Idee. «Prova» o «tentazione»? il Padre nostro «tradotto» da Simone Weil

Esce in Francia il commento della pensatrice di origine ebree: la sua intuizione del testo greco anticipa il dibattito sulla nuova traduzione

Un ritratto di Simone Weil

Un ritratto di Simone Weil

In una delle recenti Udienze del mercoledì, papa Francesco ha ricordato come il Padre Nostro «non è una delle tante preghiere cristiane, ma la preghiera dei figli di Dio», che «fa risuonare in noi quei medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù». E ha aggiunto: «Mentre ci apre il cuore a Dio, il Padre Nostro ci dispone anche all’amore fraterno». Qualche mese fa sempre il Papa, intervistato da don Marco Pozza su Tv2000, aveva poi invocato una nuova traduzione per il penultimo versetto, che in Italia durante la Messa suona ancora «Non ci indurre in tentazione» ma che non rispecchia il vero senso delle parole di Gesù. Ha osservato Francesco: «Non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito».

In effetti nelle chiese francesi dal dicembre scorso, invece del precedente «Et ne nous soumets pas à la tentation» si recita «Et ne nous laisse pas entrer en tentation».

Ma anche in Italia diversi anni fa fu proposto da parte dei vescovi di cambiare da «non indurci in tentazione» a «non abbandonarci alla tentazione», una scelta recepita nella nuova traduzione della Bibbia e nel Lezionario, ma non ancora pervenuta nelle celebrazioni liturgiche, anche se largamente praticata in diverse parrocchie, perché in attesa del via libera vaticano.

Visto il dibattito in corso, viene più che mai opportuna la pubblicazione di un libretto di Simone Weil, Le Notre Père, appena uscito in Francia per le edizioni Bayard (pagine 78, euro 13,90). La pensatrice francese, oltre a commentare la preghiera, provvide lei stessa a una traduzione e, per quanto riguarda l’ultima domanda, fece questa ipotesi: «Et ne nous jette pas dans l’épreuve» (E non gettarci nella prova).

Un tentativo, il suo, niente affatto maldestro, data la sua conoscenza perfetta della lingua greca. È noto che Simone da un certo punto in poi della sua vita recitava quotidianamente il Padre Nostro in greco. Lo spiega lei stessa in una lettera inviata pochi mesi prima della sua morte, nel 1942, al domenicano Joseph-Marie Perrin: «L’estate scorsa, studiando il greco con Thibon, ripetevamo parola per parola il Pater in greco e ci siamo ripromessi di impararlo a memoria. Da allora, mi sono imposta come unica pratica di recitarlo una volta ogni mattina, con un’attenzione assoluta».

Dunque è a partire dall’estate del 1941, mentre si trova nelle campagne di Saint-Marcel d’Ardèche, ospite del filosofo e contadino Gustave Thibon, che la preghiera comincia a rivestire un ruolo fondamentale nell’esistenza della Weil. Lasciata Parigi con i suoi genitori nel giugno 1940, alla vigilia dell’ingresso dei nazisti nella capitale, giunge a Marsiglia verso metà settembre. Qui fa amicizia con padre Perrin, molto attivo nella Resistenza, con il quale instaura un dialogo a tutto campo sul cristianesimo. Poi Perrin la presenta a Thibon, che l’assume come lavoratrice agricola nella sua fattoria.

Per la filosofa, che già aveva lavorato come operaia alla Renault, sono forse gli anni più felici, trascorsi fra la vendemmia, la meditazione e la scrittura.

Il suo commento al Padre Nostro è del maggio 1942: due mesi dopo sarebbe volata a New York dove avrebbe conosciuto un altro religioso, padre Marie-Alain Couturier. Nel 1943 il ritorno in Europa, precisamente a Londra, per mettersi al servizio di France-libre. Lì avrebbe trovato la morte il 24 agosto in un sanatorio a causa della tubercolosi.

Il libretto di Simone Weil, edito nel 1950 come nota a margine della corrispondenza con padre Perrin (in Italia uscito prima da Rusconi poi da Adelphi col titolo Attesa di Dio), è una vera e propria meditazione dei versetti della preghiera così come appaiono nel Vangelo di Luca e merita davvero una pubblicazione a sé stante. Nelle sue considerazioni, riemerge come detto il suo grande amore per la civiltà greca, a suo dire l’unica assieme a quella cristiana ad aver dimostrato una compassione verso i deboli. Assai diverso il suo giudizio sull’impero romano, ritenuto il primo sistema totalitario della Storia, tant’è vero che lo paragona al Terzo Reich, che in quegli anni aveva sottomesso quasi tutta l’Europa.

Di qui la sua scelta di recitare il Pater in greco e non in latino. Come scrive François Dupuigrenet Desroussilles nella prefazione, «la preghiera di Simone Weil, nel 1942, non era quella di una cattolica perché la Chiesa non le sembrava all’altezza del compito richiesto da un’epoca tragica».

Il Padre Nostro in catalano nella Sagrada Familia

Il Padre Nostro in catalano nella Sagrada Familia

A suo parere, i cristiani avrebbero dovuto abbandonare l’appartenenza a un’istituzione terrestre per concepire la Chiesa come «un ricettacolo universale»: la sua preghiera è quella di una Chiesa invisibile e non confessionale. La filosofa aveva accolto la certezza dell’esistenza di Dio durante un suo viaggio in Portogallo nel 1935, certezza poi confermata ad Assisi, dove nella basilica di Santa Maria degli Angeli si era inginocchiata per la prima volta. Nel 1938 poi, nell’abbazia di Solesmes, era stata «rapita da Gesù».

Ma fino alla morte sarebbe rimasta sulla soglia della fede. Il Padre Nostro commentato da Simone Weil è una sorta di fenomenologia del desiderio umano. Così la domanda di santificazione del nome di Dio va interpretata come una chiave per sfuggire dalla prigione di sé alla luce della mediazione di Cristo, mentre la seconda domanda («venga il tuo regno») lascia trasparire un grido di tutto l’essere, paragonabile al grido di chi sta morendo di sete.

Desiderare poi che la volontà di Dio sia compiuta per lei non corrisponde assolutamente a un sentimento di rassegnazione, ma mobilita l’energia dell’essere umano che vuole andare oltre se stesso. Ancora, la Weil esclude di chiedere solo il pane di quaggiù, perché ciò significa restare intrappolati nella dittatura della necessità: per questo la preghiera si conclude chiedendo di poter sfuggire alla prova (come quella che dovette sopportare Giobbe) e con l’umile supplica di essere protetti dal male che regna e domina il mondo.

Mentre recitava il Padre Nostro durante il lavoro dei campi, Simone Weil esprimeva tutta l’audacia di cui era capace e il suo sentimento di condivisione del dolore degli uomini che soffrivano per l’orrore del nazismo. «Questa preghiera – scrive riassumendo il senso della sua riflessione – contiene tutte le domande possibili. Lo Spirito soffia dove vuole, non si può che invocarlo. Rivolgergli un appello e un grido».

da Avvenire

Filosofia. Carlo Sini: «La verità? Sta sempre nella relazione»

Il filosofo Carlo Sini

Il filosofo Carlo Sini

Tra un paio di giorni il piccolo supermercato vicino alla casa milanese di Carlo Sini chiuderà i battenti. «Per fare la spesa dovrò fare un pezzo di strada in più – commenta il filosofo –. Nuove abitudini, nuovi incontri. Un nuovo inizio, in un certo senso. Pensare, del resto, significa sempre iniziare da capo, a partire dalle occasioni che la vita ci offre».

Negli ultimi tempi Sini non fa altro: inizia, in continuazione. Classe 1933, a lungo docente di Filosofia teoretica alla Statale, di recente ha avviato le attività di Mechrí, un laboratorio di studi transdisciplinari i cui materiali sono pubblicati da Jaca Book in un’apposita collana, “Mappe del pensiero”: il primo volume, incentrato sul binomioVita, conoscenza, (a cura di Florinda Cambria, pagine 352, euro 28,00), viene presentato oggi alle 18,30 presso la Libreria Città Possibile in via Frua 11, a Milano.

Non si tratta di un saggio unitario, ma di una raccolta di contributi variamente ispirati alle originali tavole concettuali elaborate dallo stesso Sini. «L’obiettivo – insiste – è lo stesso dei miei ultimi libri: far uscire la filosofia dall’isolamento specialistico in cui si è confinata e restituirla alla sua funzione originaria». L’unità dei saperi, niente meno. «Certo – sottolinea Sini –, altrimenti la filosofia non sarebbe una disciplina, ma soltanto una carriera accademica».

È uno sviluppo che, per quanto coerente rispetto alla riflessione precedente di Sini, ha subìto un’accelerazione nel 2016 con la comparsa di Inizio, la cui «conseguenza», come la definisce l’autore, è ora rappresentata daTrittico (pagine 80, euro 12,00: l’editore è sempre Jaca Book, che ha in catalogo l’opera omnia di Sini). Questa volta il linguaggio dell’argomentazione sembra cedere il passo al racconto, con una serie di apologhi dal vero che hanno per protagonisti Giovanni Gentile e Benito Mussolini, Richard Wagner e Francesco De Sanctis, senza dimenticare il padre della semiotica, Charles Sanders Peirce, che negli ultimi anni della sua esistenza si mantiene compilando voci di enciclopedia.

«Ho cominciato a ragionare seriamente sull’inizio quando mi sono accorto di essere vicino alla fine del mio cammino – ammette sorridendo Sini – e per me è stato naturale spostarmi sul terreno della biografia, che è sempre in qualche misura un’autobiografia. Riusciamo a dire degli altri ciò che abbiamo appreso di noi stessi. Di questo, a mio avviso, occorre avere consapevolezza: del potere invisibile che le esperienze di vita e, più ancora, l’opinione comune esercitano sulle nostre convinzioni, sul nostro modo di pensare e di esprimerci. Il fatto strano, invece, è che oggi la filosofia non mette affatto in questione quella che i greci indicavano con il termine didoxa: il sentire comune, appunto, sul cui ruolo determinante si erano già concentrate le riflessioni dell’ultimo Husserl. Una trascuratezza che ha spesso sviluppi paradossali, come quando ci si intestardisce nel sostenere che il razionalismo, così come è stata codificato dall’Illuminismo francese, non sia un momento della storia d’Europa, ma la risposta definitiva a ogni domanda dell’umanità».

Il “potere invisibile” al quale Sini fa riferimento non va inteso come un’entità occulta e malevola. «Al contrario – ribadisce il filosofo – è il potere della realtà che si trasforma davanti a noi in un processo non prevedibile e non dominabile, ma che di solito è sovrastato dalla presunzione di un sapere che dovrebbe prescinderne. E non si capisce come mai, fra tutte le esperienze umane, solo questa del pensiero dovrebbe essere immune dalla dimensione del discorso, che ci caratterizza come specie fin dai tempi in cui i nostri antenati lasciarono l’Africa».

Un altro elemento fondamentale, ricorda Sini, è rappresentato dalla cognizione della morte. «Vico e Foscolo ci avevano già avvertiti: dove si trova una tomba, lì c’è la civiltà, che presuppone la comunità tra i vivi e i morti. È l’orizzonte della celebrazione e del sacro ed è la comprensione di come fine e inizio siano indissolubilmente legati tra loro. Il sapere, di per sé, segna di norma la fine di un’avventura, collocandosi nell’istante in cui Orfeo si volta per guardare Euridice, la vede e, vedendola, la perde per sempre».

A dispetto delle apparenze, quella di Sini non è una prospettiva rinunciataria, né tanto meno relativista in senso tradizionale. «Quando affermo che la verità è “relativamente assoluta” intendo dire che la ricerca della verità, alla quale non possiamo rinunciare, avviene sempre all’interno di una relazione. E la verità, essendo a sua volta dinamica, suscita in noi un dovere morale, un’interrogazione ininterrotta che non può mai accontentarsi di un un sapere particolare. Stephen Hawking, per esempio, era persuaso che la fisica potesse risolvere ogni problema, ma non si rendeva conto che questa stessa pretesa esulava del tutto dalle competenze della fisica. La ricerca della verità è per sua natura simbolica, perché si realizza nel tentativo di ricomporre un’unità che non è mai astratta, ma si manifesta nell’atto stesso della ricomposizione. Siamo sempre alla fine di qualcosa, per questo non possiamo fare a meno di iniziare».

Pur non muovendo da un’esplicita istanza religiosa, la proposta di Sini si confronta necessariamente con la fede. «La mia impressione – dice – è che per il credente l’itinerario della mente sia sempre in Deo, e cioè nel corpo stesso di Dio, anziché in Deum, come si ripete abitualmente con un’espressione fin troppo umana, che riduce Dio a un oggetto remoto e trascendente, da conoscere mediante una sorta di attraversamento. Il cristianesimo, anche in questo caso, mette a disposizione l’intuizione formidabile dell’Incarnazione, in virtù della quale Cristo diventa un concreto modello di vita. Dio si consegna all’uomo con quella formula abissale dei Vangeli, il “tu l’hai detto” che è il rovesciamento della domanda di Pilato su che cosa sia la verità. Gesù non risponde con una nozione astratta, ma istituisce una relazione. Aprendo la strada, una volta di più, a un nuovo inizio».

Pasqua di Risurrezione Anno B. Il sepolcro vuoto, annuncio di una vita indistruttibile

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. […]

Una tomba, un giardino, una casa e un andare e venire di donne e di uomini. Maria di Magdala esce di casa quando è ancora notte, buio nel cielo e buio nel cuore. Non ha niente tra le mani, solo il suo amore che si ribella all’assenza di Gesù: «Amare è dire: tu non morirai!» (G. Marcel). È pieno di risonanze del Cantico dei Cantici il Vangelo del mattino di Pasqua: ci sono il giardino, la notte e l’alba, la ricerca dell’amore perduto, c’è la corsa, le lacrime, e il nome pronunciato come soltanto chi ama sa fare.
Maddalena ha un gran coraggio. Quell’uomo amato, che sapeva di cielo, che aveva spalancato per lei orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Tutto finito. Ma perché Maria si reca al sepolcro? «Perché si avvicinò alla tomba, pur essendo una donna, mentre ebbero paura gli uomini? Perché lei gli apparteneva e il suo cuore era presso di lui. Dove era lui, era anche il cuore di lei. Perciò non aveva paura» (Meister Eckhart).
E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, nel fresco dell’alba. E fuori è primavera. Il sepolcro è aperto come il guscio di un seme. E vuoto.
Maria di Magdala corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo. È sempre lei, la donna forte accanto alla croce, stordita in faccia al sepolcro vuoto, sempre nominata per prima negli elenchi delle donne che seguono Gesù, è lei che rimette in moto il racconto della fede.
Sugli apostoli era piombato un macigno. Il dolore a unghiate aveva scavato il cuore. Ma loro hanno comunque fatto una scelta intelligente: stanno insieme, non si separano. Uno da solo può essere travolto, insieme invece si fa argine, insieme si può correre e arrivare più lontano e più in profondità: uscirono allora Simon Pietro e l’altro discepolo e correvano insieme tutti e due…
Insieme arrivano e vedono: manca un corpo alla contabilità della morte, manca un ucciso ai conti della violenza. I loro conti sono in perdita. Quell’assenza richiede che la nostra vista si affini, chiede di vedere in profondità. «Non è qui» dice un angelo alle donne. Che bello questo «non è qui». Lui è, ma non qui; lui è, ma va cercato fuori, altrove; è in giro per le strade, è in mezzo ai viventi; è «colui che vive», è un Dio da sorprendere nella vita. È dovunque, eccetto che fra le cose morte. È dentro i sogni di bellezza, in ogni scelta per un più grande amore, è dentro l’atto di generare, nei gesti di pace, negli abbracci degli amanti, nella fame di giustizia, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente. E chi vive una vita come la sua ha in dono la sua stessa vita indistruttibile.
(Letture: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3,1-4; Giovanni 20,1-9)

di Ermes Ronchi – Avvenire

La festa in pericolo. Pasqua al lavoro in un quinto di negozi e super

L'outlet di Serravalle sarà aperto anche a Pasqua ma con orario ridotto

L’outlet di Serravalle sarà aperto anche a Pasqua ma con orario ridotto

Contrastare la logica del lavoro che non conosce soste e non riconosce il tempo della festa e della famiglia. Come da copione in occasione delle festività si riapre il dibattito sull’apertura ‘continuativa’ di centri commerciali, outlet e supermercati frutto della liberalizzazione varata nel 2012 dal governo Monti e diventata anno dopo anno più evidente con negozi e supermercati aperti anche nelle principali festività religiose come Natale e Pasqua. E mentre i sindacati protestano, la grande distribuzione insiste con le aperture in nome di una ripresa dei consumi e dell’occupazione. L’anno scorso a far scoppiare la protesta era stato l’outlet Serravalle, il più grande d’Europa, di proprietà della inglese McArthur Glen, che anche quest’anno conferma l’apertura a Pasqua sia pure con orario ridotto: negozi operativi per gli outlet Fidenza, Mondovicino e Torino. Aperto solo per il cinema e la ristorazione l’Oriocenter dopo le polemiche sull’apertura natalizia (il 25 e 26 dicembre) che è stata poi risolta appunto con una soluzione intermedia che ha coinvolto solo l’intrattenimento e non i negozi.

Di fatto però, secondo i dati di Federdistribuzione, la distribuzione organizzata resterà aperta. A conti fatti saracinesche alzate per il 19% degli aderenti. In particolare il 25% dei negozi di alimentari (il 13% con orario ridotto) e il 7% dei non alimentari. Per Pasquetta le aperture complessive saranno invece il 60% (il 68% per il settore alimentare e il 44% per l’abbigliamento). Una scelta obbligata secondo Federdistribuzione per far fronte all’avanzata dell’e-commerce, «una vetrina aperta 7 giorni su 7 e 24 ore su 24», ma anche alla profonda vocazione turistica del nostro Paese. «Le imprese associate a Federdistribuzione – si legge in una nota – non vogliono aperture indiscriminate, ma attuano scelte orientate dal buon senso. Nella giornata di Pasqua infatti sarà aperta solo una piccola fetta di negozi non alimentari (il 7%) e solo il 12% di quelli alimentari con orario continuato, soprattutto nelle città d’arte e turistiche ». Un servizio ai consumatori insomma, «le cui abitudini di acquisto e consumo stanno cambiando con grande rapidità». «I consumi si stanno riprendendo – afferma Mario Resca, presidente di Confimprese – con un tasso di crescita dei fatturati della grande distribuzione a febbraio del +1,4%. I turisti vengono a visitare le nostre città da tutto il mondo, ma noi non abbiamo nessuna politica sul turismo». Per Confimprese si tratta dell’«ennesimo controsenso di un Paese che ha dato il via al libero mercato, ma non si adegua alle esigenze del retail, che crea occupazione e fa girare l’economia».

Intanto si allarga la mobilitazione dei sindacati di categoria: alle tre Regioni che già si erano attivate nei giorni scorsi, Lazio, Toscana ed Emilia Romagna, ieri si sono aggiunte la Puglia e il Veneto: la prima ha proclamato due giorni di sciopero per l’1 e il 2 aprile la seconda ha aperto un tavolo di confronto con la Regione. Contrastare concretamente le aperture festive però sembra un miraggio: l’intenzione di Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs è quella di sollevare il problema e chiedere che ci sia per i lavoratori da una parte il criterio della volontarietà dall’altra una maggiore retribuzione rispetto alle ‘semplici’ domeniche. Il segretario generale della Fisascat Pierangelo Raineri ha ribadito la posizione della categoria sul tema del lavoro festivo e sulle liberalizzazioni che «non hanno sortito l’effetto sperato sugli aumenti di fatturato delle imprese» perché «non è cresciuto il reddito dei consumatori e dei lavoratori dipendenti sui quali grava una tassazione tra le più alte in Europa». Per uscire da questa situazione di impasse serve una concertazione tra enti locali e sindacati sul calendario delle aperture commerciali e una contrattazione decentrata per garantire la volontarietà della prestazione festiva e una retribuzione adeguata. Il criterio della volontarietà è stato adottato da alcune catene di supermercati, ad esempio da Esselunga, mentre altre come Carrefour che hanno adottato la logica delle aperture non-stop stanno tornando sui propri passi perché i risultati in termini di incassi nelle ore notturne non sono soddisfacenti. Il problema di fondo insomma è che allungare gli orari e le giornate di apertura non corrisponde ad una maggiore spesa da parte degli consumatori ma solo ad una ‘diluizione’ degli acquisti. Il tutto sulla pelle dei lavoratori, soprattutto soprattutto quelli più giovani e con contratti atipici, che spesso non si vedono riconosciuta una retribuzione aggiuntiva per le giornate festive che sono già previste dal contratto.

Avvenire

Quasi un ragazzo su 10 che frequenta le nostre scuole è di cittadinanza non italiana

Quasi un ragazzo su 10 che frequenta le nostre scuole è di cittadinanza non italiana. Nell’anno scolastico 2016/2017 gli studenti e le studentesse stranieri presenti nelle scuole italiane sono stati circa 826mila: circa 11mila in più rispetto al precedente. La grande maggioranza di loro è nato in Italia, un picco che arriva addirittura all’85,3% per quanto riguarda le scuole dell’Infanzia. Nel Paese in cui lo Ius Soli si arena in Parlamento e l’immigrazione diventa tema di facili bottini elettorali, avanza una comunità di cittadini che diventa giorno dopo giorno, “de facto”, plurilingue e pluriculturale. Un clima che, più che dalle autorità, sembra essere interpretato dalle diverse tradizioni culturali di questo Paese. Dalle associazioni cattoliche, come Caritas o comunità di Sant’Egidio alle associazioni militanti come le “Case del Popolo” fino ai Centri sociali e alle associazioni laiche: sono molte ed eterogenee le realtà del volontariato che svolgono una funzione sussidiaria essenziale nell’insegnamento della lingua italiana. Nel video interattivo abbiamo raccontato il punto di vista di tre associazioni del panorama romano con riferimenti culturali diversi, ma unite dalla stessa volontà di creare ponti culturali tra lingue e culture differenti.

Serie storica degli alunni con cittadinanza non italiana

Se l’iscrizione nelle scuole dell’infanzia coinvolge quasi tutti i bambini italiani (96-97%), la stessa diffusione è molta più bassa per quanto riguarda gli alunni di origine straniera (75%). Una dinamica in cui le famiglie giocano un ruolo fondamentale: è molto probabile che, ad adulti poco integrati o con scarsa conoscenza della lingua italiana, facciano da contraltare mancate iscrizioni o tassi molto alti di abbandono scolastico. “C’è una relazione diretta tra la bassa scolarizzazione dei genitori e le difficoltà scolastiche delle nuove generazioni” sottolinea Paola Piva, responsabile della Rete Scuolemigranti, che riunisce 92 associazioni e 150 sedi in tutte le provincie del Lazio, comprese quelle mostrate nel nostro video interattivo, rete che ha anche lanciato un appello per la formazione dei nuovi cittadini. In questo contesto il lavoro delle associazioni di volontariato e operatori del Terzo Settore è essenziale, soprattutto per il lavoro sul territorio, il coinvolgimento degli stranieri nei corsi esistenti e l’alfabetizzazione degli adulti.

Alunni stranieri nell’anno scolastico 2016/2017

Un impegno spesso provvidenziale, ma che potrebbe non essere sufficiente in mancanza di un’azione strutturale da parte dello stato: “È innegabile che i volontari suppliscono la carenza di fondi da parte dei comuni e degli enti locali. Tampona, è utile, ma non supplisce completamente le mancanze e i risultati a lungo termine non sono misurabili.Il volontariato come rete sociale può avere un senso, ma ormai l’arrivo di migranti non può più essere affrontato in modo emergenziale” chiariscono i responsabili del coordinamento Ri.N.P.it, un’associazione che si batte per il riconoscimento nazionale della professionalità degli insegnanti di italiano L2/lS.

LINGUA ITALIANA E STRANIERI: COME FUNZIONA L’INSEGNAMENTO

Dagli adulti alle nuove generazioni, ecco com’è strutturato l’insegnamento della nostra lingua agli stranieri oggi nel nostro Paese.

LA SCUOLA: UN LABORATORIO SPESSO SENZA RISORSE

Secondo il Ministero dell’Istruzione, per gli alunni stranieri non italofoni,dovrebbero essere previste circa 8-10 ore settimanali, espressamente dedicate all’insegnamento dell’italiano L2 (circa 2 ore al giorno), per una durata di almeno 3-4 mesi. Indicazioni che si scontrano talvolta con problemi di ordine pratico: “La scuola pubblica dovrebbe avere sempre laboratori linguistici per bambini o ragazzi stranieri, lo chiede anche il MIUR nelle linee guida, ma a volte mancano le risorse e i presidi hanno bisogno di personale aggiuntivo, insegnanti formati ad hoc per questo tipo di insegnamento e di mediazione culturale” spiega Paola Piva, del coordinamento Scuolemigranti. Le attività di insegnamento sono spesso supplite da progetti formativi di durata annuale, con risultati ed esperienze che variano molto a seconda dei diversi istituti scolastici. Quel che sembra mancare da parte dello Stato è da un lato un’azione strutturale e coordinata, dall’altro del personale qualificato, ovvero una quantità sufficiente di insegnanti formati espressamente nell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua. Eppure i professionisti non mancherebbero: “In questo settore ci sono professionisti formati da più di 30 anni dall’Università italiana, gli studenti si trovano spesso a studiare sui nostri testi” sottolineano gli attivisti del coordinamento Ri.N.P.it. Nel 2016 è stata istituita una classe di concorso per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri (A23), che, sempre secondo gli attivisti, potrebbe non risultare adeguata alla domanda complessiva: “Ad oggi le cattedre di A23 attivate nella scuola pubblica sono poche e relegate nel potenziamento. Il concorsoprevedeva circa 500 posti sull’organico di potenziamento in tutta Italia (inclusi i CPIA), posti che noi riteniamo insufficienti, tenendo conto che secondo dati istat, si consideri che nel 2016 la presenza di studenti stranieri di I e II generazione era di circa 800.000 alunni” sottolineano gli attivisti del coordinamento Ri.N.P.it.

L’IMPORTANZA DEL TERZO SETTORE

L’insegnamento dell’italiano agli adulti è disciplinato in Italia, a livello statale, dai CPIA (centri provinciali per l’insegnamento degli adulti)che prevedono corsi sul territorio. Le attività di questi centri sono funzionali, per il riconoscimento di alcuni titoli di studio ottenuti nei paesi di origine e per l’attestato di conoscenza di lingua italiana A2, indispensabile all’ottenimento del permesso per soggiornanti di lungo periodo. Le problematiche sono spesso speculari a quelle che si registrano nell’istruzione di bambini e ragazzi nelle scuole secondarie e primarie. “I CPIA funzionano a volte anche bene, ma come le scuole primarie e secondarie, hanno problemi di organico, a volte poche sedi e non di rado funzionano in modo ‘scolastico’. Non è detto che gli orari dei corsi coincidano con gli orari di vita e di lavoro delle persone a cui sono rivolti” spiega Paola Piva, della rete Scuolemigranti del Lazio. Molti addetti ai lavori lamentano inoltre, l’eterogeneità dei corsi, dove si confrontano studenti con problematiche molto diverse: nel caso di adulti analfabeti, ad esempio, si dovrebbe ricorrere a strategie ad hoc e a molte ore di insegnamento (dalle 800 in su) per apprendere i fondamenti della letto-scrittura.Quello che sembra mancare e che rende spesso indispensabile la presenza di enti terzi del Terzo settore, è un piano e una programmazione di lungo respiro, centrata sui bisogni degli studenti:“Bisognerebbe pensare a rendere strutturata e coordinata l’offerta in modo tale da pensare a un percorso di lungo tempo che permetta realmente di imparare la lingua” chiariscono i responsabili del coordinamento Ri.N.P.it.

PROVE DI RIORGANIZZAZIONE E L’ESEMPIO TEDESCO

Per legge ogni rifugiato o richiedente asilo, inserito nella rete SPRAR deve avere almeno 10 ore di lezioni di lingua italiana a settimana fornite generalmente dai responsabili del progetto di accoglienza in collaborazione con cooperative o associazioni di volontariato. Il numero di ore risulta spesso esiguo e non di rado gli studenti si rivolgono anche ad altri centri, gestiti spesso da associazioni esterne. Inoltre, non tutti i comuni italiani aderiscono alla rete SPRAR (Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati realizzato in collaborazione con gli enti locali), molti richiedenti asilo vengono quindi accolti nei cosiddetti Centri di Accoglienza straordinaria. Nell’autunno del 2017 il Ministero dell’interno ha varato il primo “Piano nazionale per l’accoglienza dei richiedenti asilo”, in cui anche la formazione linguistica diventa una priorità. L’obiettivo è di oltrepassare la fase emergenziale e cominciare a intervenire strutturalmente, come già avviene altrove. In Germania nel corso dell’accoglienza di un milione di siriani nel 2015 sono stati assunti7mila docenti specializzati in tedesco come seconda lingua. In Francia esiste un programma scolastico che segue gli stranieri, mentre nel Regno Unito, per i rifugiati è previsto un test B1 e dei corsi obbligatori.

A cura di Francesco Collina, Daniele Tempera – Visual Lab

Nobel per la pace. Malala è tornata in Pakistan: «Lo sognavo da 5 anni»

Malala Yousafzai tornata per la prima volta in Pakistan dopo l'attentato che subì da un commando dei taleban (Ansa)

Malala Yousafzai tornata per la prima volta in Pakistan dopo l’attentato che subì da un commando dei taleban (Ansa)

La giovane premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai è tornata in Pakistan, per la prima volta, dopo che sei anni fa fu gravemente ferita in un attentato rivendicato dai talebani.

In assenza di un annuncio ufficiale per ragioni di sicurezza, diverse agenzie di stampa hanno comunque confermato che Malala, i suoi familiari più stretti e i responsabili della Fondazione da lei creata per la promozione dell’istruzione delle bambine sono giunti nella capitale pachistana nella notte tra mercoledì e giovedì con un volo proveniente da Dubai.
Giovedì 29 marzo, Malala, la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace che oggi ha 20 anni, e che resterà in Pakistan fino al 2 aprile, è stata ricevuta dal primo ministro Shahid Khaqan Abbasi e ha discusso con i responsabili governativi le prospettive di promuovere l’istruzione, soprattutto delle giovani pachistane, nelle aree più arretrate del Paese.

“Ancora non riesco a credere di essere tornata in Pakistan, è un sogno che si avvera”: sono state le parole pronunciate dalla premio Nobel per la Pace, Malala Yousafzai, incontrando il primo ministro pakistano, Shahid Khaqan Abbasi.

Non è chiaro invece se Malala visiterà la sua città natale, Mingora nella Valle dello Swat, dove quando aveva 14 anni fu attaccata da un commando dei taleban che la ferirono sfigurandole il viso quale punizione per la sua attività di blogger in difesa dell’istruzione delle bambine sulla pagina in lingua urdu della Bbc. Fu ferita da un colpo di arma da fuoco alla testa, nell’ottobre 2012, proprio mentre viaggiava in autobus da scuola al suo villaggio nella valle dello Swat. Fu poi trasportata nella città inglese di Birmingham per essere curata e vi è rimasta con la famiglia, proseguendo gli studi e la sua campagna a livello mondiale per la scolarizzazione delle bambine.

Nel 2014, a 17 anni, le è stato attribuito il premio Nobel per la Pace. Mentre nel 2017 la ventenne ha ottenuto un posto alla prestigiosa università di Oxford.

da Avvenire

La Settimana Santa: giovedì. Don Tonino Bello e la Chiesa del grembiule

L’umile servizio di Gesù ai discepoli ha sollecitato molti pittori. Nell’immagine il dipinto “Lavanda dei piedi” di Pietro Lorenzetti. Si tratta di un affresco che fa parte delle Storie della Passione di Cristo nel transetto sinistro della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il ciclo è databile 1310-1319.

L’umile servizio di Gesù ai discepoli ha sollecitato molti pittori. Nell’immagine il dipinto “Lavanda dei piedi” di Pietro Lorenzetti. Si tratta di un affresco che fa parte delle Storie della Passione di Cristo nel transetto sinistro della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il ciclo è databile 1310-1319.

Nella Messa “in Coena Domini” del Giovedì Santo che apre il Triduo Pasquale, il Vangelo (Giovanni 13, 1-15) descrive Gesù nell’umile gesto di lavare i piedi ai suoi discepoli. «(…) Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!” Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti” Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete puri”…».

Gli uni i piedi degli altri

Si tratta certamente di uno dei passi più noti del Vangelo. Nel segno di quella Chiesa del servizio, “del grembiule”, richiamata da tanti maestri dello spirito, e indicata come dovere d’amore da papa Francesco. Nello scritto “Gli uni i piedi degli altri” don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta cui il 20 aprile nel 25° della morte il Pontefice renderà omaggio, sottolinea: «(…) Brocca, catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili semplicemente ornamentali. Che cosa significa tutto questo per noi? Che, ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri, e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli…. Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: “voi siete mondi” aveva detto Gesù. Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della purezza, quanto da chi ha vissuto le tribolazioni del servizio ….»).

da Avvenire

Tv2000 e Rai. Come seguire le celebrazioni di Pasqua con papa Francesco in tv

(Archivio Ansa)

(Archivio Ansa)

Per chi non potrà essere a Roma è possibile seguire in tv la Settimana Santa, le celebrazioni in diretta con papa Francesco, ma anche film e documentari che arricchiscono lo speciale per Pasqua che viene messo in onda daTv2000. Anche su RaiUno vengono trasmesse in diretta alcune delle celebrazioni, in particolare la Via Crucis dal Colosseo venerdì sera dalle ore 21 e la Messa della Domenica di Pasqua presieduta da papa Francesco, sempre su RaiUno dalle ore 10.

L’emittente della Cei, in collaborazione con il Vatican Media, trasmette le dirette delle celebrazioni con papa Francesco: giovedì 29 dalle ore 9.30 la Messa del Crisma e dalle 16.30 Messa in Coena Domini dal carcere di Regina Coeli, introdotta, a partire dalle 15.20, dallo speciale del ‘Diario di Papa Francesco’ condotto da Gennaro Ferrara, con ospiti il professore di religione Andrea Monda e i suoi alunni del liceo classico Pilo Albertelli, che quest’anno hanno scritto le mediazioni della tradizionale Via Crucis del venerdì santo al Colosseo. Si prosegue venerdì 30 dalle ore 16 con lo speciale del ‘Diario di Papa Francesco’ sulla celebrazione della Passione, in diretta dalle 17, e dalle 21.15 la Via Crucis; sabato 31 dalle ore 20.30 in diretta la Veglia pasquale; domenica 1 aprile dalle 10 la Messa di Pasqua e la benedizione Urbi et Orbi; lunedì 2 aprile dalle ore 12 la recita della preghieraRegina Coeli da piazza San Pietro. Giovedì 29 marzo dalle ore 20, in diretta dalla Basilica del Getsemani in Terra Santa la veglia di preghiera ‘Con Gesù nell’orto degli ulivi’, presieduta dal custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa.

Il programma delle celebrazioni con Papa Francesco su Tv2000

Giovedì 29 marzo
9.30 Messa del Crisma
16.30 Messa In Coena Domini – dal carcere di Regina Coeli

Venerdì 30 marzo
17.00 Celebrazione della Passione
21.15 Via Crucis dal Colosseo

Sabato 31 marzo
20.30 Veglia Pasquale

Domenica 1 aprile
10.00 Messa di Pasqua e benedizione ‘Urbi et Orbi’

Lunedì 2 aprile
12.00 Recita della preghiera Regina Coeli da piazza San Pietro

 

Tra i film della Settimana Santa in onda su Tv2000: ‘Gesù di Nazareth’ di Franco Zeffirelli, trasmesso in quattro puntate tutte le sere da mercoledì 28 marzo a sabato 31 marzo, e ‘La tunica’ di Henry Koster con Richard Burton, domenica 1 aprile ore 21.15. La programmazione speciale dell’emittente Cei prevede inoltre tra i documentari: lo speciale ‘La lezione del Padre Nostro’, martedì 27 marzo ore 21.05, doc di Andrea Salvadore sulle parole di papa Francesco all’udienza privata con i volti noti che sono intervenuti nel programma ‘Padre Nostro’ condotto da don Marco Pozza trasmesso da Tv2000 nei mesi scorsi e che ha visto protagonista proprio il Pontefice; ‘Missione – I poveri nutrono la terra, la terra nutre i poveri’, martedì 27 ore 22.45, documentario di Pasquale Scimeca sulla “Missione di Speranza e Carità” nata nel 1991 sotto i portici della stazione centrale di Palermo ad opera di fratel Biagio Conte, missionario laico; ‘Il Vangelo nell’arte: La crocifissione’, venerdì 30 marzo ore 20.45, a cura di Luca Criscenti che racconta come gli artisti nei secoli abbiano interpretato le sacre scritture attraverso la propria arte; ‘Dentro la Sindone’, sabato 31 marzo ore 13.20, documentario sulla storia del lino sacro a cura di Alessandra Gigante e Fabio Andriola.

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