Magno a Carlo Borromeo. Doveva essere il primo passo di una collana il cui titolo è una dichiarazione d’intenti: «La cura delle parole». L’invito è anche il filo conduttore dell’iniziativa editoriale che il «Corriere della Sera» propone, a cinque anni dalla scomparsa del cardinale, per ricordarne la figura e le opere.

Martini è stato un esempio di militanza sui temi della modernità e della Nuova Società, dalla fecondazione artificiale al testamento biologico al rapporto con l’Islam e le altre religioni, dal celibato dei preti all’ordinazione femminile. Ma anche su questioni tuttora roventi come le relazioni con la scienza, i non credenti o i comportamenti amorali della politica, dalla corruzione alla colpevole disattenzione verso il prossimo: spirito di povertà e rinuncia a ogni interesse, la forza di tutti i leali servitori dello Stato, di tutte le persone oneste. «La storia insegna come la chiusura aprioristica della Chiesa, e delle religioni in genere, di fronte agli inevitabili cambiamenti legati al progresso della scienza e della tecnica non sia mai stata di grande utilità. Galileo Galilei docet». Così Martini ha descritto il buon vescovo: «Un uomo umile che vince le durezze con la propria dolcezza, che sa essere discreto, che sa ridere di sé e delle proprie fragilità. Che sa riconoscere i propri errori senza troppe autogiustificazioni. Dunque anzitutto un uomo vero». Credeva nella preghiera di intercessione. Il suo motto episcopale, dalla regola pastorale di San Gregorio Magno, era Pro veritate adversa diligere. La peggiore delle condanne era per lui non essere capito o, peggio, frainteso. Nella sua libreria, volumi scelti: l’ultima scrematura di una vita di letture in molte lingue, antiche e moderne. In un angolo, con pudore, una bellissima foto di fine anno, scattata in seminario a Torino: spiccava, tra i volti felici degli studenti, un giovane alto e nobile, con i capelli a spazzola, lo sguardo fiero. La voce, il veicolo della Parola, si spense un giorno di maggio del 2010 dopo un ricovero all’ospedale San Raffaele. Divenne un soffio leggero, sembrava arrivare da molto lontano. L’onda di un’altissima spiritualità costretta a ritirarsi, a ripiegare di fronte al male cattivo, il morbo di Parkinson, con cui si era abituato a convivere dai giorni felici di Milano. Sottrazione fisica, non del pensiero o dell’anima.

Che cosa restava dunque dell’arcivescovo che Milano aveva imparato ad amare all’improvviso, come succede negli amori più grandi? Di quell’uomo restavano la figura imponente e la luce buona dello sguardo. «Avete visto i momenti migliori e i momenti peggiori», disse. La sua ultima dimora fu l’Istituto Aloisianum di Gallarate, la casa dei Gesuiti a 40 chilometri da Milano, il rifugio finale dopo gli anni della meditazione e degli studi a Gerusalemme.

La Città, attraverso le lettere al «Corriere», gli si rivolgeva in cerca di conforto. Sapeva che la tecnologia gli avrebbe permesso di prolungare il rapporto, e se possibile migliorarlo, con chi credeva in lui e lo chiamava «eminenza reverendissima» o anche, semplicemente, «caro Carlo Maria». La risposta era tracciata da tempo: «Sarò con voi ovunque andrò». Torino, Roma, Milano, Gerusalemme. Disse: «Di Gerusalemme mi attrae il fatto che Gesù abbia vissuto là, che sia morto là, che là si possa pregare al Calvario. Mi attrae questo popolo, il popolo ebraico, che ci sia però insieme tanta sofferenza, tanta difficoltà a convivere. Mi sembra un crogiuolo del futuro. Perché? Perché le sofferenze del mondo si trovano talmente a Gerusalemme da far prevedere che, se ci sarà del futuro, questo dovrà passare in qualche maniera di là». Teneva la Bibbia aperta sul modesto tavolino di formica. Poco distanti il pupazzo di Winnie the Pooh, un regalo, un bicchiere di gazzosa, piccola delizia tra le medicine amare, gli occhiali con la montatura dorata che il tremito del Parkinson faceva scivolare sul naso.

Le riunioni di redazione erano rassegne stampa commentate. Rivedeva i testi, era duttile. Suggeriva titoli forti, senza paura. Sul muro, la pergamena del Premiolino, il riconoscimento che ricevette nel 2010 per la rubrica sul «Corriere». Mese dopo mese, insegnò ai suoi lettori che il paradiso esiste, che gli angeli custodi ci accompagnano e ci proteggono. Amava fermarsi sulle parole del cardinale Schuster: «Respiro con la Chiesa nella stessa sua luce, di giorno, nelle sue stesse tenebre, di notte». Citava questo brano: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili: e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Lettera ai Romani, 8, 26-27). Non temeva la crisi, «da affrontare con coraggio civile». Cercava di spiegare il senso del dolore. Definiva la città come il luogo di un’identità che si ricostruisce continuamente, a partire dal nuovo, dal diverso, nel coordinamento delle tensioni. Accogliere e non solo contenere. La città dei deboli, degli ultimi, degli onesti e degli uguali.

Quando gli chiedemmo un commento sullo scandalo della pedofilia, che era già un tifone, lui si alzò e uscì dalla stanza, in silenzio. Era turbato, soffriva per l’umiliazione della Chiesa, aveva gli occhi lucidi. Pregò in solitudine per una decina di minuti, poi ricomparve. Era commosso, ma sollevato. Richiamò le parole di Gesù: «Guai a colui per cui avvengono gli scandali. È meglio per lui che gli sia messa al collo una macina da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli». Poche righe, da prima pagina. Diceva spesso: «Vorrei essere parte di una Chiesa che s’indigna e combatte a fianco dei poveri e dei diseredati, che striglia i potenti della terra quando si riempiono la bocca di Dio e sono così lontani nel loro operato». Quando iniziò la rubrica, nella primavera del 2009, scrisse: «Oggi la negazione della verità assume spesso la figura dell’omissione voluta e colpevole, condizionata dalla paura o dall’interesse, o anche dalla paciosità: mi guardi il Signore da queste trappole!».

A padre Georg Sporschill, con cui scrisse il libroConversazioni notturne a Gerusalemme, disse che la Chiesa era indietro di duecento anni. L’intervista fu ripresa in tutto il mondo. Pensando al successore di Ratzinger delineò un profilo che conduceva esattamente a papa Bergoglio. «È come se il cardinal Martini avesse avuto quest’uomo davanti agli occhi, quando espresse il proprio dolore per la Chiesa europea stanca e tracciò l’immagine di un vescovo e Papa attrezzato per le attuali sfide. Un pastore nella Chiesa dovrebbe avere o assicurare attraverso il suo seguito più stretto la vicinanza alla gente e soprattutto la compassione per i poveri e i giovani». Sporschill aggiunge: «Il fondatore dell’ordine, Ignazio di Loyola, confidava che Gesù fosse radicato e vivesse in ogni confratello. Con queste radici profonde, coltivate attraverso gli esercizi spirituali, il gesuita guadagna una libertà con la quale può avventurarsi in ogni opera, luogo o incontro. Là dove c’è più bisogno. E con questa libertà guadagna anche il coraggio di affrontare i potenti quando affliggono gli uomini». Si dice che nel conclave del 2005 in cui fu eletto Joseph Ratzinger il cardinale Martini abbia fatto un passo avanti e con l’allora cardinal Bergoglio abbia spianato la strada a Benedetto XVI, «umile vignaiolo nella vigna del Signore». Non sappiamo se davvero andò così, sostiene Sporschill. Ma, forse, la voce «indica il percorso su cui lo Spirito Santo ha condotto la Chiesa, e che oggi porta al futuro».