Si avvicina la visita pastorale di Papa Francesco ad Alessano e Molfetta, nel 25.esimo anniversario della morte di mons. Tonino Bello. Intervista con Giancarlo Piccinni, autore del volume “Don Tonino sentiero di Dio”

Libro "Don Tonino sentiero di Dio"

“Con il suo sorriso”, e la sua fede incarnata, don Tonino Bello “ha trasmesso la tenerezza di Dio”. Così Giancarlo Piccinni, presidente dell’omonima Fondazione e autore del volume “Don Tonino sentiero di Dio”, traccia la figura del vescovo di Molfetta, di cui è in corso la causa di beatificazione. Proprio in occasione della ricorrenza del quarto di secolo dal “dies natalis” di questo presule pugliese, che ha speso la propria vita accanto agli ultimi, Papa Francesco si recherà il prossimo 20 aprile ad Alessano e Molfetta.

La Chiesa del grembiule

Nel libro “Don Tonino sentiero di Dio”, per i tipi di San Paolo, Giancarlo Piccinni, presidente della Fondazione don Tonino Bello, raccoglie una serie di interventi e discorsi dedicati alla figura del “pastore col grembiule”, autentico testimone del Vangelo, scomparso prematuramente per un tumore allo stomaco. Attraverso questo testo, sottolinea l’autore, “è possibile anche ripercorrere la storia della nostra Fondazione”, che nasce per volontà di don Tonino e che ha sede nella sua casa. “Lui – precisa – desiderava che qui ci fosse un centro che potesse aiutare i giovani ad avvicinarsi alla pace, alla non violenza e alla solidarietà”. Il volume è arricchito, inoltre, da alcuni scritti inediti di don Tonino, tra cui spicca un breve ma significativo scambio epistolare olografo con padre Turoldo.

Il potere dei segni

Il presidente della Fondazione don Tonino Bello mette a fuoco anche i punti di contatto tra Papa Francesco e don Tonino Bello: due figure che “ai segni del potere vogliono contrapporre il potere dei segni”, “l’uno e l’altro costruttori di ponti”. Particolarmente significativo, infatti, sarà l’appuntamento ad Alessano, che ha dato i natali a don Tonino, il 18 marzo 1935, e che ospita la sua tomba, presso la quale il Pontefice sosterà in preghiera. “Mi porto dentro tanti ricordi personali legati alla sua figura”, conclude Giancarlo Piccinni “ci ha contagiati” con il suo esempio, un sacerdote innamorato di Cristo e a servizio degli uomini.

vaticannews

Papa: la misericordia è il palpito del cuore di Dio

Papa Francesco Messa Domenica della Divina Misericordia

da Avvenire

Le mani per toccare le piaghe di Cristo, trovando il suo amore, e le porte chiuse della vergogna, della rassegnazione, del peccato per scoprire che è lì che Dio ci viene incontro. Papa Francesco ricorre a due immagini forti ed evocative nell’omelia della Messa nella Domenica della Divina Misericordia, la seconda dopo Pasqua, davanti a 50mila fedeli, secondo la Gendarmeria Vaticana, e agli oltre 550 Missionari della Misericordia provenienti da tutto il mondo. Sacerdoti che dall’Anno Santo del 2016 continuano il loro ministero come segno del perdono di Dio.

Come Tommaso vogliamo vedere Dio

Il Papa, richiamando il Vangelo di oggi, ricorda che anche noi come Tommaso abbiamo bisogno di toccare con mano perché “non basta sapere che Dio c’è”, perché “non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo”.

Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi. Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia più forti di ogni dubbio.

Toccare le piaghe per innamorarsi

In quel gesto, Tommaso riconosce il suo Signore. “Mio Dio”: dice l’apostolo e pronunciando queste parole, sottolinea il Papa, “onoriamo la sua misericordia perché è Lui che ha voluto farsi nostro”. E’ una storia d’amore che nasce nel farsi uomo per noi, nella sua morte e resurrezione: “sei il mio Dio, sei la mia vita. In te – afferma Francesco – ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”.

Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore!

Il perdono per trovare l’amore vero

“Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù?“: nel perdono dei peccati – spiega il Papa – e nel lasciarsi perdonare. Vincendo la ritrosia della confessione e del “barricarci a porte chiuse”. E’ proprio la vergogna “il primo passo dell’incontro”.

La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Noi non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura.

La porta chiusa della rassegnazione

C’è poi la rassegnazione che nasce dal ripetere sempre gli stessi peccati, dal continuare a cadere, nell’essere recidivi “ma – dice il Papa – sii recidivo a chiedere la misericordia” perché il sacramento del perdono non ci lascia come eravamo prima ma ci rende “rinfrancati, incoraggiati, ci sentiamo ogni volta di più amati”.

E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono.

Confessarsi per incontrare il Dio che sempre perdona

Francesco parla anche della porta blindata del peccato che commettiamo. Non perdonandoci crediamo che anche Dio non lo farà e invece il Signore ama entrare nei varchi sbarrati, è lì che compie meraviglie.

Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite.

Al Dio dell’amore e della misericordia, chiediamo dunque la grazia, come Tommaso, “di trovare nel suo perdono la nostra gioia, nella sua misericordia la nostra speranza”

Letteratura. Così il credo di padre Kolbe ispirò la penna di Shusaku Endo

Padre Massimiliano Kolbe

Padre Massimiliano Kolbe

Shusaku Endo e Massimiliano Kolbe. Lo scrittore nipponico mancato Premio Nobel e il frate polacco che offrì la sua vita al posto di un padre di famiglia destinato al bunker della fame nel lager di Auschwitz. Il romanziere avvicinato al cattolicesimo dalla madre e battezzato a undici anni, l’autore affascinato dalla fedeltà dei martiri, capace di scandagliare – come nessuno in Oriente – i concetti di grazia e peccato, compassione e amore, e il minore conventuale che, nel 1941, morendo da martire, per fede e amore, ne riportò la “vittoria” in un luogo costruito per negarli.

Ad accomunarli non solo un fatto, forse meno noto, gli anni trascorsi da Kolbe come missionario nella patria di Endo, a Nagasaki – dove arrivò nel 1930, editò una rivista, costruì un convento e aprì un seminario, rientrando in Polonia nel ’36 – ma, soprattutto, la riflessione sull’adesione autentica a principi, valori, convinzioni, e al proprio «credo». Che nel caso di san Massimiliano non fu solo teologia e spiritualità e sappiamo cosa comportò. I due elementi appena menzionati – l’esperienza giapponese di Kolbe e la fama di santità nata dal suo martirio – hanno offerto lo spunto per un grande racconto di Endo. Pagine che arrivano ora al pubblico italiano, trasmettendo – attraverso il ricordo di Kolbe – la predilezione di Endo per quanti sono mossi dall’unica forza necessaria: quella dell’amore, e infilando anche un dardo nella coscienza di tanti viaggiatori simili a quelli del suo Il giapponese di Varsavia (pagine 96, euro 10,50, Edb), titolo sotto il quale si raccolgono anche altri due racconti.

In tutto tre testi presentati e tradotti dal saveriano Tiziano Tosolini. Legati sì da uno spaesamento circa la natura della propria fede e dal conflitto morale derivante, ma dove si avverte la fiducia nella compassione divina assoluta ed eterna, l’affidamento alla tenerezza del Dio che – in Gesù – accoglie e perdona la fragilità umana, così distante dalla fedeltà radicale dei martiri.

Nel primo racconto Un uomo di quarant’anni, del ’64, tutto, in un ospedale, ruota attorno a un merlo indiano al quale il protagonista si rivolge percependone lo sguardo di compassione, ammettendo una colpa che era stato incapace di confessare persino al prete (tema ripreso poi da Endo in Fiume profondo del ’93 ); nel secondo, “Unzen”, pubblicato nel ’65, l’autore stesso si fa pellegrino alle sorgenti del monte già scenario di torture subite dai cristiani per essere indotti all’abiura sino all’ingresso nella storia dell’apostata Kichijiro (personaggio del romanzo Silenzio uscito l’anno dopo) che lo porta a seguire da vicino quei tragici avvenimenti.

Ma fermiamoci qui sul terzo racconto: la vicenda, fittizia, costruita attorno alla storia, reale, del religioso polacco canonizzato da papa Wojtyla. Una decina di turisti giapponesi viaggiando attraverso l’Europa, fanno scalo a Varsavia giudicata un posto tristissimo rispetto a Parigi, appena visitata. Il gruppetto sembra interessato solo alla ricerca di compagnie notturne a pagamento; visita la città in cui convivono comunismo e cattolicesimo (siamo a fine anni ’70), sosta nei luoghi caratteristici: piazza Zamkowy con la statua di Sigismondo III, la casa di Chopin, la statua della Sirena sulla riva della Vistola, i resti del ghetto ebraico, il mercato di Miasta…

A un certo punto, prima in un negozio di souvenir, poi in un ristorante, viene chiesto a questi giapponesi se conoscono la figura di Kolbe che, benché rievocata nelle sue tappe nel Paese del Sol Levante e nel suo epilogo ad Auschwitz, non rammenta niente a nessuno. Solo poco dopo, come in un flash back, uno di loro, Imamiya, comprende di aver incontrato padre Kolbe quand’era bambino mentre il religioso si trovava a Nagasaki. «Imamiya pensava al nome di Kolbe che aveva sentito pronunciare, e si domandava se per caso uno dei missionari che aveva incontrato in passato fosse stato proprio lui. Un dolore simile a quello di una puntura di spillo lo trafisse nell’intimo. Gli si ripresentò davanti agli occhi la figura di quel prete emaciato, con quei suoi occhiali rotondi e con quel suo sorriso, e l’espressione del suo viso gli ferì il cuore».

Il ricordo di una figura così straordinaria associato al suo esempio, si consuma mentre Imamiya, protagonista del racconto, riempie il suo soggiorno rivelando comunque la sua debolezza e infedeltà: pagando una prostituta. Ma il profilo di Kolbe lo insegue. Leggiamo che: «quella notte Imamiya pagò una donna». E’ lei a portarlo nel suo appartamento. Endo si limita a descrivere l’ambiente dove si consuma il rapporto. «Due o tre libri in polacco erano disposti sul piccolo tavolo, e diverse fotografie e dipinti religiosi erano appiccicati sul muro dietro al tavolo. Una delle fotografie, che forse ritraeva la sua famiglia, raffigurava il marito operaio, la moglie e una giovane ragazza. Su un lato c’era l’immagine della Madonna e tra le varie cartoline di Natale vi era il ritratto di un uomo disegnato con dell’inchiostro nero». Poi la sorpresa: «Lo sguardo di quell’uomo – con i capelli corti, gli occhiali rotondi, le guance incavate – era rivolto verso Imamiya. Si ricordò di aver già visto quell’espressione sfinita. Era quella dello straniero che in quel giorno d’estate stava salendo faticosamente il pendio della collina di Oura. Era quella del missionario che si era fermato a metà strada per asciugare il sudore che gli aveva appannato gli occhiali e che aveva salutato Imamiya (…). Quando uscì dal bagno in vestaglia, la donna trovò Imamiya che fissava il ritratto e disse: “Quello è Kolbe”».

Troppo semplice? Non dimenticherò mai quello che Endo mi disse alla fine del dicembre dell’ 88, a Tokyo, dove seguivo l’agonia dell’imperatore Hirohito. Facevo i soliti paragoni di lui con Graham Greene nelle descrizioni delle miserie umane innanzi al mistero divino. M’interruppe: «Greene scrive per gente che sa bene cos’è la spiritualità cattolica, io devo scrivere prima per gente che la ignora».

© RIPRODUZIONE RISERVATA MISSIONE. Padre Massimiliano Kolbe a Nagasaki. Sotto, Shusaku Endo(Ap/Masahiro Yokota) Il protagonista, Imamiya, insieme con una decina di turisti orientali viaggia per l’Europa e si imbatte nel ricordo del religioso Un “flash back” lo riporta bambino a Nagasaki La descrizione delle miserie umane e i paragoni con Graham Greene: «Lui scrive per gente che sa bene cos’è la spiritualità cattolica, io devo scrivere prima per gente che la ignora»

da Avvenire

Parigi. Addio a padre Maurice Bellet, difese la «fede critica»

Padre Maurice Bellet

Padre Maurice Bellet

Era noto, non solo in Francia, come uno dei più ardenti difensori di una «fede critica», costantemente all’ascolto dei segni dei tempi. Anche per questo, nella propria riflessione, aveva cercato d’integrare le nuove chiavi interpretative novecentesche, a cominciare dalla psicanalisi. Il sacerdote teologo Maurice Bellet è scomparso ieri all’età di 94 anni, presso l’Ospedale Sant’Anna di Parigi, colpito da un ictus.

Decano della teologia francese, aveva conservato fino agli ultimi anni il gusto per la divulgazione, attraverso un gran numero di conferenze. Fra le espressioni del teologo più spesso citate, figura l’invito costante ad «aver fede nella fede»: ovvero, l’esortazione a non limitarsi mai al livello cerebrale di una fede slegata dal vivere quotidiano. Per Bellet, credere è un tipo di «relazione in cui la fede, la speranza e la carità diventano un’unica cosa».

A livello mediatico, il sacerdote (ordinato nel 1949), filosofo e teologo, era noto anche per la denuncia delle derive totalitarie e ideologiche di ogni natura, compresi gli eccessi del capitalismo postbellico, o certe forme d’imperialismo della tecnologia. In proposito, in una lunga intervista di qualche anno fa alla radio cattolica francese Rcf, aveva affermato: «Questi progressi portano in loro un pericolo. E se non abbiamo il coraggio di lottare contro questo pericolo, ciò che è progresso può trasformarsi in catastrofe». Anche per questo, i cristiani dovrebbero sempre dimostrarsi capaci di esercitare un «doppio giudizio», restando in allerta di fronte alle rapide metamorfosi dell’epoca contemporanea: «Essere capaci di apprezzare tutto ciò che si può fare di bello e di grande, ma allo stesso tempo, essere capaci di un giudizio critico che può essere estremamente duro».

Il senso ambivalente delle opportunità inedite e dei rischi esponenziali del nostro tempo si era profondamente impresso nella sensibilità di Bellet fin dagli anni della Seconda guerra mondiale, anche di fronte alla tragedia della Shoah. In proposito, il teologo si diceva spesso amaramente colpito dalla diffusa cecità della Francia dell’epoca bellica di fronte a un simile cataclisma per la civiltà europea.

Sul piano teologico, quella di Bellet è una riflessione spesso segnata dall’urgenza di lanciare ponti fra la fede e le altre dimensioni anche più contingenti. A chi lo interrogava sul miglior atteggiamento dei cristiani verso la secolarizzazione galoppante, amava ripetere per cominciare che «il nostro mondo è fatto di persone» e che i cristiani hanno prima di tutto e sempre il dovere di «amarle nel senso evangelico del termine». Proprio per questo, di fronte a queste persone, un cristiano dovrebbe sempre imporsi «di non giudicarle, né condannarle, escluderle, lavorare alla loro rovina». Anche al cospetto dei peggiori criminali, i cristiani dovrebbero conservare sempre la capacità di «sperare» nella possibilità di un riscatto, operando con atti e parole fecondati sempre dall’ascolto del Vangelo.

L’istinto pastorale e la riflessione teologica di padre Bellet non avevano mai cessato di nutrirsi vicendevolmente, come vasi comunicanti. A lungo docente di filosofia all’Institut catholique di Parigi, il teologo ha lasciato una cinquantina di volumi, affrontando talora pure i temi dell’economia, come nel saggio Invito. Elogio della gratuità e dell’astinenza (Messaggero, 2004), e cimentandosi anche nel romanzo e nella poesia. Fra gli scritti che l’avevano fatto conoscere in Italia negli anni Settanta, si ricordano Un nuovo linguaggio per la catechesi (La Scuola, 1971), accanto a Fede e psicanalisi (Cittadella, 1975).

A partire dagli anni Novanta, le traduzioni si erano accelerate, con opere come La Chiesa: morta o viva?(Cittadella, 1994), L’estasi della vita (Edb, 1996), Vocazione e Libertà (Cittadella, 2008), Dio? Nessuno l’ha mai visto(San Paolo, 2010), accanto ai numerosi titoli pubblicati da Servitium, come Il corpo alla prova o della divina tenerezza (2000), L’amore lacerato (2001), La via (2001), L’incipit o dell’inizio (2001), La quarta ipotesi sul futuro del cristianesimo (2003), L’assassinio della parola. O la prova del dialogo (2009), Il Dio selvaggio. Per una fede critica (2010). Nell’ultimo volume uscito in Italia, Credere nell’uomo (Qiqajon, 2015), il messaggio cristiano, incarnato e fraterno, viene ancora una volta associato alla continua scoperta dell’altro. Quella «gente» da cui Bellet non intendeva separarsi.

avvenire

Pace insieme. Imam di giorno, operatore la notte

Segue i musulmani del Cara a Castelnuovo di Porto, dove «preghiamo insieme ai cristiani». Ha cercato per tanto tempo lavoro, adesso è stato assunto dalla cooperativa Auxilium

La telefonata gli arriva il giorno del suo compleanno, dopo tanto tempo passato a cercare lavoro, «ma a chi ha l’asilo politico quasi nessuno vuole darne», dice. Sulle prime non ci crede. È Angelo chiorazzo, il presidente della cooperativa Auxilium, che però taglia corto: «Bisogna che vieni per un colloquio…». Qualche ora più tardi, Abo Muammad Ihab è assunto.

«Lavoro la notte, facciamo i controlli nella struttura, poi accogliamo anche i nuovi ospiti, facciamo firmare il registro quando entrano nella mensa, insomma tutto quanto serva», spiega Abo Muammad. Viene dalla striscia di Gaza e adesso col suo stipendio può curare sua madre malata e far andare a scuola le sue sorelle.

Continua intanto a essere anche l’imam del cara a Castelnuovo di Porto: «Qui siamo musulmani, cristiani, di altre religioni e veramente viviamo in pace, sempre nel rispetto e nell’amore, senza differenze». Ci vuole tempo, lo sa lui per primo, perciò s’impegna giorno dopo giorno: «Sai, quando noi arriviamo qui da diverse culture, diverse religioni, diversi colori, diverse lingue, è difficile far cambiare una persona in due o tre mesi».

Spersso pregano insieme, durante durante il ramadam i cattolici aiutano gl islamici e lo stesso accade, reciprocamente, ad esempio a Pasqua e Natale. «Tutti possono vedere che il problema non è mai fra le religioni – sottolinea Abo Muammad -. Ma fra i politici». Poi sorride e torna al suo lavoro.

avvenire

Foglietto, Letture e Salmo  III DOMENICA DI PASQUA (ANNO B) 15 Aprile 2018

 III DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA
Colore liturgico: Bianco

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Gesù, venendo nel mondo, aveva come scopo ultimo della sua vita la salvezza dell’umanità. Per questo, oltre che preoccuparsi di operare la salvezza degli uomini per mezzo della sua passione, morte e risurrezione, provvide a far giungere la salvezza a tutti i popoli della terra per mezzo dell’opera della Chiesa. A tale scopo, fin dall’inizio della sua vita pubblica, si scelse dei discepoli perché stessero con lui, perché, vivendo con lui, seguendo i suoi esempi e le sue istruzioni, fossero formati per diventare suoi testimoni qualificati tra le genti. Gesù li formò innanzitutto alla sottomisione alla volontà del Padre, cioè all’amore della croce e allo svuotamento di se stessi (Mt 16,24-25) e li consacrò alla salvezza delle anime (Gv 17,18-20). Apparendo ai suoi apostoli, dopo la sua risurrezione, Gesù completò la formazione e l’insegnamento dato ai suoi discepoli; rivelando loro la verità del Vangelo, dette una pratica dimostrazione della realtà della vita eterna. Aprì in tal modo le loro menti alla comprensione delle Scritture e dei suoi insegnamenti, per renderli suoi testimoni autentici (cf. At 2,21-22), perché per mezzo loro la sua salvezza arrivasse a tutti gli uomini. Ogni cristiano oggi è chiamato a diventare un testimone autentico di Gesù, rivivendo in se stesso il mistero pasquale. La sua formazione cristiana è completa quando la sua vita si apre generosamente all’opera di evangelizzazione e di salvezza dei fratelli.