Anniversario / 11 LUGLIO 1989 – 11 LUGLIO 2019 MONS. GIBERTINI ERA NOMINATO VESCOVO DI REGGIO EMILIA-GUASTALLA

Il vescovo emerito Giovanni Paolo Gibertini ha ricordato oggi – 11 luglio – due importanti anniversari: il trentesimo della sua elezione a vescovo di Reggio Emilia-Guastalla e gli ottant’anni di professione religiosa nell’Ordine Benedettino.

Venne infatti chiamato da papa Giovanni Paolo II l’11 luglio 1989 – festa di San Benedetto Abate – a succedere a mons. Gilberto Baroni.

Nato a Ciano d’Enza (Re) il 4 maggio 1922 e battezzato con il nome di Giovanni, mons. Gibertini ha intrapreso nel 1938 il noviziato nei Benedettini assumendo il nome di Paolo; nel 1939 ha emesso la professione religiosa. E’ stato ordinato sacerdote il 12 agosto 1945 nell’abbazia benedettina di Torrechiara. La Sardegna per un trentennio è stata il campo d’azione pastorale di mons. Gibertini

Nel 1979 veniva eletto Abate del Monastero benedettino di Parma, alla cui guida è rimasto fino al 25 marzo 1983, quando da Giovanni Paolo II è stato chiamato a guidare la diocesi di Ales-Terralba; ha ricevuto la consacrazione episcopale il 25 aprile nella basilica di San Giovanni in Parma. Il 24 settembre 1989 ha fatto il suo ingresso nella diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, che ha guidato sino al 1998.

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Delegazione dell’Onu in visita per tre giorni nel paese. Missione in Colombia per sostenere l’accordo di pace

L’Osservatore Romano

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite visiterà la Colombia dall’11 al 14 luglio in risposta a un invito fatto ad aprile dal ministro degli esteri, Carlos Holmes Trujillo. Trujillo ieri, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato che la visita al paese da parte dei membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è un’opportunità per loro di conoscere sul campo i progressi fatti e dare un sostegno esplicito allo storico accordo di pace del novembre 2016 tra governo e Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc).

Eventi Appennino reggiano, va in scena il teatro popolare

Al via la XLI Rassegna Nazionale di Teatro Popolare

Il Resto del Carlino

Reggio Emilia, 10 luglio 2019 – Per gli appassionati di tradizioni popolari sta per partire la nuova stagione estiva del teatro del maggio, ben radicato nell’Appennino reggiano, con la “XLI Rassegna Nazionale di Teatro Popolare”, che si dipanerà da luglio a fine agosto, all’aperto, nei Comuni di Villa Minozzo, Ventasso e anche in Lunigiana.

Domenica 4 agosto, alle 15, in Val d’Asta (Villa), sarà poi la volta del “Maggio epico”, messo in scena dalla “Compagnia Maggistica Monte Cusna” (info: 333 6435607).

Domenica 11 agosto, alle 15, Morsiano (Villa) sarà il palcoscenico per “Valentino di Castiglio” di Davide Borghi, con la “Compagnia Maggistica Val Dolo” (info: 329 3033310).

Giovedì 15 agosto, a Costabona (Villa), doppio appuntamento con la tradizione del maggio: alle 11 la “Messa del maggiarino” e alle 15,30 l’“Antigone” (info: 348 2885669).

Doppio appuntamento anche domenica 18 agosto: a Cervarolo (Villa), alle 15, la “Compagnia Maggistica Val Dolo” presenta “Il drappo reale” di Viviano Chiesi (info: 329 3033310); sempre alle 15, ma a Varlinao-Giuncugnano (LU), la “Compagnia Maggista Monte Cusna” ripropone il “Maggio epico” (info: 333 6435607).

La rassegna si concluderà domenica 25 agosto, alle 15, a Cervarolo (Villa), con un gran finale che vedrà la partecipazione di tutte le compagnie emiliane ancora attive, saranno presenti anche stand della Proloco (info: 329 3033310).

Il primo appuntamento è previsto per domenica 14 luglio, alle 15,30, alla Carbonaia di Costabona (Villa Minozzo), dove la “Società del Maggio Costabonese”, attiva ininterrottamente dal 1962, proporrà “Antigone” del maestro Romolo Fioroni, il quale ha dato un contributo fondamentale per la ripresa di questa attività dopo il periodo bellico (info: 348 2885669). La stessa rappresentazione sarà riproposta sabato 20 luglio, alle 15, a Cinquecerri (Ventasso).

“L’identità cristiana, in politica, è quella della compassione e dell’accoglienza”. Intervista a padre Francesco Occhetta

“L’identità cristiana, in politica, è quella della compassione e dell’accoglienza”. Intervista a padre Francesco Occhetta

’identità cristiana, in politica, nel tempo del sovranismo leghista. Ne parla sul suo blog confini.blog.rainews.it, il giornalista vaticanista Pierluigi Mele in una intervista con padre Francesco Occhetta, gesuita e Scrittore della prestigiosa rivista “Civiltà Cattolica”.

La riproduciamo qui di seguito

Padre Francesco, in questi ultimi mesi (quelli della campagna elettorale), hanno fatto discutere l’opinione pubblica alcuni gesti eclatanti di Matteo Salvini. Mi riferisco all’ostentazione del rosario in piazza duomo al termine del suo comizio elettorale. Per molti osservatori cattolici, ma anche laici, si è trattato di un gesto fuori Luogo e strumentale. Molto severo il giudizio del Cardinale Bassetti, presidente della CEI. Cosa c’è dietro quel gesto?

Si nasconde una strategia comunicativa che ha almeno tre obiettivi: rivestire il potere di sacro; utilizzare l’identità religiosa per escludere chi rimane fuori; far credere che basta il medium, l’oggetto, per testimoniarne con la vita il senso e il significato. Invece nel Vangelo il potere è servizio agli ultimi; il termine cattolico significa universale; la vita di fede si misura sulla coerenza tra le parole dette e la testimonianza vissuta. A riguardo è già stato detto tutto e comunque Salvini non ha vinto per questo.

Nel “Pantheon” della Lega ci sono “devozioni” e riti pagani sul Po (la cerimonia dell’ampolla con l’acqua del fiume), il giuramento di Pontida. Adesso ci sono aggiunti il Rosario e il Cuore immacolato di Maria. Un sincretismo blasfemo oserei dire. Padre Francesco a me sembra un “neo paganesimo”. Per lei?

Si tratta di un politeismo nato negli anni Novanta con Bossi che giustappone segni diversi con un significato univoco, simile a quello degli amuleti. I segni cristiani vengono utilizzati fra gli altri nella costruzione politica di un’identità religiosa etniconazionale, basata sulla contrapposizione tra un «noi» ideale (i padani prima, gli italiani oggi) e un «loro» da respingere (quelli «dal Po in giù» prima, gli immigrati oggi, gli europei domani ecc). È un modo di fare antico che io ho conosciuto in America Latina da molti predicatori protestanti di alcune correnti radicali.

Questa specie di “cattolicesimo identitario” (con forti venature reazionarie e xenofobe), che ha la benedizione dei circoli sovranisti europei, può costituire un pericolo per la missione della Chiesa?

Una preoccupazione, più che un pericolo. Quando si ha paura di costruire nuovi mondi – come per esempio l’Europa multiculturale – riaffiorano linguaggi identitari come quello di Trump negli Stati Uniti d’America, di Bolsonaro in Brasile, di Orban in Ungheria. L’alternativa è quella testimoniata da cattolici come De Gasperi e Moro, Dossetti e La Pira e molti altri che hanno costruito la democrazia compiendo una scelta diversa: quella dell’inclusione e della dignità, della solidarietà e, soprattutto, della laicità. Laicità che non è negazione né neutralità del proprio credo nello spazio pubblico, ma ascolto, condivisione, incontro e dialogo con le altre culture. Occorre scegliere tra inclusione ed esclusione; tra il nuovo mondo e il vecchio.

Veniamo al voto dei cattolici italiani. Recenti analisi sociopolitiche affermano che molti cattolici hanno votato Lega. Questo pone drammatici interrogativi. L’operato della Lega sul piano dell’accoglienza dei più poveri (dai migranti ai Rom) è quanto di più lontano ci sia dal Vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa. Come spiega questa dissociazione? C’è un criterio imprescindibile su cui valutare una Proposta politica?

Alcune ricerche dicono che su 100 cattolici praticanti, 16 hanno votato Lega, 13 Pd, 5 FI, 7 M5S mentre 52 non hanno votato. È anche questa enorme fascia di popolazione che occorre rimotivare a partecipare alla vita politica. La Lega non ha vinto solamente per il tema dell’accoglienza ma anche per temi lontani da Bruxelles, come la flat tax, il decreto sicurezza bis ecc. Anche la comunicazione politica, basata sul made in Italy e sui simboli identitari, ha mortificato il logos del discorso politico ed esaltato il pathos: le paure hanno prevalso sulle speranze, le credenze sulla realtà, le parole forti su quelle da condividere. L’area moderata italiana è orfana di una forza politica e popolare che invece esiste nel Parlamento europeo.

Il protagonismo del “laicato cattolico” non è molto esaltante. Le cause sono tante e non le affrontiamo. Resta sul tappeto la questione del “che fare?” Di fronte ad una società incattivita, come molti episodi delle nostre periferie stanno a dimostrare, in cui si enfatizza “il prima gli italiani”, c’è bisogno di una “contronarrazione” alternativa. L’unico che riesce a scalfire il muro dell’indifferenza è Papa Francesco. Ma quanto importa ai cattolici italiani la parola di Francesco?

La responsabilità del Papa e della Chiesa è essere voce della coscienza sociale che distingua il bene dal male e le scelte umane da quelle dis-umane. Saremo minoranza? Il lievito conta come la farina. Questo tipo di presenza è liberante, conta come si vive e non ciò che si dice ed include l’obiezione di coscienza quando il potere non è al servizio degli ultimi. Se i media e i social moltiplicano il “cattivismo”, l’alternativa non è il buonismo, ma la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12). È la parola di Dio a ispirare l’agire politico del credente impegnato in politica con pagine luminose, come il capitolo 10 del Vangelo di Luca, in cui un samaritano, mosso dalla compassione, si ferma a curare un giudeo ferito, sebbene la sua cultura lo consideri un nemico; o come il giudizio finale nel Vangelo di Matteo, dove risuonano le parole di Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Ultima domanda: per l’Europa è arrivato il tempo di rinnovarsi. Qual è il contributo che può portare la Chiesa cattolica al rinnovamento del sogno europeo?

Difesa e sicurezza, crescita e occupazione hanno bisogno di più sovranità europea e di meno sovranità nazionale. Nel mondo stanno sorgendo sfide così grandi che si vincono solo con un’Europa più forte. Non esistono soluzioni locali a problemi transnazionali in materia di lavoro, ambiente, immigrazione, rapporto uomo-macchina, big data e così via. Certo, il voto europeo, allontanandoci dall’Europa, determinerà per il Paese un isolamento politico. Il Paese è però pieno di risorse, competenze, creatività. Più di 800mila giovani hanno fatto l’Erasmus e l’Italia silenziosa è da sempre europea. Più che preoccuparsi di bloccare chi arriva, bisognerebbe avere a cuore gli italiani che emigrano, 128 mila nell’ultimo anno tra cui 24 mila minori.

La Chiesa è chiamata a formare persone che in tempo di crisi progettino il mondo che verrà attraverso il binomio cultura-spiritualità. Lo aveva fatto Benedetto attraverso la rete dei monasteri. Lo ha voluto Ignazio di Loyola, che alla Sorbona di Parigi riuscì a mettere insieme un gruppo di religiosi di Paesi in guerra tra loro. Continua a crederci il Papa, che all’Europa chiede di tenere a cuore la dignità di tutte le persone per non smarrire il senso che l’ha fondata.

La disobbedienza civile da Danilo Dolci a Carola Rackete. Editoriale di “Avvenire”

La disobbedienza civile da Danilo Dolci a Carola Rackete. Editoriale di “Avvenire”

Daniele NovaraCarola RacketeGiuseppe Conte e Danilo Dolci. Il primo, pedagogista, è autore dell’editoriale pubblicato ieri su Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. La seconda è la “capitana” che si è opposta al “capitano” rompendo il blocco, rischiando multe, processo e gogna mediatica. Il terzo è il presidente del Consiglio che – prendendo a testimone il quarto, sociologo, poeta, educatore e attivista nonviolento – considera il gesto di Carola Rackete un «ricatto politico» che nulla ha a che vedere con la disobbedienza civile alle leggi ingiuste promossa dal “Ghandi italiano”.

È stato proprio Conte, si legge su Avvenire, a tirare in ballo Danilo Dolci, davanti ai giornalisti, per smontare l’iniziativa della “capitana”. «Fa piacere che il premier conosca Danilo Dolci», scrive Novara ripercorrendo gli anni della loro frequentazione. «Fa meno piacere che tale memoria venga usata proprio al contrario di quello che era il sentire e l’agire di Dolci», il quale, al contrario, oggi «avrebbe certamente sostenuto l’impegno di Carola Rackete e ribadito come noi che quando la legge non rispetta la vita umana, la vita umana viene prima della legge. Tutte le forme di disobbedienza civile sono nonviolente, coraggiose, e comportano il violare pubblicamente e platealmente una legge» «per rendere evidente a tutti l’ingiustizia di quella norma e per mettere le coscienze di tutti di fronte alla necessità di prendere posizione, schierarsi».

Per tutta la vita Dolci ha lottato, sempre con il metodo ghandiano della nonviolenza, per il riscatto degli emarginati, degli sfruttati, dei disoccupati, dei contadini e dei pescatori. E per questo ha subito 24 denunce e numerosi processi. La disobbedienza civile, ricorda Avvenire, non è senza conseguenze. «Queste forme di protesta coraggiose, in genere, comportano sempre complicazioni penali», accompagnate da gogne mediatiche ben orchestrate: «I non violenti vengono sempre accusati di essere, in realtà, i più violenti di tutti, di usare metodi “ricattatori”, di non avere rispetto per l’autorità. Ma una legge che crea un’equivalenza tra soccorritori e criminali, come su queste colonne si è spiegato in più occasioni, è una legge ingiusta e va combattuta. E impone a ciascuno di noi di prendere una posizione».


* Danilo Dolci in una foto di MHM55, tratta da Wikimedia Commons

Alzarsi dal divano

Alzarsi dal divano

Newsletter n. 157 del 9 luglio 2019 

Care Amiche ed Amici,

la disfida che continua nel Mediterraneo tra Lampedusa, Roma, Malta e le capitali europee ci ripropone una grande verità che si è cercato in tutti i modi in questi anni di nasconderci e di farci dimenticare: la grandezza e la decisiva forza della politica nel determinare le nostre vite.

È un grande dramma quello che si sta consumando sulla pelle di fuggiaschi, profughi, naufraghi, ma questo dramma è politico. È molto importante riconoscere la politica dove c’è.  È politica il decreto-sicurezza di Salvini che viola la Costituzione, è politica Mattarella che lo firma, è politica Carola Rackete che entra nel porto di Lampedusa, è politica la Guardia di Finanza che fa ostruzione occupando pericolosamente la banchina, è politica che il parroco e gli abitanti dell’isola accolgano i migranti a braccia aperte, è politica gli insulti alla comandante arrestata, è politica che le ONG continuino a salvare naufraghi e a forzare i porti, è politica che i non salvati anneghino restando per sempre ignoti, è politica che continui il braccio di ferro tra terra e mare, che l’Europa si chiuda nella linea del rifiuto e l’Italia nella linea “della fermezza”, è politica, e cattiva politica, che nonostante tutto questo, il governo non cada in Parlamento, è politica che il papa e tutta la Chiesa celebri pregando l’anniversario della visita a Lampedusa, inaugurale del pontificato. Tutto questo è politica, la grandezza, la libertà, la dignità, la carità, la spietatezza, la forza decisiva della politica. Ed è del tutto evidente che in questa partita non sono in gioco solo centinaia di vite gettate nel mare, ma è in gioco il nostro onore, l’anima del nostro Paese e la sua fama nel mondo, è in gioco l’essere o non essere dell’Europa, è in gioco il principio di eguaglianza di tutti gli esseri umani, è in gioco il dilaniamento o l’unità dell’intera famiglia umana e, in ultima istanza, data la crescita esponenziale del fenomeno, sono in gioco la guerra e la pace, e lo stesso destino del mondo. I nostri figli!

E in tutto questo il popolo sovrano dov’è? Dove sono i cittadini che devono concorrere a determinare la politica nazionale? Sono sul divano spettatori di sterili logorree televisive, di tweet arroganti e invasivi, frastornati e impotenti; oppure, sedati dal virus del disprezzo della politica e delle sue “caste”, voltano la testa dall’altra parte aspettando, senza più neanche volerlo sapere, che le cose accadano. Gli sono caduti o gli sono stati tolti dalle mani gli strumenti con cui combattere, i partiti, gli unici che concorrono davvero, a norma di Costituzione a determinare le decisioni finali.

È stato un preciso disegno dei poteri vincitori della corsa agli armamenti e della guerra fredda combattuta sul filo del rasoio del terrore atomico, quello di spegnere la politica, estirparla fin dalle radici della coscienza comune, demolire tradizioni venerande, chiudere e distruggere partiti perché, alfine, globalizzato il mondo, dominasse incontrastato il danaro, col suo trono, la sua corte, le sue caste, i suoi araldi, i suoi sigilli: il Mercato.

Tutto questo ci suggerisce e ci ricorda la partita politica su cui si sta giocando il nostro futuro, nel Mediterraneo e non solo. Con un solo avviso: tornare alla politica, ricostituire i partiti, riprendersi il diritto e il dovere di decidere.

Sul sito pubblichiamo un’intervista di Luigi Ferrajoli che affronta le questioni sollevate dal conflitto intorno alla Sea Watch, e l’omelia del papa alla Messa per i migranti, nell’anniversario di Lampedusa, l’8 luglio.

Un cordiale saluto

 www.chiesadituttichiesadeipoveri.it

*Immagine di http://Clker-Free-Vector, tratta da Pixabay

Africa, area di libero scambio. Sfide e problemi secondo p. Albanese

Africa, area di libero scambio. Sfide e problemi secondo p. Albanese

CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. L’area di libero scambio più grande del mondo sta per prendere forma in Africa. Il 7 luglio hanno sottoscritto il Trattato “African Continental Free Trade Agreement” (in sigla AfCFTA) anche Nigeria e Benin. Sono ora 54 su 55 i Paesi che hanno deciso di farne parte. L’assente, il 55° Stato, è l’Eritrea, a causa del conflitto con l’Etiopia, ma non c’è da disperare: il processo di pace avviato tra i due Paesi potrebbe indurre anche Asmara a apporre la sua firma.

L’accordo per un mercato di libero scambio, osserva il missionario p. Giulio Albanese intervistato dalla Radio Vaticana l’8 luglio, è «un’iniziativa lodevole», ma bisogna attendere «la prova dei fatti risolve poco». «Non è il primo tentativo», ricorda il missionario, «prima c’era stato per esempio il Comesa» (il Mercato comune dell’Africa orientale e meridionale) ma si tratta certamente di un passo significativo». Rimangono però, osserva Albanese, dei «problemi strutturali» che devono affronare i Paesi del continente africano. Per sempio, «la questione della crescita del Pil, finora legata fondamentalmente al terziario e alla vendita – o forse sarebbe meglio dire svendita – di materie prime, risorse minerarie ed energetiche, in primis il petrolio», ma anche, seguita Albanese, «la questione del debito, che continua ad aumentare in tutto il continente, nonostante le iniziative di 15 anni fa di Fmi, Banca Mondiale, Banca Africana di Sviluppo lo abbiano non solo ridotto, ma addirittura cancellato in alcuni casi. Ultimamente sta risalendo, siamo intorno ai 700 miliardi di dollari per l’Africa subsahariana. È un fenomeno preoccupante perché di fatto il debito è stato finanziarizzato, questo significa che il pagamento degli interessi è legato alle speculazioni di borsa, un sistema che mette in grande difficoltà i Paesi africani».

Un terzo aspetto, aggiunge il missionario, «riguarda i grandi trattati internazionali come gli Epa (Economic Partnership Agreeement) che l’Europa ha imposto ai Paesi con cui in questi anni ha intrattenuto relazioni di cooperazione per lo sviluppo sono accordi che stanno penalizzando moltissimo i Paesi del Sud del mondo, in particolare quelli africani perché le loro economie non sono in grado di reggere la competizione con i Paesi industrializzati europei».

Il Trattato insomma è sì un passo importante, ma «dobbiamo tener conto – afferma p. Albanese – che in Africa il processo di industrializzazione lascia molto a desiderare. Mancano le infrastrutture e quel poco che è stato fatto recentemente è soprattutto opera dei cinesi. Le Afriche comunque continuano ad essere una grande e sconfinata terra di conquista e il cammino è ancora lungo».

E poi legato all’Africa e alle sue condizioni economiche c’è il fenomeno migratorio. Un fenomeno «inevitabile», scondo p. Albanese, ma non così allarmante e comunque governabile: «Il tema in Italia viene raccontato molto male. Guardando i dati oggi non dovremmo essere così allarmisti, il 75% della mobilità umana rimane all’interno del continente africano. Parliamo di circa 24 milioni di persone. C’è sicuramente un movimento che spinge verso settentrione. La riflessione però dovrebbe avvenire in chiave politica tenendo conto che l’Europa sta invecchiando e quindi necessita di nuove energie. D’altra parte è anche vero che la mobilità dalla sponda africana aumenterà a dismisura nei prossimi anni. Nel 2050 le previsioni delle Nazioni Unite dicono che la popolazione dell’Africa sarà intorno ai 2,4 miliardi, nel 2100 supererà i 4 miliardi. I fenomeni migratori sono inevitabili, proprio per questo bisognerebbe cercare di governarli in modo intelligente, nella logica e nell’interesse comune».

*Alba in Africa. Foto di Jon Sullivan, tratta di Pixnio

Giustizia sociale e giustizia climatica nel pensiero di Giorgio Nebbia. Il ricordo di “Missione Oggi”

Giustizia sociale e giustizia climatica nel pensiero di Giorgio Nebbia. Il ricordo di “Missione Oggi”

Giorgio Nebbia, chimico, docente, ricercatore, militante ambientalista, politico di sinistra, in diverse occasioni collaboratore di Adista, è morto il 4 luglio scorso.

Tra i tanti ricordi, anche quello di Missione Oggi, rivista dei padri saveriani sensibile ai temi ambientali. La penna è di Marino Ruzzenenti, saggista, storico, attento alla questione climatica, redattore del periodico missionario. Nebbia, ricorda il redattore, «ha rappresentato forse il punto di riferimento più saldo, illuminante», fin dal primo incontro, «cui seguì una relazione per me straordinariamente feconda, di cui gli sono immensamente grato». La riflessione storica è stato, dice Ruzzenenti, il terreno comune del loro incontro: Il «padre nobile del pensiero ecologico, mi sorprese subito per quella sua peculiare attenzione alla dimensione storica della scienza e della tecnica». Ben a riparo dalle tendenze di assolutizzazione, Nebbia insegnava che scienza e tecnica «sono parte integrante della cultura dei gruppi umani, e hanno assecondato ed accompagnato l’evolversi e le modificazioni del loro modo di stare sul Pianeta e di utilizzarne i flussi di materia e di energia. Spesso in modo intelligente e lungimirante, a volte stupido ed autolesionista». La dimensione storica è fondamentale, dunque, secondo Nebbia, per apprezzare i risultati della scienza, «ma anche per individuarne i limiti e gli errori, di ieri, di oggi e, possibilmente, di domani». Per contestare fermamente lo sviluppo attuale, «mantenendosi su di un terreno razionale e positivo». Secondo l’autore, Nebbia «sapeva trasmettere un profondo amore per la ricerca scientifica messa al servizio del bene comune», sottolineando gli effetti nocivi di un certo sviluppo sull’ambiente e di conseguenza anche sulla vita delle persone.

Per Nebbia la scienza e la tecnica devono essere a servizio delle persone più povere ed emarginate, per sostenere processi di emancipazione dalla loro condizione di subalternità e per «contribuire alla creazione di un mondo più giusto».

Questione climatica, attenzione ai più poveri, pace, cooperazione internazionale, disarmo nucleare erano temi di punta che avevano avvicinato Giorgio Nebbia al mondo cattolico di base e alla collaborazione con Missione Oggi, ricorda Ruzzenenti sottolineando anche la particolare attenzione che il militante ambientalista aveva dedicato alla dottrina sociale della Chiesa e in particolare alle encicliche come la Populorum progressio di Paolo VI e la Laudato Si’ di papa Francesco. «Giorgio Nebbia, insomma, ci ha aiutato a coltivare l’ambizione di tenere insieme la giustizia ambientale con la giustizia sociale. Un’impresa ardua che la sua ironia ed il suo sorriso, che ci accompagneranno sempre, fanno sembrare persino possibile».