Lo sbarco dell’uomo sulla Luna e Paolo VI … ricordi di mezzo secolo fa

(a cura Redazione “Il sismografo”)

Paolo VI: “Chi è questo essere capace di tanto? così piccolo, così fragile, così simile all’animale, che non cambia e non supera da sé i confini dei propri istinti naturali, e così superiore, così padrone delle cose, così vittorioso sul tempo e sullo spazio? chi siamo noi?”***(RC) E’ ben noto a diverse generazioni che l’uomo, in concreto gli statunitensi nelle persone di tre astronauti – Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins – sono stati i primi essere umani ad arrivare sulla Luna a bordo della navicella Apollo 11. Uno,Michael Collins, restò in orbita a pochi chilometri di altezza attorno al satellite. Gli altri due, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, ebbero invece lo straordinario privilegio di poter scendere sulla superficie lunare, camminare e saltare sul suo suolo, scattare fotografie, prelevare materiale e poi rientrare alla navicella base per il viaggio di ritorno sulla Terra. Tutto ciò, come già ricordano in molti in questi giorni, accadde 50 anni fa.
Negli Stati Uniti erano le 22.56 minuti 15 secondi del 20 luglio 1969 e in Italia le 04.56 minuti 15 secondi del 21 luglio.
Neil Armstrong e Buzz Aldrin lasciarono sulla superficie lunare, ben custodita e sigillata, insieme ad altri messaggi, quello che a loro affidò Papa Paolo VI: una lamina d’oro sulla quale era inciso il Salmo 8.
“Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi (5-7).” 

Paolo VI era molto incuriosito – attratto e affascinato – dall’avventura spaziale umana, in particolare dalla possibilità di esplorare altri corpi celesti. Ne parlò spesso con molte persone in privato e con  alcuni gesuiti della Specola Vaticana di Castel Gandolfo.
Tre giorni prima della partenza degli astronauti USA, il 16 luglio 1969, dalla base di lancio di Cape Canaveral, in Florida, con il razzo Saturno V, alto 110 metri e pesante oltre 2.000 tonnellate (Rampa 39A del Kennedy Space Center), nel corso dell’Angelus della domenica 13 luglio, Paolo VI pronunciò quest’allocuzione:
“Un pensiero è nella mente di tutti per questa settimana: la spedizione degli astronauti americani alla luna. Ed è tale pensiero che va al di là degli elementi descrittivi di questo fatto singolarissimo e meraviglioso.
La scienza e la tecnica vi si manifestano in un modo così incomparabile, così complesso, così audace da segnare il vertice delle loro conquiste e da lasciarne presagire altre, di cui perfino l’immaginazione non riesce ora a sognare. E ciò che stupisce di più è vedere che non si tratta di sogni. La fantascienza diventa realtà. Se poi si considera l’organizzazione di cervelli, di attività, di strumenti, di mezzi economici, con tutti gli studi, gli esperimenti, i tentativi, che l’impresa richiede, l’ammirazione diventa riflessione; e la riflessione si curva su l’uomo, sul mondo, sulla civiltà, da cui scaturiscono novità di tale sapienza e di tale potenza, Sì, sull’uomo, specialmente: chi è questo essere capace di tanto? così piccolo, così fragile, così simile all’animale, che non cambia e non supera da sé i confini dei propri istinti naturali, e così superiore, così padrone delle cose, così vittorioso sul tempo e sullo spazio? chi siamo noi?
Vengono alla mente le parole della sacra Scrittura: «Ora io contemplo i tuoi cieli, (o Signore,) opera delle Tue mani, la luna e le stelle, che Tu vi hai collocato. Che cosa è l’uomo che Tu ti ricordi di lui? . . . lo hai fatto di poco inferiore agli Angeli, lo hai coronato di gloria e di onore; e lo hai costituito sopra le opere delle Tue mani. Hai posto tutte le cose sotto i suoi piedi» (Ps. 8, 4-8; Hebr. 2, 6-8).
L’uomo, questa creatura di Dio, ancora più della luna misteriosa, al centro di questa impresa, ci si rivela. Ci si rivela gigante. Ci si rivela divino, non in sé, ma nel suo principio e nel suo destino. Onore all’uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito, alla sua vita.
Per lui, cioè per l’umanità. E per i pensatori e gli eroi della favolosa impresa, oggi preghiamo.”

Dorothy Day e Thomas Merton. Due persone due sogni

L’Osservatore Romano

(Caterina Ciriello) Da diverso tempo si scrive con più interesse di Dorothy Day, fondatrice insieme a Peter Maurin del Catholic Worker e autentica testimone del pacifismo e della non-violenza. Profetessa criticata anche all’interno della stessa chiesa cattolica americana, con il suo pensiero — che molto ha del personalismo maritainiano — e con la sua testimonianza, ispira numerosi altri intellettuali tra i quali Thomas Merton, del quale lo scorso anno si sono celebrati i cinquant’anni della morte. Di lui — per il suo passato inquieto, girovago e senza radici — padre Simeon Leiva ha detto che è «rappresentativo dell’uomo del ventesimo secolo».
Come scrive Robert Ellsberg nella prefazione di una delle lettere della Day a Merton, quest’ultimo, prima di entrare in monastero, aveva lavorato con Catherine de Hueck, una carissima amica di Dorothy, alla Friendship House di Harlem.
Thomas Merton e Dorothy Day si assomigliano molto nel percorso umano-spirituale. Merton rimase presto orfano della madre e poi del padre quando aveva solo sedici anni. Figlio di artisti, aveva un’anima estremamente sensibile, che volle coltivare con gli studi umanistici. Dopo una lunga e inquieta ricerca del trascendente, nel 1938 riceve il battesimo nella Chiesa cattolica: a quell’epoca era già nato il Catholic Worker, e Dorothy Day da dodici anni si era convertita al cattolicesimo dopo una lunga e faticosa lotta con se stessa e con Dio, convincendosi finalmente che solo la fede e la carità l’avrebbero aiutata a comprendere e attuare i piani di Dio per l’umanità. Anche lei a sedici anni aveva lasciato la sua casa, gli affetti, per vivere nei bassifondi di New York ed essere con gli operai, i dimenticati della società e le vittime dell’avidità umana.
Considerando le opere e gli scritti della Day viene da pensare che sia nata troppo presto, e di Merton che sia morto troppo presto. E indubbiamente i piani di Dio sono imperscrutabili e sorprendenti perché ambedue hanno lasciato un segno indelebile nella società e nella cultura del loro tempo, una magnifica eredità, oggi più apprezzata che mai: essi sono rivisitati e contemplati come persone ispirate dallo Spirito, autentici profeti che hanno lavorato instancabilmente per una società più giusta e un mondo in pace.
La pace è un grande dono dello Spirito: ma come fare perché essa tocchi il cuore di tutti e specialmente di coloro che hanno nelle loro mani le sorti del mondo? Questa è la domanda costante. E la Provvidenza ci ha regalato due esempi da imitare.
Quando negli anni Sessanta Dorothy Day e Thomas Merton si confrontavano, condividevano idee e riflessioni sul tema della pace e della non-violenza, si era sull’orlo di una crisi nucleare che avrebbe disintegrato il nostro pianeta. Nel febbraio del 1960 la Day scriveva sul «Catholic Worker»: «Nessuno è sicuro. Non siamo più protetti dagli oceani che ci separano dal resto del mondo in guerra. Ieri i russi hanno lanciato un razzo 7,760 miglia nel Pacifico centrale, che è caduto a meno di un miglio e mezzo dal bersaglio calcolato. Il dipartimento di difesa degli Stati Uniti ha confermato la precisione del tiro». 
Nel 1962 la crisi dei missili russi a Cuba turba e indigna Merton e Dorothy Day che proprio a settembre aveva visitato Cuba, definendola «un campo armato». Dall’ottobre del 1961 e fino al successivo ottobre 1962 Merton scrive le Cold War Letters, tre lettere indirizzate ad amici, artisti ed attivisti — alcune anche alla Day — nelle quali parla di guerra e pace, per cercare di fomentare una reazione spirituale e contrastare la “bomba”. È in questo momento che crea un forte legame con Dorothy Day e il Catholic Worker per rompere il silenzio della Chiesa cattolica americana sull’incombente olocausto nucleare. Nel giugno del 1960 alla Day, che gli chiedeva di pregare per la sua perseveranza, rispondeva: «Sei la donna spiritualmente più ricca di America e non puoi fallire anche se ci provi»; poi continua amareggiato: «Perché questo profondo silenzio ed apatia da parte dei cattolici, clero, laici, gerarchia, su questo terribile problema da cui dipende l’esistenza della razza umana?».
Quanto è cambiato da allora? Non c’è più la guerra fredda (almeno apparentemente), ma gli equilibri internazionali sono assolutamente delicati al punto che qualunque commento, qualsiasi gesto inappropriato potrebbe scatenare una catastrofe. Non si tratta di visioni apocalittiche bensì della cruda realtà dei fatti, di cui forse troppo pochi si interessano praticando quello che Papa Francesco chiama tristemente «cristianesimo di facciata». 
Esso purtroppo non è cosa d’oggi. In un suo articolo del 1960 su Pasternak — per il quale la Day diceva di non aver dormito la notte — Merton annotava: «Per venti secoli ci siamo chiamati cristiani, senza nemmeno cominciare a capire un decimo del Vangelo. Abbiamo preso Cesare per Dio e Dio per Cesare. Ora che “la carità si raffredda” e ci troviamo di fronte all’alba fumosa di un’era apocalittica, Pasternak ci ricorda che c’è solo una fonte di verità, ma che non è sufficiente sapere che la fonte è lì — dobbiamo andare a bere da essa, come lui ha fatto».
La consapevolezza di dover vivere la “radicalità” evangelica e mostrare al mondo l’amoralità di certe scelte diviene uno dei punti chiave del trascorrere quotidiano di Thomas e Dorothy. In particolare Merton cercava incessantemente di creare un circolo di interesse che avrebbe dovuto realizzare una sorta di “contrappeso morale” alle forze della paura e della distruzione. Dorothy gli comunicava: «I tuoi scritti hanno raggiunto molte, molte persone, portandoli sul loro cammino, stanne certo. È il lavoro che Dio vuole da te, non importa quanto tu voglia scappare da ciò». Costantemente vicini nella preghiera («Abbiamo una bacheca con i nomi di coloro che chiedono preghiere. Il tuo è lì», scrive Dorothy), li unisce un altro grande ideale, il “dovere” di amare il prossimo. Dorothy è “affascinata” dalle lettere di Merton perché sono così ricche che portano alla conoscenza e all’amore per Dio. Però non si può amare Dio senza amare prima il prossimo, e ambedue lo sanno. Nel dicembre del 1961 Merton scriveva alla Day: «Le persone non sono conosciute solo dall’intelletto o dai princìpi, ma solo dall’amore. È quando amiamo l’altro, il nemico, che Dio ci dà la chiave per capire chi è. È solo questa consapevolezza che ci apre alla reale natura del nostro dovere e del giusto operare».
Chi conosce Dorothy Day e Thomas Merton saprà che il loro desiderio di un mondo più giusto e pieno di amore era scambiato per puro comunismo. Una lettera della Day, scritta nel dicembre 1963 a un giovane ammiratore, rivela questo particolare. Con una punta di sarcasmo ella scrive: «Miracolo dei miracoli, il nostro unico giornale diocesano, molto conservatore, ma oggi con un editore nuovo, la scorsa settimana in un articolo di due colonne ha detto che Thomas Merton ed io abbiamo trovato la giusta via per combattere il comunismo, ed in più in accordo con i principi cristiani e che c’era da dubitare che ci fosse un’altra via per un cristiano. Non potevo credere ai miei occhi. Dio è buono e innalza i difensori».
Papa Francesco nel 2015 in un viaggio negli Usa ha ricordato quattro grandi figure che hanno fatto l’America: «Quattro individui e quattro sogni (…) Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio». In un mondo, oggi, pieno di odio e violenza gratuita, senza alcun rispetto per la vita e i diritti delle persone, non possiamo che fare tesoro di quanto Merton e la Day hanno fatto e detto. E concludo con una frase di Merton che dovrebbe aiutarci a riflettere su ciò che siamo e sulla possibilità che abbiamo di compiere il bene: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri».L’Osservatore Romano, 9-10 luglio 2019.

Gerusalemme incrocio di destini e crocevia di fedi e culture. Tra luce e buio

L’Osservatore Romano 

(Bruno Forte) Gerusalemme, per chi come me l’ha visitata tantissime volte, appare sempre la stessa, bella e regale: come dice il testo della canzone “Gerusalemme d’oro” (Yerushalayim shel zahav), scritta e musicata da Naomi Shemer, «nel sonno lieve di alberi e pietre, prigioniera del suo sogno, la città sorge solitaria con, nel suo cuore, un muro… Gerusalemme d’oro, di bronzo e di luce… il tuo nome mi brucerebbe le labbra come il bacio di un serafino se mi dimenticassi di te, Gerusalemme tutta d’oro…». 
Eppure, ogni volta che sali a Gerusalemme unica e nuova è l’impressione che suscita la Città santa, con le sue case e gli edifici rivestiti di pietra, col suo cielo terso e purissimo, con la luce dorata che avvolge ogni cosa, riflessa dalle rocce dei monti della Giudea. Costante resta la percezione di trovarsi in un luogo unico al mondo, perché in nessun altro posto dolore e amore, sofferenza e attesa, si mescolano come qui, nella città dei patriarchi e dei profeti, del Calvario e dell’Anàstasis, della croce e della risurrezione, “ombelico del mondo”. Lo afferma il detto rabbinico: «Quando Dio creò il mondo, di dieci misure di bellezza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di sapienza, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo. Di dieci misure di dolore, nove le diede a Gerusalemme e una al resto del mondo». Lo evocano i versi di Paul Celan, il poeta ebreo autore tra l’altro di una raccolta intitolata Ciclo di Gerusalemme: «Sii come Tu sei, sempre / Alzati, Gerusalemme, ora / sollevati / anche chi ruppe il vincolo verso di te, / ora sarà / illuminato / se bocconi di fango ha ingoiato … / sorgi / illuminalo». La luce e il buio coabitano nella Città santa, come il fango e lo splendore che sorge a rischiarare ogni cosa, e il loro incontro è sempre attuale. Lo conferma un narratore-poeta, Erri De Luca, nel suo singolare Omaggio a Gerusalemme: «C’e una città del mondo in cui prima di uscire di casa fai testamento, / perché le fermate degli autobus, specialmente quelle affollate, sono bersagli per automobili apposta lanciate addosso. / C’è una città del mondo in cui quando sali su un autobus o entri in un bar, puoi esplodere accanto a un passeggero imbottito di morte. / C’è una città del mondo in cui i coltelli in mano a ragazzi di quartieri di periferia servono a pugnalare cittadini a caso. / Questa è la città dichiarata ombelico del mondo. / Questa città a forma di vulcano, sputa sangue, collera, paura. / Le sue pietre sono bianche, le sue vie rischiose, la mano armata attacca il suo cielo». 
Incrocio di destini, crocevia di lingue, di fedi e di culture, Gerusalemme è però, nonostante tutto, la “città della pace”, dove il conflitto è sempre presente e non di meno lo sono il desiderio e la ricerca della pace, in quanto chiunque può riconoscervi il laboratorio universale dell’umanità nuova, dove tutti siamo nati e dove tutti rinasceremo nella valle di Giòsafat: «Si dirà di Sion: L’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: Là costui è nato. E danzando canteranno: Sono in te tutte le mie sorgenti» (Salmo 87, 5-7). Perciò la città futura non potrà brillare d’altra luce che di quella di Gerusalemme: «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Apocalisse, 21, 1-2). Questa futura città della pace non sarà frutto delle nostre mani: verrà dall’alto, dono da invocare e a cui aprirsi. «L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (v. 10). Perciò da Gerusalemme si leva ogni giorno al cielo la preghiera per la pace, appello al cuore divino, ma anche alla coscienza di tutti, nessuno escluso. Quale via indicare per rispondere a quest’appello? Frédéric Manns, biblista di fama mondiale, che vive e insegna a Gerusalemme da quasi quarant’anni, afferma: «La riconciliazione sarà possibile solo se ognuno perdonerà le offese ricevute e abbandonerà la pretesa di essere l’unico che ami Gerusalemme. Questo è il prezzo da pagare per la pace. Non si tratta di elaborare nuove ideologie, ma di accogliere Dio che bussa alla porta. Il Dio dell’Alleanza ha sempre chiesto a Israele di rispettare lo straniero che vive nel suo seno. Fin quando non ci sarà pace nelle religioni non ci sarà pace a Gerusalemme».
Tre condizioni risultano da questo programma che un incontro con Gerusalemme ti impone di accogliere: l’umiltà di non voler essere soli a costruire la pace, di aver anzi bisogno assoluto dell’altro, fosse pure avversario o nemico; il perdono da chiedere e offrire da parte di tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo colpevoli del conflitto, dovunque esso regni, e tutti responsabili verso la pace, dovunque si voglia tesserne il patto; il compito delle religioni, che lungi dall’essere strumento alienante o fonte di scontro, come troppo spesso sono diventate nell’uso dei potenti di turno, sono chiamate a essere fonte ispiratrice della pace che l’unico Dio, Signore del cielo e della terra, vuole per tutti i suoi figli. Il dialogo portato avanti con umiltà, la disponibilità a chiedere e offrire riconciliazione, la preghiera all’Eterno, Re della pace, e il quotidiano impegno a tessere dovunque legami di accoglienza, di rispetto e di fraternità e a vivere il servizio al bene comune, più grande e necessario di ogni interesse egoistico, sono i passi da compiere per essere costruttori di pace. Salutando Gerusalemme dal monte del pianto, il monte dell’addio da cui per l’ultima volta coloro che partono verso Occidente vedono le forme incantate della Città santa, stracciandosi le vesti e piangendo, è questo l’impegno che i pellegrini portano a casa e nel cuore. Perché non immaginare allora un universale pellegrinaggio dei popoli, che porti al monte di Sion l’umanità intera e la impegni in quel lembo sacro di terra, segnato dalla spianata del Tempio, dal Calvario e dalle Moschee, a divenire nel quotidiano di ciascuno operatrice di pace? È il sogno dei cantori e dei profeti in quelle composizioni di fede e di poesia che descrivono il pellegrinaggio di tutti popoli, nessuno escluso, alle sorgenti poste dall’Eterno in Sion, come i Salmi delle ascensioni (quindici Salmi, dal 120 al 134, ognuno indicato come Shir hamma’alot, “Cantico delle ascensioni”). È il solo cammino che potrà dare al mondo un nuovo futuro, l’avvenire della pace promessa e desiderata nella giustizia e nella verità, di cui tutti abbiamo immenso bisogno e per cui tutti dobbiamo pregare, come ci invita a fare un altro, significativo canto dedicato a Gerusalemme, ispirato al Salmo 122 (v. 6: «Chiedete pace per Gerusalemme»): «Shaalu Shalom Yerushalayim, … Shalom, Shalom… Shaalu Shalom Yerushalayim! Prega per la pace di Gerusalemme… Gerusalemme in pace vivrà!».
L’Osservatore Romano, 11-12 luglio 2019

Vaticano Caso Orlandi, aperte le tombe nel Cimitero Teutonico: nessun resto umano

Vatican Insider

(Salvatore Cernuzio) Avviate stamane le operazioni per l’apertura dei sepolcri appartenenti a due principesse. Le ricerche concluse con esito negativo. La delusione del fratello Pietro: «Tutto mi aspettavo ma non delle tombe vuote». Manifestanti vicino a piazza San Pietro: «Giustizia per Emanuela».  Poteva trattarsi di una svolta di uno dei più cupi misteri d’Italia, ma alla fine si è rivelato l’ennesimo tentativo fallito che ha provocato ancora più dolore in una famiglia che da 36 anni attende il ritorno a casa della propria figlia e sorella. Hanno dato esito negativo le operazioni per l’apertura delle tombe nel Cimitero Teutonico per scoprire se lì dentro riposassero veramente i resti di Emanuela Orlandi, la quindicenne figlia di un dipendente vaticano scomparsa il 22 giugno 1983 e mai più ritrovata.

Vaticano Le due tombe del Cimitero Teutonico aperte oggi sono vuote. Non sono stati rinvenuti resti umani

Sala stampa della Santa Sede 

Comunicazione ai giornalisti del Direttore “ad interim” della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti:
Si sono concluse alle ore 11.15 le operazioni al Campo Santo Teutonico nell’ambito delle incombenze istruttorie del caso Orlandi. Le ricerche hanno dato esito negativo: non è stato trovato alcun reperto umano né urne funerarie. L’accurata ispezione sulla tomba della Principessa Sophie von Hohenlohe ha riportato alla luce un ampio vano sotterraneo di circa 4 metri per 3,70, completamente vuoto. Successivamente si sono svolte le operazioni di apertura della seconda tomba-sarcofago, quella della Principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo. Al suo interno non sono stati rinvenuti resti umani. I familiari delle due Principesse sono stati informati dell’esito delle ricerche.
Agli accertamenti hanno collaborato il personale della Fabbrica di San Pietro, il professor Giovanni Arcudi, coadiuvato dal suo staff, alla presenza di un perito di fiducia nominato dal legale della famiglia di Emanuela Orlandi. Erano presenti l’avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, e il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. Hanno seguito tutte le fasi dell’operazione il Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Gian Piero Milano, e il suo Aggiunto Alessandro Diddi, insieme il Comandante del Corpo della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani.
Per un ulteriore approfondimento, sono in corso verifiche documentali riguardanti gli interventi strutturali avvenuti nell’area del Campo Santo Teutonico, in una prima fase alla fine dell’Ottocento, e in una seconda più recente fase tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Al termine delle operazioni, teniamo a ribadire che la Santa Sede ha sempre mostrato attenzione e vicinanza alla sofferenza della Famiglia Orlandi e in particolare alla mamma di Emanuela. Attenzione dimostrata anche in questa occasione nell’accogliere la richiesta specifica della famiglia di fare verifiche nel Campo Santo Teutonico.

AGCOM DENUNCIA, SUL WEB VUOTI NORMATIVI E POSIZIONI DOMINANTI

ANSA

CARDANI: ‘LA GARA PER IL 5G UN SUCCESSO, SERVE RIGORE REGOLE’ Sette anni di declino per alcuni settori, quelli passati da Angelo Cardani alla guida dell’Agcom, come sottolineato nella sua ultima Relazione annuale al Parlamento. Un periodo nel quale le tlc hanno perso un quarto dei ricavi, mentre è cresciuto il peso di Internet, anche se in un contesto non privo di criticità, tra carenze normative e rischio di posizioni dominanti. La gara per l’assegnazione delle bande pioniere per il 5G, secondo Cardani, ‘ha costituito un caso di successo unico in Europa, ma serve il rigore delle regole’. (ANSA).

MUORE IN FRANCIA LAMBERT, SIMBOLO DELLA LOTTA SUL FINE VITA

 ANSA

I GENITORI, ‘UN CRIMINE DI STATO’. IL PAPA, ‘OGNI VITA VALE’ E’ morto Vincent Lambert, l’uomo tetraplegico da 11 anni, simbolo in Francia della lotta per il fine vita. Ne ha dato notizia la famiglia. I medici gli avevano sospeso cure e alimentazione da mercoledì scorso. I genitori dell’uomo avevano condotto una strenua battaglia legale per impedire che al figlio fossero interrotte cure e alimentazione. ‘E’ un crimine di Stato’, dicono ora. ‘Ogni vita ha valore, sempre’, dice Papa Francesco sulla morte di Lambert in un tweet. 

NUOVO COLPO DI SCENA SULLA ORLANDI, LE DUE TOMBE SONO VUOTE

ANSA

IL FRATELLO PIETRO NON MOLLA: ‘CONTINUO A CERCARE LA VERITÀ’ Sono state trovate vuote le due tombe del Cimitero Teutonico aperte stamattina in Vaticano. ‘Le ricerche hanno dato esito negativo: non è stato trovato alcun reperto umano né urne funerarie’, riferisce la Sala stampa vaticana, che conferma l’annuncio di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Che però non demorde: finché non trovo Emanuela cercherò la verità.