Musica classica. Silvia Chiesa e la grande anima musicale del ‘900 italiano

Silvia Chiesa e la grande anima musicale del '900 italiano

Ci sono voluti decenni ma la musica antica, da cosa per pochi appassionati, oggi è un fenomeno che cattura molti giovani musicisti, appassiona un pubblico in crescita e genera festival. Chissà che non accada un giorno anche per il Novecento italiano. Come un tempo quello rinascimentale e barocco, è un repertorio che resta in gran parte tra le pagine degli spartiti e degli studi musicologici. Per una serie di ragioni storiche e non ultime ideologiche, la musica della prima metà del secolo scorso giace in un cono d’ombra da cui a più riprese diversi alfieri, anche importanti, cercano di farla emergere. Tra i più convinti è la violoncellista Silvia Chiesa, che ha da poco pubblicato insieme all’Orchestra della Rai un cd con i Concerti di Mario Castelnuovo Tedesco (in occasione del 50° anniversario della morte del compositore), di Gian Francesco Malipiero e (in prima registazione mondiale) di Riccardo Malipiero. L’album, che viene presentato oggi a Milano al Museo del ’900 (ore 17.00) da Silvia Chiesa e il musicologo Alessandro Turba, è la terza tappa di un progetto iniziato con i due Concerti di Rota e proseguito con Pizzetti, Casella e Respighi.

Sono tre concerti importanti, ma anche molto diversi tra loro.

«E distanti cronologicamente: i primi due sono del 1935 e 1937, il terzo del 1957. Ho deciso di accostarli per dare un’immagine di venti anni di musica in Italia».

Come li descriverebbe?

«Quello di Castelnuovo è il più lirico e insieme il più semplice nei contenuti, pur essendo di grandi dimensioni. Gianfrancesco Malipiero è di spirito neoclassico. Riccardo Malipiero è concettoso, introverso ma di grandi contenuti».

Che idea di Novecento ne esce?

«Da strumentista, offrono la possibilità di conoscere le tecniche espressive e compositive con cui veniva interpretato il violoncello. Castelnuovo Tedesco lavora in maniera molto ardita, sempre nel registro acuto, probabilmente su sollecitazione di un solista come Grigorij Pjatigorskij, dedicatario del Concerto. Gianfrancesco Malipiero ha una scrittura concertante: il violoncello è una voce in dialogo costante con le altri parti. In Riccardo Malipiero il solismo è presente ma in una partitura complessa come un codice».

Anche quest’ultimo è però molto plastico e lirico.

«È vero: nonostante una tecnica vicina alla serialità mantiene un lirismo tutto italiano. Ecco perché ho voluto inserirlo nel disco. La vena nobile del canto all’italiana è il vero fil rouge di tutto il disco. Se a prima vista è un trio senza relazione, all’ascolto appare evidente la trasformazione della vena lirica nei decenni a cavallo della guerra».

Come ha costruito il suo percorso in questo repertorio?

«Sono partita da Rota per passare da Respighi e Casella e arrivare a Malipiero. È un’inversione cronologica: i dueConcerti di Rota sono dei primi anni Settanta. Ma Rota, che ha uno stile personale e ben riconoscibile, era il più semplice dal punto vista linguistico. È stato un viaggio attraverso le anime di un secolo verso la complessità»

Che risposta ha avuto? «Il primo disco, nel 2011, fu un azzardo premiato dal successo oltre ogni previsione. Ma mi colpì come a fronte di un tot di vendite in Italia, all’estero, specialmente in Polonia e Germania, paesi con una cultura musicale molto sviluppata, i risultati erano esponenziali. Non è un caso che sia stata invitata a eseguire questi concerti prima all’estero che in Italia. Anche ora con Castelnuovo Tedesco le prime richieste mi arrivano dalla Germania. In Italia la prima obiezione è che questi autori non sono noti. C’è paura che questo repertorio non attiri il pubblico, ma è pigrizia intelletuale. Devo dire poi che è gratificante ricevere messaggi da violoncellisti di tutto il mondo che chiedono informazioni su questo repertorio. E ancora di più mi riempie di orgoglio la quantità di richieste che mi arrivano dagli studenti dei conservatori italiani. Ora i ragazzi non parlano più solo delConcerto di Dvorák da portare al diploma».

da Avvenire

La storia. Carlos França, goleador dell’anima

Un gol in rovesciata del centravanti del Potenza Carlos França (foto Tony Vece)

Un gol in rovesciata del centravanti del Potenza Carlos França (foto Tony Vece)

Duecentoventisette. Tante sono le reti che ha messo a segno da quando è approdato nel nostro Paese. Gol mai banali e spesso di rara bellezza che riflettono la sua profondità interiore. Carlos Clay França è oggi non solo il centravanti brasiliano più prolifico e continuo d’Italia, ma anche un autentico bomber dell’anima. Campione dentro e fuori dal campo, capace di infiammare già tante piazze del Nord, quest’anno con i suoi trenta centri ha fatto impazzire i tifosi del Potenza Calcio riportando la società lucana in Serie C. Numeri da fenomeno che sono valsi al 38enne attaccante verdeoro, cresciuto nel Santos, anche il Pallone d’oro. Poco importa che sia quello della Serie D: la classe non ha categorie. E anzi nel calcio di provincia, così lontano da interessi milionari, è più facile incontrare uomini veri prima che sportivi eccezionali.

Negli occhi dei supporter rossoblù del capoluogo della Basilicata è rimasta scolpita una perla del suo repertorio, la rovesciata vincente dello scorso ottobre contro il Cerignola (che ha avuto risalto anche sulle tv nazionali). Un’acrobazia che non ha nulla da invidiare a quella celebre di Carlo Parola sulle bustine Panini. E non è un caso se il ritratto di França è diventato oggi una gigantesca figurina sulle mura dello Stadio Viviani. Dappertutto a Potenza, nei bar e nei locali della città, c’è il poster con il suo strepitoso gesto atletico. Una foto che spicca anche nella vetrina di casa sua in mezzo a trofei e riconoscimenti di ogni genere: «Avevo già fatto altri gol in rovesciata – spiega Carlos – ma questa l’hanno paragonata addirittura a quella di Cristiano Ronaldo contro la Juve… È merito dei tifosi del Potenza se ha avuto grande risonanza. Qui ti fanno sentire un giocatore di Serie A».

Nella città in cui non c’è niente di più sentito della festa patronale di san Gerardo e del pallone, il cannoniere brasiliano è salito da subito sugli altari. Perché se ogni anno con la storica e suggestiva Parata dei Turchi i potentini rievocano la sventata minaccia saracena per opera del santo vescovo del XII secolo, Carlos è stato acclamato come il goleador “benedetto”: colui che ha posto fine all’inferno calcistico (otto lunghi anni nel calcio dilettantistico) do- po lo scandalo scommesse della vecchia società, le retrocessioni e i fallimenti. «Sapevo che il Potenza veniva da anni difficili e sono rimasto stupito dall’accoglienza incredibile già dal primo giorno. Si è creato un legame speciale con la gente. È stata la mia prima esperienza al Sud e devo dire che qui il calcio è seguito in maniera viscerale». Bomber con la valigia, ogni anno una squadra nuova, ogni anno una promozione in Serie C. Per Carlos questa è la quarta consecutiva dopo Cuneo, Lecco e Triestina dove lo ricordano oltre che per le reti (79 in 100 presenze) anche per la straordinaria umanità: «È ciò che mi inorgoglisce di più essere apprezzato come uomo prima che calciatore. È anche grazie a loro e ai tanti tifosi potentini che ho vinto il Pallone d’oro della Serie D che per me vale più di quelli di Ronaldo e Messi». Quest’anno però, per la gioia dei sostenitori del Leone rampante, França goleador senza età, che più invecchia e più diventa forte, ha deciso di andare avanti con la società del presidente Salvatore Caiata: «Abbiamo vissuto un sogno insieme e voglio continuare a sognare. Grazie a Dio riesco ancora a correre dietro i giovani di vent’anni e poi il mio sogno è chiudere la carriera in Serie B».

Ne ha fatta di strada il ragazzino venuto su a pane e rovesciate che si sente orgogliosamente anche italiano: «I miei bisnonni materni erano di Terni. E a Jaguariúna (San Paolo) sono cresciuto con le lasagne e i maccheroni della nonna». Ma ha pesato non poco la terribile scoperta fatta a 26 anni nel pieno della carriera: «Giocavo in Spagna, cominciai a sentire un dolore alla schiena che aumentava sempre di più. E perdevo anche sensibilità dalla parte sinistra. Dopo otto mesi in Brasile mi diagnosticarono un tumore che andava rimosso subito. I medici erano convinti che non avrei potuto continuare a giocare». Eppure nel momento più buio si è accesa una luce: «Grazie a Camila, che sarebbe diventata mia moglie, ho conosciuto Gesù e ho capito che da solo non potevo farcela. Mi sono affidato a Lui: “Mi hanno detto che sei il Dio dell’impossibile fai qualcosa per me, aiutami”. E Dio mi ha dato una seconda chance». Da allora è cominciata una nuova vita: «Mi sono sentito amato completamente e il vuoto che avevo dentro è sparito. I due anni di terapia post intervento sono stati molto duri. Ma decisiva è stata Camila e la mia famiglia. Soprattutto mio padre che mi ha sempre insegnato a non arrendermi. Lui operato quattro volte al cuore sin da giovane, veniva da una famiglia molto povera ma è riuscito a diventare chimico e professore d’educazione fisica non facendoci mai mancare nulla. La sua scomparsa qualche anno fa è stato uno dei giorni più tristi ma ho la pace nel cuore perché sono certo che anche lui ha creduto in Gesù e nella vita eterna».

Dalla consapevolezza di un dono all’inizio di una missione: «Da quando ho incontrato il Signore la mia vita ha un senso e uno scopo: il calcio è lo strumento per trasmettere lo stesso amore che ho ricevuto io. Anche a Potenza mi chiamano spesso in ospedale o nelle scuole, vado ovunque per testimoniare che nulla succede per caso. E che Dio si serve di noi anche solo per una parola o un abbraccio per confortare tutti. C’è una frase di san Paolo che è diventato il mio motto: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza” (Fil 4,13)». Una svolta anche calcistica da quando incredibilmente è tornato in campo nel 2009 in Italia a Chiavari: Carlos che aveva sempre giocato terzino si scopre cannoniere grazie a mister Costanzo Celestini (ex giocatore del Napoli di Maradona).

Quasi dieci anni da top player nelle serie minori senza però mai giocare tra i professionisti. «Non ho rimpianti. La Serie C l’ho giocata in Spagna e Brasile e ora a Potenza. Nella mia vita non potevo chiedere dei regali più belli di mia moglie Camila e dei miei bimbi, Gianluca (7 anni) e Giulia (5 anni)». Camila che di cognome fa Bodini, anche lei italo-brasiliana (i suoi avi erano di Cremona), è stata calciatrice professionista e quest’anno ha contribuito alla nascita del calcio femminile a Potenza. «Suo padre è stato giocatore in Serie A in Brasile ed è grazie a suo fratello Cassiano, che ha giocato nell’Entella, se sono ritornato in Italia dopo una prima esperienza nel 2004». Uniti dal calcio ma soprattutto dalla fede cristiana (evangelica): «Vogliamo vivere secondo il piano di Dio. Noi crediamo tanto nella famiglia, un’istituzione divina oggi purtroppo sotto attacco: non ci sono più princìpi, ci si separa facilmente, è la strategia del Nemico. Ma il fatto che ci sono persone che ancora lottano per difenderla è segno che non possiamo mollare. Vedo mio figlio orgoglioso di me, gioca a pallone e vuole imitare la mia rovesciata. Sono felice ma vorremmo che i nostri figli più di tutto incontrassero Gesù, perché Lui ti cambia la vita».

avvenire

Sinodo dei giovani. Milano Roma in pellegrinaggio a piedi con il Pime

“Siamo giovani che vivono la missione, che mettono a frutto la propria vita e che si divertono pure” così si presentano i giovani del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) pronti a mettere lo zaino in spalla e partire da Milano il prossimo 31 luglio per camminare assieme ai giovani di tutta Italia fino a Roma per prendere parte all’appuntamento che papa Francesco ha dato ai giovani italiani il 12 agosto 2018.

Come spiega padre Alessandro del Pime che coordina la proposta del pellegrinaggio verso Roma: “questa è un’opportunità per mettersi in gioco, avere tempo per riflettere, scoprire cosa significa sostenere ed essere sostenuti dai propri compagni di viaggio”. Le giornate sono dominate dal camminare, ma sono previsti sempre dei momenti di riflessione e delle occasioni di crescita personale, come testimonianze e attività formative. Oltre a questo, i giovani del Pime faranno visita ai punti di interesse storico e artistico che incroceranno sulla nostra strada.

(Foto Facebook Giovani Pime)

(Foto Facebook Giovani Pime)

LE TAPPE:

– 31 luglio: ritrovo a Milano al Centro missionario Pime

Pime, via Mosé Bianchi Milano

Pime, via Mosé Bianchi Milano

– 1 agosto: Milano –Badile

Badile

Badile

– 2 agosto: Badile – Pavia

Certosa di Pavia

Certosa di Pavia

– 3 agosto: Pavia – Santa Cristina

– 4 agosto: Santa Cristina – Orio Litta

– 5 agosto: Orio Litta – Piacenza

– 6 agosto: Piacenza – Pieve Dugliara

– 7 agosto: Pieve Dugliara – Bobbio

– 8 agosto: Bobbio- Tivoli – Santuario della Madonna di Quintiliolo (in bus)

– 9 agosto: Tivoli – Santuario della Madonna di Quintiliolo – Torre Gaia

– 10 agosto: Torre Gaia – Roma

– 11 agosto: Roma, Veglia col Papa

– 12 agosto: Roma, Messa col Papa

– 13 agosto: rientro a casa

INFO:

Dove: da Milano a Roma

Quando: 31 luglio – 13 agosto

Entro quando: iscrizioni entro il 24 giugno 2018

Per chi: 20-30 anni

Quanto: 270€

Questi sono i pellegrini dell'anno scorso che si rinfrescano i piedi dopo la camminata. Notate le facce felici, primo segno di riconoscimento del pellegrino. Le iscrizioni chiudono il 24 giugno. (Foto Facebook Giovani Pime)

Questi sono i pellegrini dell’anno scorso che si rinfrescano i piedi dopo la camminata. Notate le facce felici, primo segno di riconoscimento del pellegrino. Le iscrizioni chiudono il 24 giugno. (Foto Facebook Giovani Pime)

(Foto Facebook Giovani Pime)

(Foto Facebook Giovani Pime)

Il Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) è una comunità di consacrati e laici che dedicano la propria vita all’annuncio del Vangelo e alla promozione umana di altri popoli e culture. La loro vocazione missionaria è ad vitam, ad extra, ad gentes ed insieme.

In più di 166 anni di storia, il Pime ha inviato ai confini della terra quasi 2000 missionari. Dove la parola di Dio non è stata ancora annunciata e dove sussistono particolari difficoltà, l’Istituto è presente. Attualmente, il PIME opera in Algeria, Bangladesh, Brasile, Cambogia, Camerun, Cina-Hong Kong, Costa D’Avorio, Filippine, Giappone, Guinea Bissau, India, Messico, Myanmar, Papua Nuova Guinea, Thailandia e USA.

Ma non si fa solo missione in terre lontane, anche l’Italia è al centro dell’operato dell’Istituto. Ne è un esempio l’animazione missionaria. Attraverso i cammini per i giovani, percorsi di crescita, spiritualità e volontariato che ilPime propone ai ragazzi dai 15 anni in su, si accompagnano i più giovani nella scoperta della missione, nell’apertura verso l’altro in un autentico cammino di fede.

FONTI:

Pime Giovani

Evento su Facebook

La pagina Fecebook del Pime Giovani

Per avere altre informazioni si può inviare una mail a pellegrinaggiopime@gmail.com

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da Avvenire

I riti. Sacro Cuore di Gesù tra storia, preghiera e devozione

Gesù appare a santa Margherita Maria Alacoque

Gesù appare a santa Margherita Maria Alacoque

Non un’immaginetta per devoti ma «il cuore della rivelazione, il cuore della nostra fede perché Cristo si è fatto piccolo» scegliendo la via di «umiliare se stesso e annientarsi fino alla morte» sulla Croce. Con queste parole il Papa l’anno scorso parlava del Sacro Cuore di Gesù, o meglio della “solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù” che nel 2018 si celebra l’8 giugno.

San Giovanni e l’Ultima Cena

L'Ultima Cena, opera di Giovanni Canavesio

L’Ultima Cena, opera di Giovanni Canavesio

Si tratta infatti di una festa mobile che cade il venerdì dopo il Corpus Domini ed è strettamente legato al giorno successivo cioè al sabato, dedicato invece al “cuore immacolato di Maria”. Anche se la prima celebrazione risale al XVII secolo, probabilmente nel 1672 in Francia, la devozione al sacro cuore di Gesù ha origini molto più antiche. Punto di partenza è per così dire la figura di san Giovanni apostolo che tantissime iconografie ritraggono nell’Ultima Cena con il capo appoggiato al cuore di Gesù. Notevole impulso venne poi anche nel Medio Evo da figure come Matilde di Magdeburgo (1207-1282), Matilde di Hackeborn (1241-1299), Gertrude di Helfta (1256-1302) ed Enrico Suso (1295-1366).

Le visioni di santa Margherita Maria Alacoque

Margherita Maria Alacoque (1647-1690)

Margherita Maria Alacoque (1647-1690)

Tuttavia la vera diffusione del culto va attribuita a san Jean Eudes (1601-1680) e soprattutto a santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690). Quest’ultima, monaca visitandina nel monastero di Paray-le-Monial, ebbe per 17 anni apparizioni di Gesù che le domandava appunto una particolare devozione al suo cuore. La prima visione risale al 27 dicembre 1673 festa di san Giovanni evangelista e la santa nella sua autobiografia la raccontò così: «Ed ecco come, mi sembra, siano andate le cose. Mi disse: Il mio divin cuore è tanto appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare, che non potendo più contenere in se stesso le fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle per mezzo tuo e di manifestarsi agli uomini per arricchirli dei preziosi tesori che ti scoprirò e che contengono le grazie in ordine alla santità e alla salvezza necessarie per ritirarli dal precipizio della perdizione. Per portare a compimento questo mio grande disegno ho scelto te, abisso di indegnità e di ignoranza, affinché appaia chiaro che tutto si compie per mezzo mio».

Il culto universale e la Basilica di Montmartre

La Basilica del Sacro Cuore a Parigi

La Basilica del Sacro Cuore a Parigi

Al centro di un acceso dibattito teologico, la festa del Sacro Cuore fu autorizzata nel 1765 limitatamente alla Polonia e presso l’Arciconfraternita romana del Sacro Cuore. Fu solo con Pio IX, nel 1856, che la Festa divenne universale, accompagnandosi da subito alla dedicazione di congregazioni, atenei, oratori e chiese, la più famose della quali è probabilmente la Basilica di Montmartre a Parigi. Raccogliendo o meglio riunendo le tesi del dibattito sul significato teologico nel sacro Cuore di Gesù si celebra insieme il cuore come organo umano unito con la divinità di Cristo e l’amore del Signore per gli uomini di cui il cuore è simbolo.

La Giornata di santificazione dei sacerdoti

Il Papa presiede l'Eucaristia in Casa Santa Marta (L'Osservatore Romano)

Il Papa presiede l’Eucaristia in Casa Santa Marta (L’Osservatore Romano)

Tradizionalmente nella solennità del Sacro Cuore di Gesù si celebra la Giornata di santificazione sacerdotale. Nel Messaggio preparato per questo 2018 la Congregazione per il clero, guidata dal cardinale prefetto Beniamino Stella. sottolinea che «la Chiesa e il mondo hanno bisogno di sacerdoti santi! Papa Francesco, nella nuova Esortazione apostolica sulla santità, “Gaudete et exsultate”, ha richiamato alla memoria i sacerdoti appassionati nel comunicare nell’annunciare il Vangelo, affermando che “la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante”».

La preghiera al Sacro Cuore

Sono tante le preghiere dedicate al Sacro Cuore di Gesù, a cominciare dall’atto di consacrazione, ispirato da santa Margherita Maria Alacoque. Di seguito il testo dell’offerta della giornata, che tanti fedeli ripetono ogni mattina.
«Cuore Divino di Gesù, io ti offro per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, madre della Chiesa, in unione al Sacrificio Eucaristico, le preghiere, le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del Divin Padre. Amen».

da Avvenire

Il Vangelo della Domenica. Gesù, fuori dagli schemi anche per i suoi parenti

X Domenica – Tempo ordinario
Anno B

In quel tempo, Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé». Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito […].

Da sud, dalla Giudea, arriva una commissione d’inchiesta di teologi. Dalle colline di Galilea scendono invece i suoi, per portarselo via. Sembra una manovra a tenaglia contro quel sovversivo, quel maestro fuori regola, fuorilegge, che ha fatto di Cafarnao il suo quartier generale, di dodici ragazzi che sentono ancora di pesce il suo esercito, di una parola che guarisce la sua arma.
È la seconda volta che il clan di Gesù scende da Nazaret al lago, questa volta hanno portato anche la madre; vengono a prenderselo: È fuori di sé, è impazzito. Sta dicendo e facendo cose sopra le righe, contro il senso comune, contro la logica semplice di Nazaret: sinagoga, bottega e famiglia.
Dalla commissione d’inchiesta Gesù riceve il marchio di scomunicato: figlio del diavolo.
Eppure la pedagogia di Gesù ancora una volta incanta: ma egli li chiamò, chiama vicino quelli che l’hanno giudicato da lontano; parla con loro che non si sono degnati di rivolgergli la parola, spiega, cerca di farli ragionare. Inutilmente. Gesù ha nemici, lo vediamo, ma lui non è nemico di nessuno. Lui è l’amico della vita.
Sua madre e i suoi fratelli e le sue sorelle e stando fuori mandarono a chiamarlo. Il Vangelo di Marco, così concreto e asciutto, ci rimette con i piedi per terra, dopo le ultime grandi feste, Pasqua, Pentecoste, Trinità, Corpo e Sangue di Cristo. Il Vangelo riparte dalla casa, dal basso: non nasconde, con molta onestà, che durante il ministero pubblico di Gesù, le relazioni con la madre e tutta la famiglia sono segnate da contrapposizioni e distanza. Riferisce anzi uno dei momenti più dolorosi della vita di Maria: chi è mia madre? Parole dure che feriscono il cuore, quasi un disconoscimento: donna, non ti riconosco più come mia madre… L’unica volta che Maria appare nel Vangelo di Marco è immagine di una madre che non capisce il figlio, che non lo favorisce. Lei che poté generare Dio, non riuscì a capirlo totalmente. La maggior familiarità non le risparmiò le maggiori incomprensioni. Contare sul Messia come su uno della famiglia, averlo a tavola, conoscere i suoi gusti, non le rese meno difficile la via della fede. Anche lei, come noi, pellegrina nella fede.
Gesù non contesta la famiglia, anzi vorrebbe estendere a livello di massa le relazioni calde e buone della casa, moltiplicarle all’infinito, offrire una casa a tutti, accasare tutti i figli dispersi: Chi fa la volontà del Padre, questi è per me madre, sorella, fratello… Assediato, Gesù non si ferma, non torna indietro, prosegue il suo cammino. Molta folla e molta solitudine. Ma dove lui passa fiorisce la vita. E un sogno di maternità, sorellanza e fraternità al quale non può abdicare.
(Letture: Genesi 3,9-15; Salmo 129; 2 Corinzi 4,13-5,1; Marco 3,20-35)

di Ermes Ronchi – Avvenire

La scuola da riformare. Basta con le «riformette», serve un cambio radicale

Chi parla assennatamente di cambiamento di una società, sa bene che il luogo dove si realizza un cambiamento è la dimensione educativa. I cambiamenti o sono di tipo educativo o sono di altre due tipi, entrambi non consigliabili: superficiali o violenti. E se dunque qualcosa in Italia deve cambiare la prima attenzione del governo e del popolo dovrebbe essere sulla scuola, o meglio, sul campo educativo.

Un dibattito si è sviluppato in questi giorni con l’insediamento del nuovo governo. Poiché il tema è complesso e delicato non crediamo a ricette miracolose. Ma un buon inizio può essere porsi le domande giuste (e scomode). Eccone alcune. La scuola infatti non è solo affare del governo, ma soprattutto del popolo, cioè di genitori, famiglie, giovani etc. La prima domanda riguarda l’epoca che viviamo. Molte strutture fondamentali della vita pubblica fissate da centinaia di anni stanno modificandosi o sono in crisi. I motivi della trasformazione sono tanti, ma è evidente che partiti, media, organizzazione del lavoro e anche degli Stati, editoria e disponibilità dei contenuti sono mutati profondamente.

L’impianto della scuola invece no.

Come se fosse naturale che nel 2018, ad esempio, dei quindicenni stiano cinque, sei, sette ore al giorno in aule spesso bruttone come facevano i loro bisnonni. O come se fosse ovvio che uno stipendio e uno statuto da funzionario medio bassi fossero gratificanti, come un secolo fa, per persone, maestri e professori, a cui oggi però capita più che essere autorità d’esser terminali di infiniti problemi e disagi. Quindi, prima domanda, siamo sicuri che non occorra un cambio radicale e non solo riformette?

Occorrono idee forti.

L’esistente è fissato su alcuni capisaldi tanto irremovibili quanto inadeguati, ‘pilastri’ che rischiano di restare in piedi mentre tutto intorno crolla. Le crepe sono evidenti. La scuola spesso è un posto dove i ragazzi e gli adulti mandano ogni mattina i propri ‘fantasmi’, le ‘maschere’ ma le persone vere sono altrove. Da qui un diffusissimo senso di stress e di frustrazione e la sensazione di spreco di tempo e energie. Il primo pilastro dell’attuale situazione è che l’educazione dei giovani è compito dello Stato attraverso suoi funzionari. Stranamente mentre su altri campi non meno delicati della cultura e della educazione (dai musei ai teatri) lo Stato, se non altro per motivi economici, chiede l’intervento del popolo (attraverso fondazioni sponsorizzazioni, defiscalizzazioni…) sulla Scuola invece l’iniziativa del popolo è malvista e osteggiata.

Non sarebbe ora di invertire radicalmente la direzione? Inoltre, non sarebbe meglio immaginare per i nostri figli ritmi e luoghi della formazione diversi da quanto avveniva più di un secolo fa? Molte scuole somigliano a palazzoni a metà tra ospedali e riformatori. Passarci dentro sei ore al giorno a chi può giovare? Non è che si tengano lì i ragazzi perché altrimenti non si sa dove metterli? La nostra infatti è una società che non prevede oltre alla scuola una condivisione di tempo tra adulti e giovani, eccetto rare eccezioni come lo sport e qualche gruppo religioso o di volontariato.

Una ricerca svolta da un giovane sociologo dell’Università di Bologna, Giuseppe Monteduro, dimostra che i manager di grandi aziende desiderano assumere ragazzi ben formati su aspetti fondamentali e relazionali invece che infarciti di nozioni. Ma basta stare solo con genitori e professori per trarre tale vera educazione?

da Avvenire

La cura. Davvero nella nostra società l’organizzazione cerca il bene di quell’essere umano ben preciso, che ha un nome e un cognome?

Chi non ricorda il grande Battiato? Una sua canzone, tra le più belle, s’intitola “La cura”. Mi è venuta in mente in questi giorni in relazione ad alcuni episodi letti, visti o ascoltati. Qualche giorno fa, nella sua rubrica “Il caffè”, sul Corriere della Sera, Gramellini racconta di come una classe di ragazzini abbia salvato la propria prof. Dopo due giorni di assenza nessuno dei colleghi della docente, né la scuola, si preoccupa di questo strano comportamento immotivato e mai accaduto alla prof. I suoi studenti, che ne apprezzano molto le lezioni, sì. Fanno venti km in autobus e, non ricevendo risposta al campanello di casa, chiamano i carabinieri. Arrivano, sfondano la porta e trovano la prof. riversa per terra. Fortunatamente ora sta bene e ha ripreso l’insegnamento.

Un giorno prima, mentre scendo dall’auto nel parcheggio dove faccio la spesa, vedo una donna per terra proprio sulla porta d’ingresso del supermercato. La sua spesa che rotola ovunque e accanto a lei un immigrato senegalese la sta soccorrendo. Mi avvicino e provo ad aiutarla. Si rialza, nulla di grave. Viene da un Paese dell’est, forse una badante. Raccolgo la spesa mentre il ragazzo senegalese si assicura che stia bene. Gliela riporto e mi dice che mancano due cose che aveva comprato. Provo a tornare a cercarle, ma la strada è pulita, come pure l’ingresso del negozio. La guardo e lei mi dice: “Hanno rubato me! Che mi aiuta solo immigrato come me, altri rubano”. Non ha voluto accettare che glieli ripagassi io, ma è tornata dentro, infuriata, a ricomprarli.

Irena, ragazza albanese che assiste mia madre in ospedale, mi racconta la scenetta di qualche giorno prima. La donna di fianco al letto di mia madre viene investita, verso le otto di mattina, da un infermiera un po’ “di corsa”: “Due delle quattro pillole le ha lei?? Noi non le abbiamo qui”. La donna fatica a capire. L’infermiera alza la voce e ripete la domanda. Irena, si volta e dice all’infermiera: “Guardi ieri mattina ero qui e le hanno dato quattro pillole, l’ho vista io”. “Mi scusi, non sto parlando con lei – risponde l’infermiera”. Nel frattempo la donna, ha capito, e dice: “Ha ragione la ragazza, ieri ne ho prese quattro”. E l’infermiera: “Signora, lei è arrivata stamattina qui, vede” mostrandole la tabella su cui si segnano i farmaci, vuota nella colonna del giorno prima. “No, io sono qui da due giorni”. E Irena conferma: “Si, la signora è qui da due giorni, è vero”. L’infermiera, al limite della rabbia: “Ma insomma, sapremo o no da quando i pazienti sono in carico!!?? La tabella è chiara.”

A questo punto Irena stupita la guarda e scoppia a ridere. Cerca di trattenersi, ma l’infermiera lo vede e le ribatte con durezza: “Ma mi prende in giro?? Io sto lavorando qui, va bene??”. E poi se ne va sbattendo la porta. Venti minuti più tardi entra un’altra infermiera e con grande disinvoltura dice alla donna: “Ecco queste sono le sue medicine, quattro pillole, le prenda come ieri. Ok? La saluto”. Irena guarda mia madre e scoppiano a ridere scuotendo la testa. Il signore che assiste la donna del terzo letto della stanza dice: “Robe da matti”.

Nella mia testolina bacata cerco un denominatore comune alle tre storie. Situazioni in cui, nel bene o nel male, si riconosce come la cura dell’altro non può mai passare dall’applicazione standard di un protocollo, codificato o meno che sia, in mano ad una istituzione deputata, ma da un coinvolgimento personale nella relazione, con la persona precisa che abbiamo davanti, che produce sempre un cambiamento nelle due persone, e non le lascia mai indifferenti come erano prima. La cura è sempre tra un io e un tu, mai in un astratto “si fa così”.

Secondo questa logica, quella del “protocollo”, del “a chi spetta occuparsene?”, la prof. abbandonata era in carico all’istituzione scolastica; la badante caduta era in carico ai commessi del negozio; la donna in ospedale era in carico al reparto di degenza. Ma le “strutture” preposte non si attivano. Apparentemente per mancanza di organizzazione, ma in verità per mancanza di “umanità”. Perché la mancata organizzazione è supplita dall’umanità degli studenti, del senegalese e di Irena. E questo significa che più avanza l’organizzazione della cura, più l’umanità è resa non necessaria. Questo è il punto: davvero l’organizzazione cerca il bene di quell’essere umano ben preciso, che ha un nome e un cognome?

Merce rara l’umanità, di questo tempi di “inferno” relazionale. Lo descriveva bene già nel 1960 C. S. Lewis: «Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Il vostro cuore è a rischio. Proteggetelo pure, avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno delle regole, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno esso cambierà: certo non si spezzerà più, ma diventerà infrangibile, irredimibile. Infatti, l’unico altro posto, oltre il cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno».

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“Alfa e Omega”: quelli del secondo annuncio. L’idea è che oggi è necessario ricominciare daccapo, ancora una volta, ad annunciare la gioia del Risorto

L’esperienza di Alpha e Omega (A-O) credo possa essere una risposta alla domanda sul tema del mese di giugno. E’ una esperienza dalle radici lunghe. Figlia diretta del concilio. Siamo alla fine degli anni’70, a Roma. Alla luce della riflessione sull’esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI (1975), un piccolo gruppo di laici matura l’idea di annunciare in modo esplicito la gioia di aver sperimentato la relazione vitale con Cristo come una persona e non come una dottrina. Prende corpo così gradualmente un metodo di “primo annuncio” centrato sull’annuncio di Gesù morto e risorto. L’esperienza crea entusiasmo e da allora cresce e si espande come tutte le cose belle: Modena, Bologna, Pescara, Verona…

Da allora molte cose accadono: l’associazione viene riconosciuta a livello ecclesiale nel 1987 e nel 1997, con un aggiornamento nel 2016. Il percorso interno dell’associazione cresce. Si delinea una insistenza maggiore sul rapporto diretto con Cristo rispetto al semplice rapporto con l’esperienza ecclesiale tradizionale. Nasce in ogni diocesi toccata una comunità che cerca di incarnare il carisma di Alfa-Omega in comunione con la Chiesa locale. Dal 1992 ad oggi vengono vissuti cicli di esperienze di formazione, tutte mirate a trovare le forme più vere e rispondenti al mondo che cambia per rendere efficace l’evangelizzazione. Fino all’ultima, ancora in atto, in cui fratel Enzo Biemmi sta accompagnando questo gruppo nell’approfondimento del cosiddetto “secondo annuncio” e delle sue prospettive.

L’idea cioè che oggi è necessario ricominciare daccapo, ancora una volta, ad annunciare la gioia del risorto, perché il cambio epocale che attraversiamo implica la necessità di parlare a persone ormai post-cristiane, che hanno già ricevuto un primo annuncio, ma che non ne sono state “toccate” profondamente, pur avendone assorbito mentalmente i contenuti.

Ma cosa fanno concretamente gli evangelizzatori di A-O? All’interno del tessuto parrocchiale che di volta in volta si è chiamati a “visitare” dalla comunità parrocchiale e in collaborazione con essa, si dà vita ad un periodo di “missione territoriale”, in cui la visita alle famiglie è il nucleo centrale operativo; in ogni casa in cui si entra viene presentato un brano del Vangelo come traccia del dialogo che si terrà, centrato sempre sulla salvezza di Dio per l’uomo, compiuta nella persona di Gesù Cristo. Contemporaneamente alla visita alle famiglie, in parrocchia vengono curati momenti di preghiera, di adorazione eucaristica e di formazione, per sostenere i missionari nel loro servizio di evangelizzazione e perché la comunità condivida lo spirito dell’evento.

Prima di questo, però, c’è un periodo di preparazione alla missione, centrato sulla motivazione e formazione di un nucleo di promotori, fra le persone più attive della comunità parrocchiale. Questo perché A-O vuole radicarsi come strumento di servizio alla vita delle parrocchie e per permeare tutte le attività parrocchiali; si tende a formare una mentalità positiva verso la missione anche in chi già vive una fede ordinaria e non ha mai pensato che l’aspetto missionario debba e possa essere potenziato con attività specifiche e precise. Così facendo, il periodo della missione vera e propria è realizzato sia da responsabili di A-O, sia dal nucleo dei promotori parrocchiali, che possono così imparare la missionarietà concreta e mantenerla poi come esperienza ulteriormente possibile.

Il periodo successivo alla missione è il più complesso e delicato. Chi si è mostrato interessato al “primo annuncio” viene invitato a continuare il cammino nei piccoli gruppi che vengono formati nelle case. Iniziano così gli incontri di “Lettura del Vangelo” settimanale o quindicinale come itinerari di rivisitazione della fede e per una più fruttuosa partecipazione all’Eucaristia domenicale. Dopo qualche anno, in cui ogni gruppo è animato da un membro di A-O, si individuano persone che, con una prima formazione spirituale e metodologica, inizino a guidare i gruppi stessi: è fondamentale che tali guide siano libere da altre responsabilità pastorali. La parrocchia diventa così comunione di piccole cellule di evangelizzazione presenti nel territorio, che sono lievito per discernere i carismi emergenti per il servizio nella comunità e come seme di nuova evangelizzazione.

Ultimamente poi, oltre al progetto parrocchiale, l’associazione percorre anche altre strade per l’evangelizzazione, perché si è resa conto della necessità urgente di uscire dallo stretto ambito della organizzazione ecclesiale per essere “in uscita”, secondo l’espressione di Francesco. Così è nata l’esperienza della lettura del Vangelo presso il carcere di Modena, o quella, ancora in fase di decollo, con persone non credenti.

Si vede bene come A-O non abbia arretrato davanti al cambiamento epocale che ha lasciato in molti la sensazione di dover invece ricominciare daccapo, abbandonando il concilio. Hanno, invece, continuato a cercare forme sempre nuove e aggiornate affinché l’incontro con Cristo potesse continuare a risuonare attraente anche in un mondo profondamente diverso da quello di 40 anni fa.

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