Papa: la preghiera e l’annuncio della Parola sono i principali compiti del vescovo

Francesco ha ordinato quattro nuovi vescovi: mons. Michael Czerny, mons. Paolo Borgia, mons. Antoine Camilleri,  mons. Paolo Rudelli. “Le tre vicinanze del vescovo: la vicinanza con Dio, che è la preghiera; la vicinanza con i presbiteri, nel collegio presbiterale; e la vicinanza col popolo”.

Città del Vaticano (AsiaNews) – “Sono due i principali compiti del vescovo: la preghiera e l’annuncio della Parola, poi tutti gli atti amministrativi, ma questi due sono le colonne”. L’ha detto oggi pomeriggio papa Francesco nella basilica di san Pietro nel corso della cerimonia di ordinazione di quattro nuovi vescovi: mons. Michael Czerny, mons. Paolo Borgia, mons. Antoine Camilleri,  mons. Paolo Rudelli.

Parlando a braccio, Francesco ha poi raccomandato “annunziate la vera Parola, la parola di Dio, non dei discorsi noiosi che nessuno ha capito”. E ancora ha definito “le tre vicinanze del vescovo: la vicinanza con Dio, che è la preghiera; la vicinanza con i presbiteri, nel collegio presbiterale; e la vicinanza col popolo”.

“Siate – ha detto ancora – vicino ai poveri, agli indifesi e a quanti hanno bisogno di accoglienza e di aiuto” e “abbiate viva attenzione a quanti non appartengono all’unico ovile di Cristo, perché essi pure ti sono stati affidati nel Signore. Ricordatevi che nella Chiesa cattolica, radunata nel vincolo della carità siete uniti al Collegio dei vescovi – questa sarebbe la quarta vicinanza – e dovete portare in voi la sollecitudine di tutte le Chiese, soccorrendo generosamente quelle che sono più bisognose di aiuto”.

Papa: il Sinodo aperto alle novità dello Spirito

Francesco ha aperto il Sinodo per l’Amazzonia, dove “tanti fratelli e sorelle portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d’amore della Chiesa”. “Quante volte c’è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che recentemente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del Vangelo”.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Il Papa ha aperto il Sinodo per l’Amazzonia, dove “tanti fratelli e sorelle portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d’amore della Chiesa”, che non sia, come è accaduto, “colonizzazione anziché evangelizzazione”.

Messa solenne, nella basilica di san Pietro con i 184 padri e tutti gli altri partecipanti all’Assemblea speciale del sinodo che da oggi al 27 ottobre affronterà il tema: Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale. Alla celebrazione hanno preso parte anche i cardinali di nuova creazione.

All’omelia Francesco ha parlato del “fare Sinodo”, “camminare insieme” e della necessità di non seguire il “si è fatto sempre così”, ma di essere aperti alla “novità” portata dallo Spirito.

“Siamo vescovi – ha detto – perché abbiamo ricevuto un dono di Dio. Non abbiamo firmato un accordo, non abbiamo ricevuto un contratto di lavoro in mano, ma mani sul capo, per essere a nostra volta mani alzate che intercedono presso il Signore e mani protese verso i fratelli. Abbiamo ricevuto un dono per essere doni. Un dono non si compra, non si scambia e non si vende: si riceve e si regala. Se ce ne appropriamo, se mettiamo noi al centro e non lasciamo al centro il dono, da Pastori diventiamo funzionari: facciamo del dono una funzione e sparisce la gratuità, e così finiamo per servire noi stessi e servirci della Chiesa. La nostra vita, invece, per il dono ricevuto, è per servire”, “sentiamoci chiamati qui per servire mettendo al centro il dono di Dio”.

“Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il ‘si è sempre fatto così’, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo. Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a una pastorale di ‘mantenimento’, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 95). Gesù non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra”.

“Il fuoco che ravviva il dono è lo Spirito Santo, datore dei doni. Perciò San Paolo continua: «Custodisci mediante lo Spirito Santo il bene prezioso che ti è stato affidato» (2 Tm 1,14). E ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (v. 7). Non uno spirito di timidezza, ma di prudenza: Paolo mette la prudenza all’opposto della timidezza. Che cos’è allora questa prudenza dello Spirito? Come insegna il Catechismo, la prudenza «non si confonde con la timidezza o la paura», ma «è la virtù che dispone a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati» (n. 1806). La prudenza non è indecisione, non è un atteggiamento difensivo. È la virtù del Pastore, che, per servire con saggezza, sa discernere, sensibile alla novità dello Spirito. Allora ravvivare il dono nel fuoco dello Spirito è il contrario di lasciar andare avanti le cose senza far nulla. Ed essere fedeli alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo chiedere nella preghiera. Egli, che fa nuove tutte le cose, ci doni la sua prudenza audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i cammini per la Chiesa in Amazzonia, perché non si spenga il fuoco della missione”.

“Il fuoco di Dio, come nell’episodio del roveto ardente, brucia ma non consuma (cfr Es 3,2). È fuoco d’amore che illumina, riscalda e dà vita, non fuoco che divampa e divora. Quando senza amore e senza rispetto si divorano popoli e culture, non è il fuoco di Dio, ma del mondo. Eppure quante volte il dono di Dio non è stato offerto ma imposto, quante volte c’è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che recentemente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio è calore che attira e raccoglie in unità. Si alimenta con la condivisione, non coi guadagni. Il fuoco divoratore, invece, divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, fare il proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto”.

“Ravvivare il dono; accogliere la prudenza audace dello Spirito, fedeli alla sua novità; San Paolo rivolge un’ultima esortazione: «Non vergognarti di dare testimonianza ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» (2Tm 1,8). Chiede di testimoniare il Vangelo, di soffrire per il Vangelo, in una parola di vivere per il Vangelo. L’annuncio del Vangelo è il criterio principe per la vita della Chiesa. Poco dopo Paolo scrive: «Sto per essere versato in offerta» (4,6). Annunciare il Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino in fondo, è farsi tutto per tutti (cfr 1Cor 9,22), è amare fino al martirio. Infatti, sottolinea l’Apostolo, si serve il Vangelo non con la potenza del mondo, ma con la sola forza di Dio: restando sempre nell’amore umile, credendo che l’unico modo per possedere davvero la vita è perderla per amore”.

Del Sinodo Francesco ha parlato anche dopo la recita dell’Angelus. “Per tre settimane – ha detto alle 30mila persone presenti in piazza san Pietro – i Padri sinodali, riuniti intorno al Successore di Pietro, rifletteranno sulla missione della Chiesa in Amazzonia, sull’evangelizzazione e sulla promozione di una ecologia integrale. Vi chiedo di accompagnare con la preghiera questo importante evento ecclesiale, affinché sia vissuto nella comunione fraterna e nella docilità allo Spirito Santo, che sempre mostra le vie per la testimonianza del Vangelo”.

Come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia incontrabile da tutti?

vinonuovo.it

Chi è caccia di «eresie» mira a perseguire un’uniformità che non è mai esistita nella storia della Chiesa. Mentre la domanda vera dovrebbe essere: come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia incontrabile da tutti?

Oggi comincia un Sinodo che nel suo Instrumentum Laboris contiene la bellezza di «quattro tesi eretiche». Lo dicono fonti ben informate: i soliti specializzati nella matita rossa e blu su questa Chiesa cattolica alla deriva. Secondo loro questo Sinodo è tutto un «complotto» (ti pareva…): si utilizzano i poveri indios dell’Amazzonia per far passare le tesi di quei circoli progressisti che hanno la loro casa madre in Germania (e dove altro se no?); gli stessi che con i loro conciliaboli a San Gallo hanno portato all’elezione di un Papa come Francesco.

Basta scorrerle le presunte «tesi eretiche» per accorgersi che il giochetto è quello di sempre: prendere il pensiero dell’altro e trasformarlo in una caricatura. Così magari qualcuno ci crede davvero che tra i 184 Padri sinodali che da oggi discuteranno sui «Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale» una buona parte non sia affatto interessata all’incontro con Gesù Cristo e sia lì solo per cedere alle mode del momento: l’ecologismo e i preti sposati, se non addirittura – massimo dello scandalo – l’ordinazione delle donne.

E le comunità che in Amazzonia vivono in villaggi isolati nella foresta dove il prete può arrivare solo due o tre volte l’anno a dire la Messa, ma alle quali continuiamo a raccontare che l’Eucaristia è il cuore della loro vita cristiana? O quelle che aspettano ancora chi arrivi a tradurre nella loro lingua e nelle categorie della propria cultura la Parola di Dio? E quei cristiani che anche in Amazzonia vengono uccisi semplicemente per aver provato a difendere i più deboli contro interessi legati il più delle volte a grandi potentati economici? Sono tutte questioni secondarie. Noi (standocene comodamente seduti sul nostro divano) dobbiamo fare i conti con le «eresie» che dilagano nella Chiesa di Papa Francesco.

È lo spirito dei tempi, ok. Però a me – che in quella foresta ci sono stato e non ho né visto né sentito proprio nulla che metta in pericolo la mia fede – una domanda resta lo stesso: da dove viene tutta questa paura per il Sinodo per l’Amazzonia?

Mi sono dato due risposte. La prima: a far paura è proprio la missione. L’avete notato? Tra tutti quelli che ce l’hanno con questo Sinodo non ce n’è uno che ricordi che Papa Francesco l’ha voluto al centro del Mese missionario straordinario che (almeno in teoria) nelle nostre comunità dovremmo celebrare in queste settimane. Si tratta di un Sinodo per dire che il Vangelo di Gesù parla anche ai luoghi più sperduti del mondo di oggi. Un Sinodo che chiederebbe di riscoprire l’espressione “partire”, un verbo che a furia di dire che “la missione è anche qui” abbiamo del tutto addomesticato («evangelizziamoli a casa loro», chissà perché, è uno slogan che non va tanto di moda…). Chiusi come siamo nei nostri schemi, non c’è posto per il mondo. L’idea che in Amazzonia la gente possa incontrare Cristo, sì, ci piace: quelli là hanno proprio bisogno di Gesù Cristo, mica dei loro amuleti e pendagli con le piume. Ma se questo implica alzarmi dalla mia poltrona, avventurarmi in mare aperto, provare a capire chi sono davvero queste persone, dove vivono, quale storia hanno alle spalle, in che cosa il Vangelo può rendere più piena la loro vita…, beh, allora possono aspettare. Non c’è tempo, abbiamo ben altro a cui pensare. Non lo vedete che qui sta crollando tutto?

Ancora più di questa generica paura ad avventurarci oltre i nostri confini di casa, però, c’è una seconda idea che spaventa in questo Sinodo: va bene tutto, ma non vorrete mica dirci che in Amazzonia Dio ci è arrivato prima e (magari) pure senza di noi?

Scorrete le tesi che vengono definite «eretiche»: capirete subito che il nodo di fondo non è affatto la presunta deriva ecologista di questo Sinodo. No, quella va bene giusto per qualche sfottò. La questione seria nel mirino è l’inculturazione della fede; cioè l’idea che la spiritualità e i riti religiosi attraverso cui questi popoli hanno espresso nella loro tradizione il rapporto con Dio valgano qualcosa; l’idea che portino in sé dei «semi di verità» (come li chiamava il Concilio Vaticano II riprendendo alcuni Padri della Chiesa) che – riletti alla luce del mistero della Pasqua – possono parlare loro in maniera più efficace di Gesù rispetto alle forme e ai linguaggi della nostra tradizione.

È evidente che si tratta di un nodo delicato. Ma la storia della Chiesa dei primi secoli è piena di questo tipo di incontri. Noi stessi – tanto per fare un esempio – celebriamo il Natale nel giorno che in antichità era la festa di una divinità romana; una festa pagana che non abbiamo abolito; gli abbiamo dato un significato nuovo alla luce di Gesù. Perché, allora, questo tipo di operazione dovrebbe essere un inaccettabile cedimento al relativismo se lo fa qualche popolo dell’Amazzonia? Semplicemente perché i loro riti (che peraltro non conosciamo) sono colorati e ci fanno sorridere?

Chi grida all’«eresia» mira a perseguire un’uniformità che non è mai esistita nella storia della Chiesa (pensiamo anche solo alla quantità di riti che la Chiesa cattolica riconosce). Il punto dovrebbe essere piuttosto un altro. Domandiamoci: come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù Cristo morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia davvero incontrabile da tutti i popoli del mondo?

Sì, Dio è arrivato prima di noi in Amazzonia. Basta percorrere i suoi fiumi per accorgersene. E se oggi attraverso questo Sinodo ci stesse aspettando proprio lì, per aiutarci a capire la differenza tra ciò che è nostro e ciò che è davvero Suo?

P.S.: La foto che accompagna quest’articolo è stata scattata l’altro giorno nei Giardini vaticani dal servizio fotografico dell’Osservatore Romano. Quello che sta parlando col Papa è Honorato, una catechista dell’etnia Satere Mawé felice di aver appena consegnato a Francesco la collana che ha realizzato per lui con il legno dell’Amazzonia. Leggete a questo link la sua testimonianza e giudicate voi se intorno a questo Sinodo è più importante parlare delle presunte «eresie» o della testimonianza evangelica che la gente dell’Amazzonia è in grado di donarci

La fede elementare

Fede elementare

Settimananews

Qualche mese fa SettimanaNews ha pubblicato un testo di Theobald che merita di essere ripreso. Si parlava del futuro della fede in Europa, e del compito di prendersi carico della “fede elementare” i cui confini non coincidono con la pratica religiosa. Ho colto in questo testo una provocazione a ripensare il compito delle nostre comunità a riguardo della cura della fede. Queste note sono un tentativo di riprendere il filo di quella intuizione.

Gesù ha cominciato dalla “Galilea delle genti”

Matteo racconta l’inizio del ministero di Gesù con un’indicazione di movimento di luogo: Gesù abbandona la Giudea (Mt4,12) e si ritira in Galilea, meglio attestata come «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Qui inizia la sua predicazione, l’annuncio del Vangelo del Regno, della buona notizia della misericordia del Padre.

Per Gesù il luogo propizio non è la Giudea, dove, attorno a Gerusalemme e al tempio, la fede di Israele custodiva la sua “ortodossia”. Di contro, sceglie la «Galilea delle genti».

La Galilea è una terra di “meticciato”, con la compresenza di pagani e israeliti, di movimenti spirituali emergenti e di uomini e donne esiliate dalle istituzioni religiose; genti impure, lontane, eretici come i samaritani e zelanti credenti come i farisei.

Gesù comincia da qui. Come? Semplicemente cammina: frequenta le strade, le case, le città, qualche volta anche le sinagoghe. Questo cammino si arricchisce di incontri, ed è proprio nella trama di queste relazioni che Gesù diventa la sorgente di cammini di fede sorprendenti.

Dentro la vita della gente
Fede elementare

In questo contesto ordinario (casa, strade, città) e composito (pagani e giudei, genti da tutte le razze), Gesù a chi si rivolge e come vive i suoi incontri?

Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono i più diversi: le folle (che, se spesso appaiono sinonimo di anonimato e di ostacolo all’incontro con Gesù, eppure non di meno sono oggetto della sua compassione, predicazione e cura), uomini e donne che hanno come unico comune denominatore una certa marginalità (malati e indemoniati, donne e pagani), “compagni di strada” che si mettono a seguirlo (tra cui troviamo sia uomini che donne), che diventano discepoli anche se non sempre e non tutti presenti nel cammino del Maestro, e gli apostoli, chiamati personalmente e destinatari di una vocazione particolare.

Non tutti seguono Gesù e la maggior parte viene semplicemente rimandata a casa guarita, salvata nella fede.

In tutti questi incontri Gesù riaccende una fede che sembrava perduta. Lo fa con uno stile di ospitalità che un teologo francese descrive così: «egli crea uno spazio di libertà attorno a sé, comunicando tuttavia, con la sua sola presenza, una benevola prossimità a coloro che lo incontrano. Questo spazio di vita permette loro di scoprire la loro più propria identità e di accedervi a partire da ciò che già li abita in profondità e che si esprime istantaneamente in un atto di “fede”: credito accordato a colui che sta di fronte e, al tempo stesso, alla vita tutta intera» (C. Theobald, “Il cristianesimo come stile”, in Il Regno-att. 14,2007,490ss).

È questa che potremmo chiamare “fede elementare”, che non significa affatto di minor valore rispetto – ad esempio – alla fede dei discepoli e degli apostoli. Anzi, a volte Gesù indica proprio questi “credenti elementari” come esempio di quella “fede che salva”, che apre alla vita e che loro stessi devono ancora apprendere.

Incontri che riaccendono la fede

Su questa “fede elementare” possiamo dire ancora almeno due elementi: dove ha le sue radici e quali sono i frangenti della vita nei quali essa può manifestarsi?

Prendiamo l’esempio di quell’ufficiale romano che a Cafarnao implora l’intervento di Gesù a favore del suo servo. Egli è un pagano, un militare, eppure «Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!”» (Mt 8,10). Dove ha imparato a credere quest’uomo? Non certo sui banchi di catechismo o nella sinagoga. Lui lo dice in qualche modo: nel suo lavoro di soldato, abituato a obbedire e a comandare, ad essere “uomo di parola” («Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa» Mt 8,9). E questa “fede antropologica”, questa fede che s’impara nella vita, viene come “attivata”, riaccesa, riscattata dall’incontro con Gesù.

Il Vangelo è ricco di incontri così e la maggior parte di questi uomini e donne è poi semplicemente rimandata a casa: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. In questo ritorno alla vita ordinaria non c’è un “di meno” rispetto a coloro che sono chiamati a seguirlo per via. Anche questa è una chiamata.

«Perché questo ritorno al quotidiano? Forse è una fase di attesa in vista di una chiamata esplicita alla sequela, intesa come esito di un itinerario giunto a compimento, ossia un: “Va’, non sei ancora pronto, tornerai più tardi”? Oppure è un vero e proprio invio immediato che se ne infischia di qualsiasi pedagogia o iniziazione: “Va’, sei già pronto”? O, ancora, è l’annuncio di quello che sarà il compimento di ciascuno: “Va’ e fa’ come puoi con ciò che hai vissuto. Inventa….”? Ognuno può qui completare la propria lista, ma Gesù, in modo inequivocabile, invita queste persone a ritrovare il loro posto, la loro dignità là dove erano escluse, e così dare testimonianza di quell’esperienza di salvezza; e ciò senza garanzia né servizio di assistenza da parte sua.

Con tali rinvii Gesù sacralizza anche la vita ordinaria e sedentaria, quella del resto da cui egli stesso proviene, lui che ha trascorso circa trent’anni nell’anonimato di Nazaret, propedeutico alla sua vita pubblica. La “fede che salva” non può essere dunque analizzata in termini di pre-fede, di preparazione o di preliminare a quello che sarebbe considerato l’esito, la chiamata del discepolo.

Fede elementare

Non può essere intesa neppure come una semi-fede. In quando possiede integralmente quel carattere primordiale e necessario del coraggio di vivere nonostante tutto, del desiderio di essere rimessi in piedi, salvati. È una categoria di fede piena e intera, senza aggiunte da parte di Gesù e dei suoi discepoli. Quel “Va’ e torna a casa” è totalmente definitivo e gratuito. È il segno misterioso della venuta del Regno, rivelato agli umili e ai piccoli. È il paradosso di quei rinvii che sono come altrettanti granelli seminati» (Valerie Le Chevalier, Credenti non praticanti, 62-63).

In quali occasioni questa fede “emerge” e può essere riaccesa da un incontro libero e gratuito, da una presenza nel nome di Gesù? In quelle che potremmo chiamare le “faglie” della vita. Ci sono momenti nei quali la vita apre delle crepe rivelative. Sono a volte momenti di crisi, di fatica e di sofferenza; sono a volte momenti di grazia sorprendente (una nascita, un amore….); sono eventi inaspettati che ci fanno vedere le cose in modo nuovo. Ecco, se nel crocevia di queste “faglie” un incontro ospitale offre una presenza gratuita nel nome di Gesù, è possibile riaccendere quella fede che era presente ma come in attesa.

La fede è giunta al capolinea

Questo ha delle conseguenze importanti per le nostre comunità. Assistiamo ad un crollo della pratica religiosa. Quasi ad un esodo dalle istituzioni religiosi – e nel nostro caso dalla Chiesa cattolica – che sembra irreversibile e le cui conseguenze non riusciamo ancora a interpretare compiutamente.

Bastano alcuni dati per comprendere ciò che sta accadendo. Le chiese si svuotano. Resta una domanda “religiosa” (i sacramenti per i bambini, per i momenti topici della vita, la celebrazione del momento della morte), che però viene sostenuta da delle comunità sempre più esili, con forze sempre più esigue.

In particolare, le giovani generazioni non si rivolgono più alla Chiesa per rispondere alle domande esistenziali della loro vita. Stiamo perdendo il contatto con queste generazioni, con il loro linguaggio, il modo con cui affrontano la vita. Sono generazioni “digitali”, “virtuali”, con modi di pensare che non si ritrovano più nel linguaggio tradizionale del nostro cristianesimo.

Qualcuno ha parlato anche dell’esodo delle donne, anch’esse sembrano sentirsi estranee ad un mondo come quello ecclesiale che non pare – malgrado le dichiarazioni – riconoscere il nuovo ruolo che la donna cerca nel mondo ordinario. Tutto questo viene vissuto con sentimenti diversi: senso di colpa, risentimento, senso di impotenza.

fede elementare

La Chiesa sta diventando una presenza di minoranza nel mondo secolarizzato. Questo significa la fine della fede? Non credo. Ci pone in un orizzonte nuovo, che ha delle opportunità straordinarie. Siamo, in qualche modo, rimandati alla scena originaria del Vangelo, a quella Galilea delle genti” che Gesù amava.

Siamo chiamati a vivere degli incontri ospitali e gratuiti che diventano una possibilità di riaccendere quella fede “clandestina” e silente che abita nel cuore di ogni uomo e donna.

Siamo chiamati a non chiuderci risentiti tra le mura delle nostre parrocchie, coltivando uno spirito di estraneità e di opposizione al mondo secolarizzato (è il rischio di diventare una setta!) ma di aprire le porte per essere una chiesa ospitale. C’è ancora un compito per il cristianesimo nel futuro del nostro occidente secolarizzato.

“Amazzonia: Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”

Annuncio del Vangelo, tutela del Creato, rispetto delle culture locali, al centro dell’Assemblea dei vescovi dedicata all’Amazzonia. Una nostra piccola guida in forma di domande e risposte

Il Sinodo per l'Amazzonia, cose da sapere

Con la Messa presieduta dal Papa nella Basilica Vaticana, domenica 6 ottobre alle 10 si apre il Sinodo per l’Amazzonia. O per dirla in modo più corretto, viene inaugurata l’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi che si concluderà il 27 ottobre. Tema dei lavori: “Amazzonia: Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”.

Cos’è il Sinodo? 
Il Sinodo dei vescovi è stato istituto da san Paolo VI il 15 settembre 1965 con il motu proprio “Apostolica sollicitudo”. È nato nel contesto del Concilio Vaticano II che, con la Costituzione dogmatica “Lumen gentium” (21 novembre 1964), si era ampiamente concentrato sulla dottrina dell’episcopato, sollecitando un maggior coinvolgimento dei vescovi nelle questioni che interessano la Chiesa universale. Scopo dei lavori è infatti discutere collegialmente, sotto la presidenza del Papa, temi di primaria importanza che riguardano la vita della Chiesa. Il Sinodo si riunisce in diversi tipi di Assemblea: in Assemblea generale ordinaria, per le materie che riguardano il bene della Chiesa universale; in Assemblea generale straordinaria, per questioni di urgente considerazione; in Assemblea speciale, per temi che toccano maggiormente una o più regioni determinate. Al Pontefice compete, inoltre, convocare un’Assemblea sinodale secondo altre modalità da lui stabilite.

Perché un Sinodo sull’Amazzonia?
Lo ha spiegato direttamente il Papa, nel giorno in cui lo ha indetto, il 15 ottobre 2017. L’obiettivo principale – spiegò allora Francesco – è “trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio, in particolare le persone indigene, spesso dimenticate e senza la prospettiva di un futuro sereno, anche a causa della crisi della foresta amazzonica, polmone di fondamentale importanza per il nostro pianeta”. Vuol dire che il primo scopo è far conoscere il vero volto di Gesù a popoli e realtà spesso dimenticate, testimoniando che il Vangelo può essere vissuto pienamente nel rispetto delle culture locali. Scrive il documento preparatorio del Sinodo (n. 12): l’assemblea speciale per l’Amazzonia “è chiamata a individuare nuovi cammini per far crescere il volto amazzonico della Chiesa e anche per rispondere alle situazioni di ingiustizia della regione”. 

Il Sinodo parlerà solo alle popolazioni amazzoniche?
Anche se i lavori vertono sull’Amazzonia, i temi che verranno affrontati, dall’annuncio del Vangelo all’attenzione verso gli ultimi, dalle nuove frontiere della pastorale al rispetto del Creato, riguardano la Chiesa universale. E l’intera famiglia umana. 

Quando parliamo di Amazzonia cosa intendiamo?
Un territorio che si estende per 7,8 milioni di kmq in Sud America. La sua superficie occupa parte di ben nove Paesi: Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana francese. Di questa immensa distesa le foreste coprono circa 5,3 milioni di kmq, pari a oltre un terzo di quelle presenti sulla terra. Polmone verde per eccellenza del pianeta, serbatoio di ossigeno che fa respirare l’intera umanità, l’Amazzonia è anche una delle più grandi riserve di biodiversità e da sola contiene il 20% di acqua dolce non congelata delle terra. 


Chi vi abita?
Si calcola che gli abitanti dell’Amazzonia ammontino a circa 34 milioni di persone di cui oltre tre milioni di indigeni, appartenenti a più di 390 gruppi etnici. Si tratta di popoli dalle culture più diverse, alcuni di discendenza africana, ma anche contadini, coloni, tutti comunque in una relazione vitale con la foresta e le acque dei fiumi. Secondo le ultime statistiche tuttavia aumenta anche la popolazione delle città. Si calcola che oggi tra il 70 e l’80% delle persone (circa 34 milioni) risiedano nelle città, molte delle quali non dispongono delle infrastrutture e delle risorse pubbliche necessarie per soddisfare le necessità della vita urbana.

Chi partecipa al Sinodo?
I cosiddetti padri sinodali, cioè i partecipanti ai lavori con diritto di voto sono 184 di cui 113 appartengono alle diocesi in cui sono suddivise le regioni amazzoniche. 13 sono invece i capi dicasteri della Curia Romana. Partecipano ai lavori anche 6 delegati fraterni e 12 invitati speciali. A completare l’elenco 25 esperti, 55 tra uditori e uditrici e 17 rappresentanti di popoli ed etnie indigene.

È vero che sarà un Sinodo verde, green?
È uno degli obiettivi di questa Assemblea dei vescovi. Oltre a promuovere iniziative direttamente collegate al rispetto dell’ambiente, le iscrizioni sono state on-line in modo da risparmiare sulla carta stampata e sulle spese postali. In più durante l’assise saranno usati bicchieri in materiale biodegradabile e borse di lavoro in fibra naturale.

Su cosa lavoreranno i padri sinodali?
Punto di partenza della discussione è l’Instrumentum laboris, documento che raccoglie le principali domande, i problemi, le proposte che arrivano dalle popolazioni dell’Amazzonia. Si compone di tre parti: la prima intitolata “La voce dell’Amazzonia” ha lo scopo di presentare la realtà del territorio e dei suoi popoli. Nella seconda parte, “Ecologia integrale: il grido della terra e dei poveri”, si raccoglie la problematica ecologica e pastorale. Infine nella terza parte, “Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze”, viene affrontata la problematica ecclesiologica e pastorale.

Fa discutere il tema dei “viri probati”. Chi sono?

In realtà nell’Instrumentum laboris il termine non compare. Non c’è dubbio però che la mancanza di ministri ordinati sia una delle emergenze pastorali dell’Amazzonia. Per questo il documento base del Sinodo al numero 129 recita: “Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana”. Ma si tratta solo di un accenno al problema.

Come si svolgono i lavori del Sinodo?
Sono previste sessioni, dette Congregazioni generali cui partecipano tutti i padri sinodali. Ad aprire i lavori, la relazione detta “ante disceptationem” preparata dal relatore generale, in questo caso il cardinale brasiliano Claudio Hummes. In pratica nella prima fase dell’assemblea ciascun membro presenta agli altri la situazione della sua Chiesa particolare. Alla luce di queste testimonianze il relatore generale evidenzia in una nuova relazione i temi che dovranno essere dibattuti durante la seconda fase, quando tutti i membri del Sinodo si dividono in gruppi chiamati Circoli Minori. Questi ultimi hanno il compito di formulare suggerimenti e osservazioni, da tradurre in espressioni concrete, le proposizioni, destinate a essere votate. La Lista finale delle proposizioni viene quindi presentata in sessione plenaria e sottomessa al voto di ciascun padre sinodale, che può decidere in favore o contro.

Avvenire

Come la Chiesa deve comunicare. La gioia del dialogo con i non credenti

L’Osservatore Romano

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento che Timothy Radcliffe, teologo, già Maestro generale dell’Ordine dei predicatori (domenicano), ha tenuto questa settimana a Modena, alla presenza dell’arcivescovo Erio Castellucci, dal titolo «La gioia del dialogo con i non credenti». Nei giorni scorsi Radcliffe, scrittore e oratore tra i più apprezzati nel mondo cattolico a livello internazionale, ha tenuto alcune conferenze in Italia, precisamente a Torino Spiritualità, al Sermig di Torino e al Festival Francescano.
Da pochi giorni è in libreria il suo nuovo testo “Una verità che disturba. Credere al tempo dei fondamentalismi” (Editrice missionaria italiana, Verona, 2019) nel quale sono presentati alcuni dei suoi più recenti interventi su varie tematiche: la fede cristiana e il populismo, il futuro della vita religiosa, l’essere sacerdoti nel secolo, l’attualità della figura di Óscar Romero, il dinamismo del carisma domenicano.
*** Come la Chiesa deve comunicare 
La gioia del dialogo con i non credenti 
di Timothy Radcliffe
In una conversazione davvero profonda, la mia identità non è assolutizzata. È aperta all’espansione e anche alla sfida da parte del mio interlocutore. Ogni amicizia mi rivela delle nuove dimensioni della mia identità di cui non avevo ancora fatto esperienza. Io vivo a Oxford in comunità con giovani frati. Ogni anno ne arriva un nuovo gruppo. Io devo scoprire loro chi sono, ma anche chi sono io con loro. Con ogni nuovo arrivo di giovani, io mi devo aprire al loro modo di essere, e dunque ampliare il mio modo di sentire chi sono io stesso con loro. 
Quando ero un giovane frate ho passato un anno a Parigi. Mi piaceva molto andare al cafè, leggere «Le Monde», fumare le Gauloises e bermi un bel bicchiere di birra. Ero diventato un po’ francese. Se mi fermassi qui in Italia abbastanza a lungo, diventerei di sicuro un po’ italiano. San Tommaso amava l’espressione anima est quodammodo omnia: l’anima è, in un certo senso, tutte le cose. Ogni nuova relazione allarga il mio essere, e mi libera di pregiudizi e identità troppo piccole. 
Nel suo libro su Dostoevskij, Rowan Williams, l’ex arcivescovo di Canterbury, cita Michail Bachtin: «Il dialogo non è il mezzo per rivelare, per portare alla luce il carattere già bello e pronto di una persona; no, nel dialogo una persona non si mostra soltanto verso l’esterno, ma diventa per la prima volta quello che è. E ripetiamo: non solo per gli altri ma anche per sé stesso». Ogni vera conversazione mi invita a essere qualcosa di inedito. Dialogare implica essere aperti a una nuova identità. Come cristiani, ogni identità che costruiamo è qualcosa di parziale e provvisorio. San Giovanni ha detto: «Carissimi, fin da ora siamo figli di Dio e non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che quando ciò si sarà manifestato saremo simili a lui perché lo vedremo come egli è» (1Giovanni, 3, 2). Ciò che saremo non è stato ancora rivelato! Il mio viaggio verso il Dio sconosciuto, che è al di là di tutte le parole, è anche il viaggio verso il mio io sconosciuto. Io, dunque, porto nel dialogo l’identità che ho sviluppato finora: conservatore o liberale, inglese o italiano, gay o etero, persino domenicano o gesuita. E mi aspetto di essere rispettato in quanto tale. Ma se mi relaziono con l’altro, tutte queste identità sono solo delle bozze provvisorie. Chi io sono assieme a te è una scoperta ancora da fare! Così quando la Chiesa dialoga con la modernità laica, la Chiesa sta scoprendo ciò che lei stessa è in questo mondo nuovo. La Chiesa ha un’identità aperta che viene scoperta di nuovo a ogni generazione. 
Quando la Chiesa entrò nell’Impero romano ne fu trasformata. Quando gli europei traversarono l’Atlantico e incontrarono i nativi delle Americhe la Chiesa ne fu cambiata. E così pure al giorno d’oggi. Se io scappo dalla modernità laica e secolarizzata mi nascondo anche dalla persona che potrei diventare. Come possiamo dunque affrontare questa eccitante avventura? Anzitutto, di che cosa dobbiamo parlare? Io suggerisco che la Chiesa e la modernità laica dialoghino di ciò che ci interessa tutti, che è: cosa significa essere vivi. Thomas Merton, il monaco cistercense, tenne la sua ultima lezione a Bangkok, poco prima di morire fulminato nella doccia. Dopo la lezione parlò con una suora che gli chiese perché non avesse cercato di convertire i suoi ascoltatori alla fede. Le sue ultime parole a noi note furono: «Io penso che oggi sia più importante per noi lasciare che Dio viva in noi, così che gli altri lo sentano e arrivino a credere in Dio perché lo sentono vivere in noi». Dio disse a Israele: «Ti ho proposto la vita e la morte (…) scegli la vita» (Deuteronomio, 30,19). Tutto ciò che noi crediamo è un Sì alla vita. Benedict Green era un monaco anglicano che aveva il morbo di Parkinson fin da giovane. Alla fine divenne per lui impossibile parlare in modo comprensibile. Mandò allora una lettera a tutti i suoi amici chiedendoci di pregare per lui ma di non andare più a trovarlo. Non sarebbe stato più in grado di dire nulla. Concluse la missiva con una citazione di Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale delle Nazioni Unite: «Per tutto ciò che è stato: grazie. Per tutto ciò che sarà: Sì». Ovvero, grazie per la vita che ho ricevuto, sì alla vita che Dio darà. 
Così, quando riflettiamo su cosa significa dire Sì alla vita, la speranza della Chiesa incontra l’angoscia dominante del nostro tempo, ossia che la vita stia succedendo da qualche parte dove io non sono. John Lennon ha scritto nel testo della sua canzone Beautiful Boy: «La vita è quel che ti succede mentre sei preso a fare altri progetti». Per questo non è lontano dal futuro san John Henry Newman quando ci ammonisce: «Non aver paura che la tua vita abbia una fine, abbi piuttosto paura che non abbia mai un inizio». I giovani cercano sui loro telefonini per capire dove succedono le cose: è lì che cercano le esperienze di vita autentica. Gesù ha detto: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza» (Giovanni, 10, 10). E sant’Ireneo nel secondo secolo ha scritto «Gloria Dei, homo vivens»: un uomo pienamente vivo è la vera gloria di Dio. 
I nostri contemporanei non credenti possono forse guardare a noi e dire: «Caspita, questi cristiani sono proprio vivi?». Se la risposta è no, perché dovrebbero avere interesse a parlare con noi? Questo è il tema del mio prossimo libro, che verrà pubblicato in inglese tra pochi giorni, Vivi in Dio. Un’immaginazione cristiana. Noi cristiani tuttavia riusciremo ad avere una buona conversazione con i non credenti solo se riconosceremo che anche loro capiscono qualcosa di cosa significa essere vivi. Qualcosa che vale la pena per noi di imparare. Anche loro parlano con autorità.
Una buona conversazione richiede che non solo si riconosca l’identità dell’altra persona, ma anche la sua propria autorità. Avremo una buona conversazione solo se riconosceremo che i laici, siano essi credenti o meno, capiscono quanto sia complessa, difficile e meravigliosa la vita oggi. Spesso i sacerdoti durante le prediche dicono delle banalità tali sull’amore e la vita coniugale da irritare profondamente chi li ascolta. È dura essere sposati, tirare su dei figli, sopravvivere se non hai una casa. Un domenicano dello Sri Lanka, Cornelius Ernst, ha scritto nel suo diario poco prima di morire: «Non posso ammettere che Dio possa essere adorato in spirito e verità solo da un individuo ripiegato su se stesso e distaccato da tutto ciò che può disturbare e stimolare il suo cuore. Deve essere possibile trovare e adorare Dio nella complessità dell’esperienza umana». La Chiesa può parlare con autorità delle fatiche della vita umana solo se è aperta all’autorità dei laici, credenti o meno, che sanno quanto sia difficile. Non possiamo parlare di morale sessuale se non ascoltiamo coloro che una vita sessuale ce l’hanno. Io leggo romanzi, guardo film, ascolto musica pop e parlo con tanti amici per cercare di imparare tutto quel che posso sulla ricchezza e la complessità della vita umana. Papa Francesco ha imparato queste cose nelle periferie di Buenos Aires. Le nostre parole devono essere concrete, coi piedi per terra, e ispirate alla vita vissuta. Altrimenti non saranno parole di vita. Rimarranno delle astrazioni. Noi crediamo in un Verbo che si è fatto carne, e così devono fare le nostre parole.
L’Osservatore Romano, 4-5 ottobre 2019

Preti sposati al Sinodo Amazzonia: nodo da discutere

di Askanews

Il nodo degli uomini sposati ordinati al Sinodo sull'Amazzonia

Città del Vaticano, 4 ott. (askanews) – Nel 2014 Papa Francesco ricevette in Vaticano dom Erwin Kraeutler, missionario austriaco e vescovo dello Xingu nella foresta amazzonica brasiliana. A due giornali austriaci, fece un racconto piuttosto dettagliato – in Italia se ne accorsero poche testate – di quella udienza: “Nello Xingu ci sono circa 800 comunità e solo 27 sacerdoti. Come in tutta l’Amazzonia, anche nello Xingu le comunità, per la stragrande maggioranza, hanno accesso alla celebrazione eucaristica domenicale solo due o tre volte l’anno. E’ molto doloroso per me, come vescovo, convivere con questa realtà. Improvvisamente, il papa mi ha chiesto: ‘Che ne pensa lei, o qual è la sua proposta in questo senso?’. Non mi sarei mai aspettato che il papa volesse sentire la mia opinione e ho detto: ‘Non ho una ricetta pronta, ma abbiamo bisogno di trovare urgentemente una soluzione affinché la nostra gente non sia più esclusa dall’eucaristia’. Il papa allora – prosegue l’intervistato – ha risposto che c’erano alcune ‘tesi interessanti’, per esempio quella di un tedesco che è stato vescovo in Sudafrica. Si tratta di mons. Fritz Lobinger, dal 1987 al 2004 vescovo della diocesi di Aliwal. Egli sogna ministri ordinati che appartengono alla comunità e continuano la propria vita familiare e professionale. Il papa ha ricordato anche una diocesi in Messico, dove, nelle varie etnie indigene, ci sono centinaia di diaconi sposati che esercitano il ministero col proprio popolo e presiedono le loro comunità. Manca loro solo l’ordinazione presbiterale per poter presiedere anche la celebrazione eucaristica. E’ la diocesi di San Cristóbal de Las Casas, nello stato del Chiapas”. Ancora: “Francesco ha spiegato che il papa non poteva prendere tutto in mano personalmente da Roma. Noi vescovi locali, che conosciamo meglio i bisogni delle nostre comunità, dovremmo presentare proposte molto concrete. Dovremmo essere ‘corajudos’, ha detto in spagnolo, che significa coraggiosi, audaci. Un vescovo non dovrebbe muoversi da solo, ha detto il papa. Le conferenze episcopali regionali e nazionali dovrebbero accordarsi su proposte di riforma. E poi portare queste proposte a Roma”.Detto, fatto. Domenica prossima si apre in Vaticano un Sinodo sull’Amazzonia: dom Erwin Krautler ne è membro, e tra le proposte che più fanno fibrillare la galassia conservatrice cattolica ci sono i “viri probati”, ossia, come recita l’Instrumentum laboris, il documento di base del Sinodo, “la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile”.Nel frattempo, il Papa ha parlato apertamente di “viri probati”, e lo ha fatto, la prima volta, in una intervista al giornale tedesco Die Zeit (2017): “Dobbiamo riflettere se i viri probati siano una possibilità”, disse in quella occasione al direttore Giovanni Di Lorenzo, e “dobbiamo anche stabilire quali compiti possano assumere, ad esempio in comunità isolate”. La Chiesa deve sempre “riconoscere il momento giusto nel quale lo Spirito chiede qualcosa”. Francesco sottolineava peraltro che “la vocazione dei preti rappresenta un problema enorme” e “la Chiesa dovrà risolverlo”, ma “il celibato libero non è una soluzione”, né lo è aprire le porte dei seminari a persone che non hanno un’autentica vocazione.Di certo, mentre l’ala conservatrice della Chiesateme che il Sinodo sancisca un’apertura che porti all’abollizione del celibato obbligatorio, blog e testate reazionarie sono sul piede di guerra, e anche chi teme il Sinodo per la denuncia dello sfruttamento dell’ambiente e dei diritti umani delle popolazioni indigene probabilmente spera che i “viri probati” assorbano tutta l’attenzione mediatica, il tema non è l’unico punto sensibile dell’Instrumentum laboris. Che, invece, affrotna, più in generale, il tema di “nuovi ministeri per rispondere in maniera efficace ai bisogni dei popoli amazzonici”, la promozione di “vocazioni autoctone di uomini e donne”, nonchP la necessità di “identificare il tipo di ministero ufficiale che può essere conferito alle donne” (donne diacono?). Nel documento preparatorio, ancora, si sottolinea la necessità di promuovere una maggiore “corresponsabilità” delle comunità indigene e si legge che i riti, i simboli e gli stili celebrativi delle culture indigene a contatto con la natura “devono essere assunti nel rituale liturgico e sacramentale” e “occorre superare la rigidità di una disciplina che esclude e aliena, attraverso una sensibilità pastorale che accompagna e integra”. E’ tutta la strutturazione della Chiesa locale che andrà dunque ripensata, in nome di un cattolicesimo che superi definitivamente l’atteggiamento colonialista, clericale e paternalista nei confronti delle culture indigene e lasci loro rispettosamente maggiore libertà di espressione.Quella dei viri probati, ha avuto a spiegare il gesuita argentino Miguel Yanez, “non mi sembra che sia la grande novità, la grande novità del documento è l’inculturazione”. Nel quadro della inculturazione di una “Chiesa amazzonica”, “si può intendere l’ordinazione di eventuali persone sposate che sono impegnate con la Chiesa: non stiamo parlando – ha precisato il teologo gesuita – di ordinare persone che passano per strada, ma gente che ha una traiettoria di vita cristiana e di impegno (cristiano, ndr) ed ha un ruolo guida nella comunità” e che potrebbero essere ordinate “perché i sacerdoti vanno in quella comunità ogni due o tre anni: che comunità cristiana può sussistere con una presenza sacramentale così povera?”. Questa “è la proposta che viene dall’Amazzonia”, raccolta dall’Instrumentum laboris a valle di una ampia consultazione delle Chiese locali. “Deve essere chiaro che si tratta di proposte, di suggerimenti: i vescovi nel Sinodo possono scartarla, possono proporla al Papa che può scartarla: siamo in una fase diciamo di processo”. Peraltro, nelle risposte giunte a Roma dalle Chiese locali, nel corso della consultazione, “non c’era la parola viri probati: gli indigini non parlano latino… e quindi si sono espressi con un’altra parola”. Quanto alla più generale tematica della inculturazione, e al connesso nodo delle ordinazioni di nativi amazzonici, “è chiaro – ha spiegato Yanez – che quando arriva un missionario da fuori passa molto tempo prima che possa comprendere l’idea amazzonica”, mentre “una persona che è già lì può tradurre il Vangelo molto meglio di chi viene da fuori”. Il gesuita argentino ha sottolineato, tuttavia, che non è la prima volta che in tempi moderni la Chiesa si pone questa questione: “Quando Paolo VI dice che egli non è per il celibato opzionale è perché il tema era emerso nel Concilio. Probabilente è la prima volta che esso appare” così chiaramente, e “Papa Francesco ha aperto un canale di ascolto dove appaiono questioni che già c’erano ma che non si ascoltavano, non apparivano tanto chiaramente. D’altra parte non dimentichiamo che la Chiesa cattolica riconosce il sacerdozio di uomini sposati: esistono nella Chiesa cattolica orientale, nel rito greco cattolico, e oggi sono entrati nel rito latino i sacerdoti che provengono dalla comunione anglicana. Quindi non è la prima volta che ci saia un’eccezione. Il Papa può ampliare questa ecezione ad altri casi, ma quando diciamo eccezione alla regola non stiamo dicendo abolire la regola ma eccezione: la regola si mantiene”.

Sinodo Amazzonia preziosa occasione per una riflessione accurata e esigente sul ministero e sulla liturgia

Rainews

Si aprirà oggi, in Vaticano, l’importante Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, per alcuni versi, dall’intreccio “esplosivo”. Un Sinodo strategico per il Pontificato di Papa Francesco. Ne parliamo con il teologo Andrea Grillo. Grillo è docente ordinario di Teologia al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.

Professore, domani, in Vaticano, si apre l’importantissimo Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia. Un Sinodo, definito “speciale”, strategico per il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Perché è così importante per Francesco?

Direi che la rilevanza del Sinodo dedicato alla Amazzonia deriva da due fattori: il primo è il rapporto con una “periferia integrale”, a differenza dei Sinodi su Famiglia e sui giovani, che hanno affrontato un tema universale, di cui hanno poi scandagliato elementi periferici. Qui il centro è la “periferia amazzonica”, come pienezza di espressione ecclesiale con un “rostro” peculiare. Per questo, ed è il secondo elemento, questo Sinodo esige risposte immediatamente praticabili: non essendo rivolto ad una Chiesa universale, chiede concrete decisioni sulla liturgia, sul ministero, sull’annuncio, sui soggetti autorevoli e sulle forme ecclesiali davvero credibili.
Sappiamo che è un Sinodo, come già detto “”speciale”, che ha un doppio livello uno geopolitico, la difesa del bioma Pan-Amazzonico, e l’altro la ricerca di un cammino per una Chiesa dal volto amazzonico. L’intreccio è esplosivo: solo una chiesa non coloniale può preservare il bioma amazzonico. Bioma visto come “luogo teologico” fondamentale per la testimonianza evangelica. È così professore?

Direi che proprio questo intreccio, che lei ha bene rilevato, chiede al Sinodo un respiro profondo e una vista lunga. Difendere una “forma di vita”, senza nessuna concessione al tradizionalismo, e “giocare il gioco linguistico ecclesiale” con regole più semplici e insieme più articolate diventa una sfida per il pensiero e per la prassi ecclesiale. Si tratta, in fondo, di ripetere ciò che Dante diceva quando distingueva tra “ciò che non muore e ciò che può morire”. E questo deve essere fatto, in modo intrecciato, tra forme di vita locale e gioco linguistico ecclesiale. Sarà una esperienza di crescita e di maturazione, per la Amazzonia e per tutta la Chiesa.

Tralasciamo il lato “politico” del Sinodo, che però, occorre ricordare, inevitabilmente avrà. Affrontiamolo dal lato ecclesiale. Il Sinodo è stato fatto oggetto di attacchi, forti, dalla componente conservatrice.. Quest’ultimi sono preoccupati per alcune affermazioni dell:Istrumentum laboris, tra cui la proposta di ordinare “viri probati” all sacerdozio e sul ruolo della donna. Insomma per loro il Sinodo è una specie di “Cavallo di Troia” per scardinare la Chiesa cattolica. A me sembra una esagerazione…. Per lei?

Questo Sinodo, come tutti i precedenti condotti da Francesco, non avendo conclusioni “predeterminate” – come spesso accadeva nei Sinodi precedenti – inquieta i burocrati e i pigri. Francesco ha sempre detto che il confronto sincero e sereno può far camminare la Chiesa, modificare la disciplina, approfondire la dottrina. Questo Sinodo, in particolare, è una preziosa occasione per una riflessione accurata e esigente sul ministero e sulla liturgia. Sono due temi su cui ogni trasformazione evoca facilmente disastri, tradimenti, perdite, apostasie, eresie…In realtà in gioco vi è la capacità della Chiesa di rispondere, autorevolmente, ai segni dei tempi. La Chiesa può farlo e quindi deve farlo. Ne ha la autorità e non può sottrarsi. Altrimenti sarebbe infedele al proprio compito. I tradizionalisti vogliono una Chiesa infedele per codardia. Cambiare non è cedere, ma crescere.

Si può dire, secondo lei, che il Sinodo oltre che della “Laudato si” è figlio di un logica diversa del rapporto tra tradizione e aggiornamento (o modernità)?

Sicuramente. Questo Sinodo, ancor più dei precedenti, si pone come “mediazione della tradizione”, che esige una nuova traduzione, in questo caso per annunciare la Parola e celebrare il Sacramento nel contesto di un complesso di culture particolari, per le quali la applicazione delle “logiche romane”  – così come sono – risulta da secoli inefficace. Con i suoi “bisogni emergenti” la Amazzonia può indicare a Roma orizzonti nuovi e più ampi, cieli più azzurri. La Amazzonia non è una foresta oscura, in cui la Chiesa possa perdersi. Piuttosto è una storia particolare, o meglio un insieme di storie particolarissime, in cui può ritrovare il gusto di una fedeltà creativa e dinamica al Vangelo.

Come viene delineato il “rostro Amazzonico” della Chiesa e cosa porta alla Chiesa universale?

Vorrei dirlo essenzialmente su due livelli. Il primo è quello dei “soggetti autorevoli”. La Chiesa, per essere fedele al suo Signore, ha sempre mutuato i modelli di “autorità” dalle culture in cui viveva. Immaginari greci, romani, franchi, sassoni o mozarabici hanno dato forma e carne alla storia del ministero cristiano. Anche la Amazzonia, con le sue peculiarità storiche e geografiche, ha il diritto di incarnare l’unica tradizione che viene da Cristo con le forme maschili e femminili di esercizio della autorità, così come si sono sviluppate in loco. Questo è un cantiere promettente, su cui si potrà lavorare con frutto. E non ci sarà bisogno di creare nulla “ex-nihilo”. Si dovrà piuttosto riconoscere e dare forza a quel che già esiste, nella realtà vitale e istituzionale di quelle culture in cui si fa l’atto della fede e si vive in Cristo. Il secondo punto è, precisamente, permettere che la correlazione tra atto di fede e vita cristiana si dica e si ascolti ritualmente secondo i linguaggi che quelle culture hanno elaborato nella sapienza secolare delle loro tradizioni. Una liturgia che tenga conto di queste ricchezze non è affatto un impoverimento del “rito romano”.Piuttosto è il rito romano che sa emigrare e radicarsi altrove. Scoprire la qualità “migrante” del rito romano potrebbe essere uno dei punti-chiave del Sinodo.

Papa Francesco, qualche giorno fa, ha fatto una affermazione: “mi sento assediato”. Cioè le critiche dei suoi avversari sono molto pesanti. Sappiamo che alcuni alti prelati sperano anche nelle sue dimissioni. La minaccia di uno scisma condizionerà il Sinodo?

Se un papa parla con le parole del Concilio Vaticano II, vive secondo l’immaginario conciliare e non rinuncia alla profezia, è inevitabile che si trovi in molti casi “assediato” da un apparato ecclesiale che spesso usa standard di espressione e di esperienza molto diversi. D’altra parte bisogna riconoscere che Francesco mostra una tale superiorità, non solo di carattere, ma direi di cultura e di esperienza, rispetto ai suoi critici, che può facilmente trovare le risorse personali ed istituzionali per resistere all’assedio. Basta leggere i testi dei critici, per capire che il linguaggio vecchio, le rappresentazioni datate e gli immaginari distorti non danno loro alcuna speranza. Se va bene difendono ideali di 200 anni fa. Se va male, difendono il loro piccolo orticello di influenza. Francesco vuole una chiesa in cammino e in uscita, che non guarda a se stessa. Quelli stanno tutto il giorno davanti allo specchio. Anche l’Amazzonia può essere per loro semplicemente uno “spiacevole turbamento” per una agenda fatta di cerimoniali rinascimentali fini a se stessi.

Ultima domanda : lei è ottimista sul Sinodo?

Sì. Sono ottimista. Non nego che ci saranno ostacoli, difficoltà, tentativi di svuotamento o di diversione. Soprattutto non ho motivi di scetticismo. Questo credo che sia, per Francesco, l’ostacolo più grande, anche in questo Sinodo. Egli può contare su un grande consenso del popolo di Dio. Ha certamente alcuni che apertamente e anche lealmente gli dicono che sbaglia. Ma deve guardarsi soprattutto da quelli che fanno sorrisi e poi dicono di essere scettici. Preferisco di gran lunga i critici agli scettici. Nella curia romana, e anche nelle curie non romane, sono gli scettici il problema vero di Francesco. Da parte mia sono ottimista perché la realtà è superiore alla idea, anche alle idee degli scettici. L’Amazzonia è un micro-macro cosmo nel quale la ipocrisia degli scettici può solo giustificare lo status quo e impedire ogni cambiamento. La speranza della fede rende possibile un grande avanzamento con cui Roma riconosce l’Amazzonia nella sua specificità, e la Amazzonia restituisce a Roma il suo “passo di corsa” e la sua “autorità nel tradurre la tradizione”. Se vogliamo correre verso il sepolcro vuoto non possiamo restare a casa, per cambiare la serratura, ossessionati solo dalla paura di perdere qualcosa. Per questo ho motivi di speranza e di fiducia.