Il Papa a Sant’Egidio: preghiera e dialogo nella prospettiva della pace

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Vatican News

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino, finiva una “lacerante divisione del continente che tante sofferenze aveva provocato”. Oggi, nei primi due decenni del XXI secolo, nuove guerre, nuovi muri e nuove barriere dilapidano quel “dono di Dio che è la pace”. E’ questa la parola di Francesco che arriva a Madrid; ad accoglierla ci sono leader delle grandi religioni mondiali insieme a rappresentanti del mondo delle istituzioni e della cultura. A tutti coloro che si ritrovano in Spagna per parlare della “Pace senza confini”, il Papa lancia messaggi e raccomandazioni importanti: “E’ necessario sempre pregare e dialogare nella prospettiva della pace: i frutti verranno!”. Fu la preghiera per la pace a favorire il crollo del muro, spiega Francesco, e quella pace va “continuamente incrementata di generazione in generazione con il dialogo, l’incontro e la trattativa”.

Chiusure e separazioni fanno a pezzi il mondo


Oggi, prosegue, “è insensato, nella prospettiva del bene dei popoli e del mondo, chiudere gli spazi, separare i popoli, anzi contrapporre gli uni agli altri, negare ospitalità a chi ne ha bisogno e alle loro famiglie”, perché così “si fa a pezzi il mondo, usando la stessa violenza con cui si rovina l’ambiente e si danneggia la casa comune, che chiede invece amore, cura, rispetto, così come l’umanità invoca pace e fraternità”.

La casa comune ha le porte aperte. La pace è senza frontiere

La casa comune ha bisogno di porte aperte per comunicare e incontrare, e non sopporta muri che separano o che contrappongono coloro che la abitano. Quella casa comune – scrive il Papa – ha bisogno di porte aperte che aiutino “a cooperare per vivere assieme nella pace, rispettando le diversità e stringendo vincoli di responsabilità”. La pace, precisa, “è senza frontiere. Sempre, senza eccezioni”.

Il Documento sulla Fratellanza umana, passo importante verso la pace

A Madrid la preghiera, come da tradizione, ricorda, “occupa il posto principale e decisivo”, unisce “in un comune sentire, senza confusione alcuna. Vicini ma non confusi!” precisa poi Francesco nel messaggio, “perché comune è l’anelito di pace, nella varietà delle esperienze e delle tradizioni religiose”. “La preghiera per la pace, in questo tempo segnato da troppi conflitti e violenze, unisce ancor più tutti noi, al di là delle differenze, nel comune impegno per un mondo più fraterno”. E proprio perché “la fraternità tra i credenti, oltre che un argine alle inimicizie e alle guerre, è fermento di fraternità tra i popoli”, Francesco cita il “Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato nel febbraio scorso ad Abu Dhabi da lui stesso e dal Grande Imam di Al-Azhar. “Un passo importante – scrive ancora – sulla via della pace mondiale”. Un testo che sarà filo conduttore dell’incontro di Madrid, perché – ricorda il Papa – ai credenti tutti dice che “le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, di ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue”.

Uniti e stretti per gridare che la pace non ha confini

Si sta vivendo “un momento grave per il mondo”, conclude il Papa, che chiede a tutti di unirsi e stringersi “per gridare che la pace è senza confini, senza frontiere”. E’ dai cuori che “bisogna sradicare le frontiere che dividono e contrappongono. Ed è nei cuori che vanno seminati i sentimenti di pace e di fraternità”.  

Benedetta Bianchi Porro: una testimonianza

Beatificazione di B. Bianchi Porro

sabato 14 settembre, nella cattedrale di Forlì, si svolgerà la beatificazione di Benedetta Bianchi Porro. Un nome che a molti parla di amicizia, dolore, serenità e abbandono in Dio. Dalla sua morte, avvenuta il 23 gennaio 1964 a ventisette anni, la sua vicenda ha appassionato uomini e donne di ogni stato di vita e di età anagrafica, anche a diverse latitudini.

Molte sono state le pubblicazioni su di lei, dai profili più snelli all’edizione degli scritti completi. Tra queste, Oggi è la mia festa – Benedetta Bianchi Porro nel ricordo della madre, libro edito per la prima volta nel 1994, ora ripubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna.

Betaificazione B. Bianchi Porro

Secondo quanto afferma nella presentazione il postulatore della sua causa, il saveriano padre Guglielmo Camera, costituisce «un vero dono per intuire la bellezza e la grandezza della vita di Benedetta».

L’autrice, Carmela Gaini Rebora, conobbe Elsa Giammarchi, madre della prossima beata, nel 1944, quando le rispettive famiglie erano sfollate a Casticciano, un paesino romagnolo; all’epoca, Benedetta aveva otto anni.

Il suo racconto prende le mosse dal ventottesimo anniversario di quello che oggi può davvero essere definito il dies natalis, il giorno della nascita al Cielo, di Benedetta.

La signora Elsa, ospite nella casa bolognese dell’autrice, aveva da poco partecipato con lei alla messa nella basilica di San Domenico. Prima ancora di dare fondo ai propri ricordi, le fece leggere la lettera che sua figlia volle inviare a Natalino Diolaiti, un giovane colpito da una malattia alla spina dorsale, di cui aveva appreso tramite il settimanale Epoca.

Da tempo Benedetta era sorda, cieca e paralizzata: l’unica parte sensibile del suo corpo era il dorso della mano destra. In una sorta di testamento spirituale, gli comunicò la scoperta che dava senso ai suoi giorni: «Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli».

Dopo la lettura di quello scritto, annota Carmela, la sua mente era piena di domande, che non riusciva però a esprimere: «Cosa si prova a essere la madre di una “santa”? Cosa ha significato per Elsa la sua vita di madre accanto a quella creatura segnata da un destino eccezionale?». In effetti, sono le stesse domande che giornalisti e scrittori pongono ai familiari dei candidati agli altari, a volte violando la ritrosia di quelle persone. In Elsa, però, la sua amica ha visto un volto sereno, pronto a descrivere gli anni vissuti, come confidente privilegiata, accanto a Benedetta.

Ecco quindi ampi estratti dal diario che lei stessa aveva imposto alla figlia. Per il suo quinto compleanno, infatti, le regalò un quaderno, in cui le disse di annotare tutto quello che le succedeva. «È un esercizio che insegna a esprimersi correttamente. Inoltre, impone uno studio introspettivo, un inquadramento del carattere, aiuta a raggiungere l’equilibrio», afferma. In effetti, così è stato: se da piccolissima (sapeva già scrivere) Benedetta descriveva le immagini della natura, i fiori, gli animali e il paesaggio che la circondava, con il passare del tempo cominciò a riflettere sulla precarietà della vita.

Ne è prova una “favoletta” che volle dedicare a una rosa appena colta:

«Sì, nell’immenso verde della natura ho pensato alla vita dei fiori: la fanciullezza comincia in primavera; sono boccioli; poi all’estate diventano dei vispi ragazzi e maturano; in autunno cominciano a sfogliare e questi sono anziani già, poi arriva l’inverno ed ecco la vecchiaia e muoiono tutti i fiori. Così, come l’uomo nasce muore. Anche la nostra superiorità di animali sopravanza già di molto. Questa piccola riflessione mi ha fatto già un po’ più giudiziosa: la povera rosa che io tenevo in mano non era che una disgraziata essendo stata colta nella sua giovinezza».

«Disgraziata» è un aggettivo che chissà quante persone hanno rivolto a Benedetta, non solo per la sua fine terrena avvenuta, come detto, a ventisette anni. Aveva pochi mesi quando si era ammalata di poliomielite, per cui una gamba rimase più corta dell’altra. «Non l’ho mai sentita lamentarsi per la sua menomazione», continua a raccontare sua madre. «A me si stringeva il cuore quando la vedevo correre zoppicando e trascinando la gamba malata». La bambina soffriva molto di più se doveva stare lontana dai suoi cari, perché costretta a letto da mal di testa sempre più frequenti.

«Un vero dono per intuire la bellezza e la grandezza della vita di Benedetta» (Guglielmo Camera).

Elsa prosegue delineando il rapporto di Benedetta con i fratelli: Leonida, intelligente ma «piuttosto egoista», che però «con lei riusciva a cambiare carattere, a diventare generoso»; Gabriele, più vicino a lei d’età, di carattere scherzoso; Corrado che, secondo la madre, è quello che «nello spirito» assomigliava di più alla sorella; Carmen, la cui nascita accolse con gioia (come anche quelle degli altri fratelli minori); Emanuela, con la quale andò a vivere a Milano all’epoca degli studi universitari.

Elsa non nasconde la severità con cui ha educato i figli e neppure il fatto che, quando le raccontavano i loro successi scolastici, non li premiava né li incoraggiava.

Benedetta, invece, amava mostrare il suo affetto, ad esempio quando festeggiava i compleanni di tutti. Nel tempo dell’adolescenza, anche Benedetta fu presa dagli sbalzi d’umore, tanto più che suo padre si era trasferito a Sirmione, ma lei aveva cominciato a frequentare le medie a Brescia, tornando a Forlì per la seconda media. La prima e forte consapevolezza del suo stato avvenne quando cominciò a portare il busto: è allora che le viene da parlare di «disgrazia». Eppure, ha un’aspirazione profonda: «Ma nella vita voglio essere come gli altri, forse più, vorrei poter diventare qualche cosa di grande…».

Gli anni del liceo, sempre nel racconto della madre, sono il periodo in cui Benedetta comincia a manifestare «l’umiltà di chi vuole nascondere i propri meriti per non creare confronti penosi» e, allo stesso tempo, la coscienza che Dio abita nel suo animo.

Intanto il suo udito peggiora, tanto che, all’università, viene respinta a un esame, solo perché, secondo il professore esaminatore, non si è mai visto un medico sordo. I banchi dell’Università degli Studi di Milano, dove si era iscritta prima a Fisica (per far piacere al padre), poi a Medicina, sono anche il luogo dove incontrò i primi veri amici: giovani come Maria Grazia o Nicoletta, appartenenti a Gioventù Studentesca, il nucleo del movimento di Comunione e Liberazione.

La madre non racconta solo l’avanzare della malattia, a partire dall’attimo preciso in cui Benedetta lesse in un manuale i sintomi che avvertiva nel corpo. Presenta anche aspetti più ordinari e sereni, come l’amore per la musica, il fatto che le piacesse essere sempre in ordine, che avesse tantissimi orecchini – che furono peraltro il mezzo con cui l’amica Maria Grazia entrò in contatto con lei – o che cucinasse un dolce per i familiari, nei giorni di festa, ovviamente finché ne fu in grado.

Riferisce anche, nel dettaglio, i due pellegrinaggi a Lourdes, nei quali Benedetta cementò la propria relazione con la Vergine Maria: nel secondo si dispose a pregare non per la propria guarigione, ma per quella, effettivamente avvenuta, di una compagna di viaggio.

Le pagine sugli ultimi giorni di vita trasmettono tutta la commozione e la difficoltà, da parte di Elsa, di ringraziare il Signore con la figlia per tutto quello che le aveva dato, proprio per tutto. La partecipazione emotiva tocca il culmine col «dolce segno»: una rosa bianca, fiorita nel giardino di casa, che Benedetta aveva visto in sogno. Fu colta solo dopo il suo ultimo «Grazie», rivolto a quanti la stavano assistendo. «Quando Benedetta morì», confida Elsa nell’ultimo capitolo, mi sembrò di rimanere orfana. Ero io la figlia che aveva perduto la mamma. Perché lei era la nostra guida. Mi sentii improvvisamente priva di quella guida, priva del suo aiuto, della sua mano.

Nella prefazione alla nuova edizione, Carmela si pone una nuova domanda: «Come si spiega questo alone di santità intorno a una studentessa apparentemente simile a tante altre ragazze, la cui fede non si manifestava in particolari pratiche religiose?». Rileggendo il libro, trova risposta a questo e agli interrogativi di ventisei anni fa: «L’amore è stato veramente la guida di Benedetta nel breve ma intenso cammino della sua vita. L’amore che diffondeva non poteva che generare altro amore».

Recensione ripresa dalla versione per abbonati a www.lacrocequotidiano.it dell’11 settembre 2019.

“Inclusione digitale” come diritto umano

Internet e piattaforme digitali sono ormai talmente diffuse che «è virtualmente impossibile immaginare un mondo che non sia online». L’episcopato dell’Australia ha pubblicato un corposo documento sul tema (Making it real. Genuine human encounter in our digital world), dove si riflette sulle relazioni umane nell’era dei social. Sulle opportunità e rischi del web e sulla necessità di costruire comunità vive, che ogni giorno testimoniano il vangelo concretamente e «in prima persona».Agenzia SIR, 12 settembre 2019.

È possibile creare «incontri autentici» tra le persone nel mondo digitale. Bisogna però che tutti, utenti dei social media, responsabili politici, aziendali, responsabili di comunità, «facciano di più». Lo pensano i vescovi australiani che hanno scritto e appena pubblicato un documento tutto dedicato a riflettere su come «rendere reali» gli incontri umani che oggi sempre più frequentemente nascono e crescono nel mondo virtuale (Making it real. Genuine human encounter in our digital world; qui il testo originale inglese).

Quel passo del vangelo di Luca dove Gesù viene interrogato da un dottore della legge su come fare per avere la vita eterna, è riproposto come se Gesù rispondesse alle domande di uno tra i suoi contatti WhatsApp: vale a dire, il messaggio di Gesù resta valido anche nel tempo del digitale. Come resta valida la sua indicazione che l’amore al prossimo è la legge fondamentale del cristiano, ovunque lo si incontri, anche sui social.

Benefici e rischi

Internet e piattaforme digitali sono talmente diffuse che «è virtualmente impossibile immaginare un mondo che non sia on line», scrivono i vescovi ed elencano gli «immensi benefici» che ciò porta con sé. Mettono però anche in guardia da «solitudine, manipolazione, sfruttamento e violenza», che in quegli spazi virtuali concretamente trovano casa a danno della dignità umana.

Se è stato trasformato il nostro modo di interagire a livello personale, è stato rivoluzionato anche il modo in cui interagiamo con lo Stato e beneficiamo di servizi. Il «e-qualsiasicosa» (come l’e-commerce, e-health, e-service, e-work) ha aperto nuove possibilità ma contemporaneamente creato spazi di nuove esclusioni rispetto a chi non «è nelle condizioni, non si può permettere, non è capace» di usare le tecnologie digitali (aborigeni, poveri, disabili… nell’elenco dei vescovi australiani).

Proprio quelli che ne avrebbero più bisogno mancano all’appello del digitale e «le divisioni sociali si replicano online». E siccome «i servizi essenziali si spostano sempre più on line, l’inclusione digitale diventa indispensabile per la più essenziale partecipazione sociale», al punto che «dovrebbe essere considerata un diritto umano».

Incontrare l’umanità

«L’esclusione digitale non è una questione meramente tecnica», ma anche «morale e sociale». Perché «la domanda fondamentale è se scegliamo di utilizzare la tecnologia digitale per rendere senza volto, senza nome e senz’anima gli esseri umani dall’altra parte dei nostri dispositivi o se scegliamo di incontrare autenticamente e rispettare la loro umanità e la nostra».

Ci sono però anche una serie di problemi legati alle piattaforme stesse e che i vescovi sollevano: dalla questione della montagna di dati personali offerti in pasto ai «coccodrilli digitali», il loro sfruttamento a beneficio economico delle grandi piattaforme, alle questioni legate all’informazione e alla diffusione di notizie false o manipolate.

Cosa possiamo fare?

Quindi bisogna agire. E il documento dei vescovi australiani propone una serie di piste d’azione o raccomandazioni. Si comincia da ciò che possono fare i singoli utenti: trattare con rispetto gli altri secondo l’adagio «posta sugli account altrui ciò che vorresti che gli altri postassero sui tuoi»; stare con gli altri e limitare il tempo che si passa connessi da soli con il telefono; agire contro i soprusi, gli abusi e le violenze on line di cui si è testimoni o si viene a conoscenza.

Quanto alle comunità, la raccomandazione è che si dedichino a promuovere l’alfabetizzazione digitale o ancora che si impegnino concretamente e «in prima persona» in battaglie sociali e politiche di sensibilizzazione e attivismo. Invece ai leader politici e aziendali si chiedono «regole» sulla raccolta e uso dei dati personali, trasparenza e responsabilità, aderenza alla verità e onestà quando ad esempio si tratta di diffusione di notizie e informazioni.

Anche la Chiesa ha compiti e responsabilità, come ad esempio, difendere «relazioni autenticamente umane che riconoscono la dignità dell’altro, fatto a immagine e somiglianza di Dio»; contrastare la deriva da città-comunità a città-collezioni di individui; continuare a vivere la concretezza dell’incarnazione e della esperienza di fede che segna il cristianesimo, essendo «buoni samaritani» con ogni fratello o sorella ferito, escluso, in difficoltà per le strade delle nostre città e del mondo virtuale.

settimananews

Pastorale luogo della teologia

volume Chiodi su don Sergio Colombo

Settimana News

Don Sergio Colombo e la comunità parrocchiale di Redona rappresentano uno degli itinerari più singolari nella diocesi di Bergamo del post-concilio. La feconda alleanza che si è venuta a creare tra una forma del ministero ordinato e la pratica della fede nella quotidianità delle cose ha permesso un lento e lungo cammino di ideativa fedeltà al Vaticano II in un piccolo pezzo di terra del nostro mondo.

Vaticano II: come un Concilio diventa un Concilio?

Si sarebbe tentati di dire, a prima vista, che questa alleanza è stata una sapiente «traduzione» delle indicazioni conciliari sul e nel territorio di una Chiesa locale. Eppure, mi sembra che il concetto di «traduzione» sia ancora troppo limitato per indicare adeguatamente la feconda singolarità di questo legame fra una comunità e il ministro. Traduzione ci piace (tanto) perché ci dà la sicurezza che ci sia, comunque, un testo uguale per tutti, che rimane identico a se stesso, anche se poi viene trasposto in linguaggi e pratiche che possono anche non comprendersi immediatamente fra di loro.

La domanda, che se non sbaglio completamente ha innervato anche il vissuto di questa alleanza, mi sembra invece più profonda, radicale, e meno meccanica.

don Sergio Colombo

Intorno a questi temi, facendo perno sulla questione della teologia morale, si muove il libro, edito per i tipi EDB, di Maurizio Chiodi, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e il Seminario di Bergamo, dedicato alla figura e opera di don Sergio: Sergio Colombo uomo della Parola. Antropologia, teologia morale e pratica pastorale.

Ritorniamo alla questione fontale, quella del rapporto fra il Concilio e una comunità cristiana radicata su un territorio e inserita nel quotidiano della vita civile e politica: l’autore, non solo per riferimento al Vaticano II, privilegia la parola «traduzione» come grande principio organizzativo dei tanti binomi che scorrono nel volume – articolati, da ultimo, su quello fondamentale dell’antropologico e del cristologico.

Ma, da quello che si evince dalla sua stessa scrittura sulla struttura dell’alleanza fra la comunità di Redona e don Sergio, per quanto riguarda il Concilio sarei tentato di osare qualcosa di più che una semplice «traduzione». E forse questo potrebbe valere per tante altre alleanze nella Chiesa globale che rimangono anonime o a noi ignote.

Non è forse che il Concilio «funziona» non quando è semplice tradotto in codici e pratiche aderenti a una determinata realtà locale, ma quando a partire da questa realtà esso viene letteralmente «inventato»? Ossia, non è forse che il Vaticano II concede lo spazio a una forza ideativa, che non può predeterminare, che lo fa ogni volta di nuovo?

Questo ci permetterebbe di guardare sotto una luce diversa allo stesso cammino post-conciliare del singolare rapporto fra il ministero di don Sergio e il vissuto della comunità che lo ha ospitato per così lunghi anni, e proprio per questo è stata anche da lui plasmata.

La pastorale luogo della teologia

La lettura del libro di Maurizio Chiodi è da suggerire anche per questa ragione: si tratta, cioè di un testo profondamente segnato da un «caso singolare» che, però, istruisce con intelligenza la parabola del vissuto della Chiesa cattolica nei decenni seguiti al Vaticano II.

Certo per competenze, ma anche perché aiuta sempre trovare un punto di condensazione intorno a cui poter raccogliere la complessità del vissuto quotidiano, altrimenti fuggente nella sua disseminazione, l’autore riconduce le vicende di un uomo, della sua comunità, della Chiesa particolare di Bergamo e della Chiesa tutta, al tema della teologia morale – disciplina che lo accomuna, tra altre cose, a don Sergio. Che la insegnò in età più giovane e non smise mai di pensarla come zona del sapere della fede da coltivare con incessante passione e competenza. Anche quando si fa il parroco.

La struttura del volume non è solo determinata dalla contingenza; dietro di essa, infatti, vi sta un doppia strategia: di don Sergio prima, e dell’autore del testo poi. L’inizio con la morale fondamentale permette di chiarificare la struttura stessa della morale, individuando i temi cardine e seguendone il percorso nel passaggio da una vita a maggiore impronta accademica a un vissuto pastorale quotidiano. Soggetto e coscienza sono i due poli principali del primo capitolo.

Vivere-soffrire-morire: insieme

Ma appunto, il soggetto non è mai solo e la coscienza non è destinata a consumarsi in se stessa: ecco allora il capitolo sulla sessualità, colta nella sua drammaticità, ossia l’essere in un legame fondamentale con l’altro in vista dell’amorevole edificazione dell’umano nel tessuto delle relazioni familiari. Quello di cui c’è bisogno è «un’interpretazione più profonda della sessualità come “mistero” che si “manifesta nella cultura e nella storia come fatto integralmente umano, come realtà in cui l’uomo fa passare la sua intera esistenza”» (p. 72).

E poi quello sulla politica: ossia, la consapevolezza che i legami che ci tengono in vita non sono mai «privati» (neanche quello dell’amore di coppia lo è, a dire il vero), o meglio limitati alla configurazione di una serie di rapporti tutti dicibili per nome proprio. Vi è un dovere anche di prendersi cura dei molti legami anonimi che scorrono nella città degli uomini. Senza questa cura non vi è possibilità che un ethos condiviso possa prendere forma. La dimensione politica non è giustapposta a quella credente, ma coerentemente legata a essa nel fatto stesso della fede: «Per il cristiano è impossibile separare l’opera mediante la quale egli “fa” la Chiesa e quella con cui “fa” la società umana. Tutto questo implica per la comunità cristiana, e per il singolo, la ricerca continua di un’attenzione e uno stile per poter camminare dentro la grande comunità degli uomini, con la propria specificità, ma impegnata in un’opera comune» (p. 103).

Seguono due brevi, ma importanti, capitoli sul morire cristiano e sul soffrire – dove la cosa più interessante è, appunto, il modo in cui l’autore di questo volume coglie le implicazioni morali di questi passaggi fondamentali del vivere umano così come essi sono stati compresi e praticati pastoralmente da don Sergio e la sua comunità.

Fare memoria delle esperienze buone della Chiesa

Un capitolo conclusivo mira a tratteggiare alcuni percorsi a venire per la teologia morale, indicando il contributo di don Sergio Colombo a essi. Occasione, questa, anche per una ripresa sintetica delle tappe affrontate nel volume.

Il libro del prof. Chiodi non è importante solo per la rilettura scientifica e accademica delle molte intuizioni e pratiche disseminate nel vissuto di don Sergio Colombo, ma anche, e forse soprattutto, perché si fa carico di raccogliere la memoria di una esperienza buona della Chiesa locale negli anni del post-concilio. La forma della pubblicazione la rende accessibile oltre i confini di coloro che ne furono i protagonisti diretti.

Così le rende onore, ma mostra anche che la dimensione parrocchiale e comunitaria della fede sono essenziali nell’edificazione istituzionale della Chiesa stessa. Cosa che la Chiesa come istituzione non dovrebbe mai dimenticare.

Maurizio Chiodi, Don Sergio Colombo uomo della Parola. Antropologia, teologia morale e pratica pastorale (Fede e Storia), Bologna, EDB 2019.

L’Associazione teologica italiana «Ripensare l’umano?»

Congresso ATI

settimananews

L’Associazione teologica italiana (ATI), dal 2 al 6 settembre, nel suo congresso nazionale ad Enna, si è lasciata interpellare da un interrogativo cruciale nel cambiamento d’epoca in corso: «Ripensare l’umano?». Le neuroscienze (Carlo Arrigo Umiltà), i new-media (Fausto Colombo), come pure l’economia (Mario Deaglio) con il suo impietoso impatto ecologico, sono state vere e proprie provocazioni lanciate a qualificati teologi e teologhe invitati a interagire secondo conformi specializzazioni.

L’interrogativo antropologico si è così da subito declinato secondo due differenti prospettive: nel tempo egemonico della tecnica e dell’economia, caratterizzato da nuovi approcci al reale, la teologia è tenuta a ripensare l’umano? Oppure, sono i molteplici approcci delle neuroscienze, delle scienze della comunicazione e dell’economia a dover ripensare il modo di articolare la propria peculiare riflessione con conseguenze per l’etica e la prassi?

La parola-chiave che ha caratterizzato i molteplici interventi è stata «metamorfosi». Non certo nella classica accezione kafkiana di una estraneità fra conoscenza e soggetto che tutto sembra fagocitare, bensì in quella particolare tonalità che tale termine assume alla luce dell’evento pasquale.

Provocate dal kairòs presente, le discipline teologiche sono state invitate sempre più e correlativamente a orientarsi verso una dialogica presa in carico degli interrogativi e dei contenuti che i vari saperi e i vari soggetti offrono alla riflessione. Se, dunque, di metamorfosi si può parlare, è nei termini di un allargamento dell’angolo di visuale epistemologico e di una metodologia inter- e trans-disciplinare in cui le scienze possono ritrovarsi in contatto tra loro tutelando l’umano stesso che le esercita.

Come ha ricordato Philippe Bordeyne dell’Institut Catholique di Parigi, la rivoluzione digitale ha profondamente modificato la nostra relazione con il mondo e con l’altro, come anche la percezione della nostra identità. Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie ha provocato una metamorfosi che tuttavia, proprio per la sua specificità, pone la questione dei limiti e della differenza dell’umano e la necessità di una riflessione comune e interagente.

Cosa c’è dopo la modernità?

La nostra epoca è l’epoca dei post – ha ribadito Luigi Alici aprendo la prima sessione del congresso –, secondo un’interminabile sequenza di aggettivi sostantivati (post-democrazia, post-verità, post-moderno, post-umano…). Dal momento che essi sembrano sottolineare lo sbiadirsi dei punti di riferimento e la difficoltà di descrivere con puntualità linee di tendenza univoche, in particolare per ciò che riguarda la questione antropologica, “cosa/chi” dunque c’è “dopo”?

All’interno della naturale inquietudine per il superamento di un’epoca, Alici ha posto in evidenza una doppia tendenza di fondo:

1) la prima tendenza propende a ignorare l’eredità di una storia che ci precede, quella della modernità, ridotta a contrapposizione tra illuminismo e romanticismo, individualismo e collettivismo, perdendo di vista il surplus di senso che meriterebbe di essere riconosciuto e con cui è necessario confrontarsi per dare all’oggi un’«elasticità» e una prospettiva ulteriore;

2) la seconda tendenza è piuttosto «regressiva». Essa è presentata spesso come emancipazione e tende a spostare il baricentro antropologico verso l’infraumano. Il risultato è un riduzionismo scientistico ottenuto dalla banale commistione fra teoria e prassi, tra pensiero antimetafisico e uso dispotico della tecnica.

In questa duplice tendenza alcune misure di grandezza si profilano necessarie per il recupero della questione intorno all’uomo e la donna in termini di «generatività». Che cosa è, dunque, propriamente umano? Quando l’individuo è autenticamente umano? È forse nella sua maniera di abitare il mondo e la storia, di comunicare e di interagire mediante la tecnica, che possiamo cogliere una sua specificità?

Quale modo autenticamente umano di abitare il mondo?

Punti di riferimento in questo quadro descrittivo sembrano essere, in particolare, da un lato, la messa a fuoco della fragilità e della vulnerabilità come elementi caratterizzanti l’umano; dall’altro, la dimensione di una relazionalità più ampia in cui è possibile ripensare il peculiare posto della persona nella storia e nel mondo.

Congresso ATI

La priorità ontologica dell’alterità, come evidenziata con perizia da Christoph Theobald, è diventata ormai una questione dirimente in antropologia. Solo a partire da questa presa d’atto è possibile designare un paradigma dell’ospitalità dell’esistenza, in cui la tecnica sia al servizio dell’umano e non viceversa.

I limiti della globalizzazione e il rischio della manipolazione nell’interpretazione del reale per fini meramente mercantili, che svuotano di senso i vissuti, richiedono di passare – è stato detto – da un approccio prometeico alla realtà a un approccioepimeteico, ovvero all’affinamento della capacità di accettare il limite umano secondo l’ottica della cura (Marianna Gensabella Furnari), escludendo categoricamente altri fini. Solo in questo modo, nel riconoscimento del suo limite, l’umano può aprirsi generativamente all’oltre e trovare un nuovo baricentro nella relazione con sé, con l’altro e con il mondo.

Il recupero della profondità della storia

La teologia si trova così di fronte alla sfida decisiva di tematizzare nella post-modernità l’avvento di Dio nel concreto della storia e della corporeità. Questo accade all’interno di una molteplicità di tensioni a cui la condizione umana è ordinariamente sottoposta.

In questo orizzonte occorre rinvenire nell’amore agapico l’agente di ogni trascendenza possibile, il principio divino che umanizza la condizione terrena attraverso un agire responsivo e responsabile, mosso nell’intimo dalla grazia.

Si intravvede all’orizzonte un umanesimo ri-generato dalla fede in Dio Uno e Trino. Infatti, se l’economia e la tecnica talvolta permeate da un’intenzionalità eterodiretta secondo fini utilitaristici e di consumo, non fanno altro che imprigionare ogni autentica possibilità di trascendenza – che pure in potenza viene a darsi in quelnuovo che la tecnica stessa può positivamente portare –, è evidente che il congresso dell’ATI ha inteso unicamente aprire un cantiere per il sapere teologico, invitando a percorrere sentieri dialogici promettenti, a favore di un vero sviluppo umano integrale.

Il confronto decisivo appare, quindi, collocarsi decisamente sul versante “ontologico”, su quell’orizzonte comune che permetta alle scienze e al sapere filosofico e teologico di interagire proficuamente. Non è forse questa l’esigenza implicitamente espressa nel disagio avvertito in queste occasioni di confronto con la molteplicità del reale, contro ogni dispersione, e con la sua unitarietà, contro ogni uniformità livellante? Come altro si potrebbe, infatti, salvaguardare la profondità e lo spessore del reale?

Presso l’antico e sempre nuovo cantiere della fede (cf. Mt 13,52), la teologia ha molto da offrire a partire dal nucleo trinitario della Rivelazione cristologica in cui – come già osservava Joseph Ratzinger nel suo programmatico Introduzione al cristianesimo – è custodita una vera rivoluzione della visione del quadro del mondo.

In questo modo si manifesta con maggiore vigore quell’eccedenza di senso che si dischiude nella relazione tra l’uomo, la donna e il mondo in Dio; eccedenza che si offre in quello scarto incolmabile che nel tempo conduce l’uomo a confrontarsi con la sua storia e a prendere coscienza di una eccezionalità che non sta tanto in un dato, quanto in un compito che lo interpella con la qualitativa evidenza dell’ulteriorità a cui rimanda.

Don Asdrubale e l’ambone

Ambone: luogo dei grandi annunci

Don Asdrubale prepara con cura la sua omelia domenicale. Sente tutta la responsabilità di quell’interevento tutto suo. Conosce bene la sacra Scrittura e la sa divulgare con facondia. I suoi giovani prendono appunti mentre lui parla e c’è anche chi entra solo per la sua omelia e poi esce. È diventata così importante che tutto il resto, per don Asdrubale, ha meno importanza: le parti eucologiche le legge velocemente, cerca di guadagnare più tempo per il suo spazio privilegiato.

L’ambone sta stretto a don Asdrubale: gli pare di essere ingessato, lì fermo a parlare. Preferisce passeggiare lungo la navata, richiamare l’attenzione con qualche battuta o anche mettersi al centro del presbiterio, ben visibile alla sua “ciurma di ragazzi scalmanati”, come li chiama lui. Non si accorge che, lentamente, sta trasformando un momento liturgico nel suo show personale.

L’ambone, il luogo dal quale si proclama la parola di Dio, non è semplicemente un leggio. Questa parola viene dal verbo greco anabaino, che vuol dire salire, andare su. L’ambone mantiene questa elevazione che nasce per permettere che la voce dall’alto scenda sull’assemblea. Ma anche per dichiarare che questa Parola discende dall’alto, come annunciato dal passo di Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuota, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).

Dovrebbe richiamare in qualche modo l’altare al quale è collegato: la Parola permette di riconoscere poi nel Pane il dono della Pasqua.

Esso misticamente richiama la pietra rovesciata dal sepolcro dalla quale l’angelo (il diacono che legge in Vangelo) annuncia che Cristo è risorto: è il simbolo della tomba vuota dalla quale esce l’annuncio della risurrezione. Infatti, tutto il Vangelo, in ogni sua pagina, è illuminato dalla luce della Pasqua: dovremmo vedere che lassù splende la luce di Pasqua.

Noi siamo trasportati simbolicamente in quel giardino. Siamo come Maria Maddalena che incontra il Signore risorto e lo riconosce quando lui la chiama per nome. Siamo convocati attorno a quella tomba vuota per sentirci chiamare dal Risorto e restituire alla vita dalla forza della sua Pasqua. Per questo l’ambone va decorato con i fiori, per ricreare il giardino di Pasqua, e va illuminato con le luci del candelabro o delle candele, per annunciare la luce della risurrezione che squarcia tutte le tenebre del peccato e della morte.

Proprio per questa grande dignità dell’ambone, da esso si proclama solo la parola di Dio, si tiene l’omelia e si possono proporre le intenzione delle preghiere dei fedeli.

Se don Asdrubale parla dall’ambone, lo fa perché è dalla tomba vuota che parte l’annuncio della salvezza. La sua omelia sarà tanto più efficace quanto più le sue parole sapranno riflettere quelle del Signore; tanto più vera quanto più egli saprà scomparire sotto la luce del Risorto, perché ognuno pensi, cerchi, ami solo il Signore Gesù Cristo, non la sapienza o la cultura di questo bravo sacerdote.

La beata Elisabetta della Trinità diceva: «Voglio che, vedendomi, si pensi a Dio». Questo deve essere l’unico desiderio di ogni cristiano, laico o presbitero: che, vedendoci o ascoltandoci, le persone abbiano nostalgia di Dio.

In effetti, quante omelie ci ricordiamo veramente? Quello che rimane dopo una celebrazione è l’incontro con il Signore, più di tutte le parole umane che vengono dette.

L’ambone è l’icona stabile della risurrezione: annuncia con la sola sua presenza che il Risorto ha l’ultima parola, che la morte non è la fine, ma il confine che apre sull’oltre. Più di tante parole, dall’ambone deve risuonare il Verbo. Da esso si canta il salmo responsoriale e anche il preconio pasquale o l’annuncio di Pasqua nel giorno dell’Epifania.

Ma tutto il resto, animazione dei canti, lettura delle monizioni prima delle letture, avvisi parrocchiali e altro, va fatto da un altro luogo.

settimananews

Palermo, ventisei anni fa il delitto di don Puglisi. Un amico rivela: “I boss sbagliavano numero, mi dicevano: parrino ti dobbiamo ammazzare”

repubblica.it

Ventisei anni fa i boss uccisero don Pino Puglisi, il parroco che voleva cambiare Brancaccio, la periferia di Palermo. Killer e mandanti sono stati condannati, ma resta un mistero: quale fu la causa scatenante del delitto? Il sacerdote proclamato beato operava nel quartiere già da due anni. Poi, all’improvviso, iniziarono le minacce. Pippo De Pasquale, grande amico di don Pino, aggiunge un tassello importante alla ricostruzione.  I boss volevano fermare a tutti i costi il parroco di San Gaetano. Qualche mese prima del delitto telefonavano per minacciarlo

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Avvenire

(Lucia Capuzzi) Direttrice per decenni della sezione internazionale della Fondazione Leslie e Lelio Basso. Difensore dei diritti umani in America Latina, la città le dedica una biblioteca del il campus Avaré. “Mi piace stare con loro, perché guardano al domani”. Così diceva, già anziana, Linda Bimbi dei giovani. Il futuro, ammetteva, era la sua passione. “M’innamora anche a questa età. Penso sempre al dopo”. Alla costruzione di un domani di pace per le nuove generazioni, la storica attivista ed educatrice ha dedicato l’esistenza, terminata a 91 anni, l’11 agosto 2016, nella casa romana che condivideva con altre laiche impegnate nella difesa dei diritti.