ESTERO Morta in un’esplosione d’auto la figlia di Dugin, l’ideologo di Putin

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AGI – Darya Dugin, figlia del politologo e filosofo russo Alexsandr Dugin, è morta per l’esplosione dell’automobile di cui era alla guida, nei pressi del villaggio di Bolshiye Vyazemy nella regione di Mosca.

Le autorità russe hanno aperto un procedimento penale “per omicidio”, lo riferiscono le agenzie russe citando il Comitato investigativo, che ipotizza la presenza di “un ordigno esplosivo” piazzato sull’automobile, una Toyota Land Cruise di proprietà del padre. “Un ordigno sarebbe esploso, dopo di che il Suv ha preso fuoco”, si legge nel rapporto degli inquirenti, riportato da Ria Novosti.

“La persona al volante è morta sul colpo”, continua la ricostruzione. Per l’accaduto, il capo dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pushilin, ha puntato il dito contro i “terroristi ucraini”.

Alexsandr Dugin, conosciuto per essere il principale fautore del rilancio delle teorie eurasiatiste, è considerato come uno degli ideologi che sono stati più vicini al presidente russo Vladimir Putin. Secondo media russi citati dal Daily Mail, Darya Dugin sarebbe stata “fatta a pezzi” nell’esplosione del veicolo di cui era alla guida, e si avanzano i sospetti di natura dolosa circa un complotto il cui obiettivo sarebbe stato il padre Aleksandr.
Secondo il violinista russo Petr Lundstrem, Darya stava rincasando da un festival e aveva programmato di riportare indietro anche suo padre, il quale tuttavia sarebbe poi salito in un’altra vettura.

Un video girato sulla scena dell’incidente – con ogni probabilità un attentato – e diffuso sui social mostra la disperazione di Aleksandr Dugin mentre osserva impotente il rogo dell’auto in cui è rimasta uccisa la figlia Darya. Il filosofo probabilmente la seguiva da vicino in un’altra vettura su cui era salito all’ultimo momento scampando così alla morte.
Secondo il leader della Repubblica popolare filorussa di Donetsk, Denis Pushilin, ci sono “terroristi del regime ucraino” dietro l’incidente. A detta di Pushilin, a quanto riferisce Ria Novosti, l’obiettivo dell’attentato era il padre. “I terroristi del regime ucraino, cercando di eliminare Aleksandr Dugin, hanno fatto saltare in aria sua figlia… In macchina. Beato ricordo di Darya, è una vera ragazza russa”, ha scritto Pushilin nel suo canale Telegram. Darya è stata opinionista politica per il Movimento Eurasiatico Internazionale, guidato da suo padre.

Una breve biografia di Darya
Darya Platonova Dugina, la figlia del filosofo eurasiatista russo Aleksandr Dugin rimasta uccisa nell’esplosione della sua auto nei pressi di Mosca, svolgeva un intenso impegno intellettuale nella scia del padre. In una recente intervista, rilasciata a maggio scorso alla testata online geopolitika.ru, era intervenuta sull’aggressione russa all’Ucraina. Sposando, senza sorprese, le posizioni del padre e la linea del Cremlino.

“La situazione in Ucraina è davvero un esempio di scontro di civiltà; puo’ essere visto come uno scontro tra la civiltà globalista e quella eurasiatica” aveva detto. “Dopo ‘la grande catastrofe geopolitica’ (come il presidente russo ha definito il crollo dell’Urss), i territori dell’ex Paese unito sono diventati ‘confini’ (zone intermedie) – quegli spazi su cui è aumentata l’attenzione dei vicini, con la Nato e soprattutto gli Stati Uniti interessati a destabilizzare la situazione ai confini della Russia”.

Aggiungeva Darya Dugina: “Se le elite liberali occidentali insistono così tanto nel sostenere Kiev e demonizzare Mosca, è perché dietro c’è una logica di profitto. Tutto deve essere messo in discussione. Questo è un principio importante che ci permette di mantenere un occhio lucido. Nella società dello spettacolo, della propaganda e della natura totalitaria dei sistemi occidentali, il dubbio è un passo essenziale per uscire dalla caverna…”.

La donna aveva trenta anni, era laureata in filosofia all’Università Statale di Mosca e aveva approfondito gli studi sul neoplatonismo ma rivendicava come riferimenti culturali anche Antonio Gramsci, Martin Heidegger e il sociologo francese Jean Baudrillard. Il 4 giugno scorso fu inclusa nella lista delle persone sanzionate dal governo del Regno Unito (tra loro il magnate Roman Abramovic) per avere espresso appoggio o promosso politiche favorevoli all’aggressione russa dell’Ucraina.

Figurava al numero 244 dell’elenco delle 1.331 persone fisiche sanzionate, quale “autore di alto profilo della disinformazione circa l’Ucraina e riguardo all’invasione russa dell’Ucraina su varie piattaforme online”, nonchè responsabile per il supporto e la promozione di politiche o iniziative di destabilizzazione dell’Ucraina per comprometterne o minacciarne “l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza”  

“Il peggio deve ancora venire”. Ecco cosa succederà al prezzo del gas

"Il peggio deve ancora venire". Ecco cosa succederà al prezzo del gas
Gazprom, il monopolio russo del gas, ha annunciato che i prezzi possono aumentare anche del 60%. Il gas ha raggiunto il prezzo di 234,50 euro per megawattora (MWh). Un anno fa era scambiato al prezzo di 28,8 euro per MWh. Tradotto in cifre, stando ai numeri citati da Gazprom, nei prossimi mesi il prezzo del gas potrebbe arrivare a 362 euro, con ulteriori probabili aumenti futuri anche sul costo dell’elettricità.

La diminuzione delle importazioni
La riduzione dell’esportazioni di gas da parte della Russia è iniziata con la pandemia e il conflitto con l’Ucraina ha esacerbato le restrizioni dell’export. I prezzi del gas sono tesi e le contrattazioni avvengono tra i dubbi, il mercato si chiede quanto gas arriverà in Europa nei prossimi mesi e, anche ragionando esclusivamente sui periodi più brevi, ci troviamo in un momento in cui il ricorso ai condizionatori spinge il consumo di elettricità e quindi di gas.

Tutto ciò va contestualizzato: la Russia ha avviato una campagna di progressive diminuzioni delle esportazioni e questo è un andamento che si teme possa continuare nei prossimi mesi. Nel frattempo, anche la questione scorte si fa complessa, perché gli stoccaggi di gas ed energia elettrica si fanno soprattutto d’estate, quando i prezzi sono più bassi. Una condizione, questa, che non si sta verificando.
Il Giornale 

Putin, Russia e Corea Nord amplieranno relazioni bilaterali Media, leader russo invia lettera a Kim Jong-un

 © EPA
La Russia e la Corea del Nord rafforzeranno le relazioni bilaterali: lo ha riferito oggi l’agenzia di stampa statale di Pyongyang, la Kcna, citando il presidente russo Vladimir Putin.
Lo riporta il Guardian.
Secondo l’agenzia Putin ha inviato una lettera al leader nord coreano Kim Jong-un nel giorno della liberazione della Corea del Nord affermando che i due Paesi “amplieranno le relazioni bilaterali globali e costruttive attraverso sforzi comuni”.
Nella missiva il leader russo ha spiegato che legami più stretti sarebbero nell’interesse di entrambi i Paesi e contribuirebbero a rafforzare la sicurezza e la stabilità della penisola coreana e della regione asiatica nord-orientale. (ANSA). 

Don Tonino Bello « La guerra è una recidiva preoccupante. Ciò che mi affligge di più in questa ripresa del conflitto»

Uno scritto inedito, senza data, sulla guerra e le reazioni dell’Occidente nell’ultimo libro di Giancarlo Piccini “Anticorpi di pace” (San Paolo): « La guerra è una recidiva preoccupante. Ciò che mi affligge di più in questa ripresa del conflitto», scrive il vescovo salentino, «sono due cose. Il terrore di dover ripetere, in un mondo di sordi, le stesse argomentazioni contro la guerra; di dover risentire le filastrocche sul pacifismo a senso unico»

«La guerra è una recidiva preoccupante. Si pensava che, dopo il primo conflitto nel Golfo, fossero maturati nell’organismo mondiale degli anticorpi cosi forti contro il “mal di guerra”, che per parecchi anni non avremmo sentito parlare di violenza armata, almeno nei luoghi così martoriati del Medioriente. Invece, eccoci in una più tragica ricaduta: tanto più tragica quanto più solerte sembra l’intervento delle potenze internazionali, in contrasto con la deplorevole indifferenza con cui le stesse si pongono di fronte ad altre situazioni che meriterebbero ben altra considerazione: il problema dei profughi palestinesi, la disperazione della Bosnia, le sconosciute situazioni di conflitto e di fame presenti in Africa… Ciò che mi affligge di più, comunque, in questa ripresa del conflitto sono due cose. Il terrore di dover ripetere, in un mondo di sordi, le stesse argomentazioni contro la guerra; di dover risentire le filastrocche sul pacifismo a senso unico; di dover rispondere che il pacifismo si desta solo quando c’è puzza di America… E poi il dover constatare che gli interessi economici prevalgono sui più elementari diritti umani. Si aprono i flash sulla Somalia, sull’Iraq. Ma si chiudono luci e cuore, quando ci sono di mezzo i poveri».

È un appunto autografo, curiosamente senza luogo né data, considerata l’attenzione dell’autore per i dettagli. A scriverlo è don Tonino Bello, ora venerabile, e a riproporlo all’attenzione dei lettori è Giancarlo Piccini, presidente della Fondazione intitolata al vescovo salentino, nel libro Anticorpi di pace – Pagine inedite e ritrovate (San Paolo, pp. 176, euro 15). Una riflessione provocatoria, com’è nello stile di don Tonino, e quanto mai attuale nell’Europa divenuta di nuovo palcoscenico di una guerra fratricida che l’agenda del media system, dopo la commozione iniziale, sembra quasi aver archiviato, relegandola in fondo a quotidiani e Tg.

Piccinni, nel commentare questo scritto «che ho ricevuto da don Tonino nel 1993 ma che rappresenta a tutti gli effetti un inedito», si lascia andare a un moto di scoramento, come se la profezia di pace di don Tonino fosse – a dispetto dell’affetto che suscita tra credenti e no – qualcosa del passato o, peggio, di ripetitivo e noioso da archiviare in fretta. «Penso a quante volte, andando in giro per piazze, chiese, teatri», commenta Piccinni, «abbiamo proposto la lezione di pace di Tonino Bello e mi tornano in mente i commenti dei soliti benpensanti: “Sempre le stesse cose, sempre a parlare di pace. Siete monotoni, ripetitivi. Annoiano questi argomenti: ormai la guerra non può più tornare”. E allora, mi chiedevo, perché continuiamo ad armarci? Perché tanti investimenti sulle armi, sull’impero della morte? Perché non investire in salute, in istruzione? Perché non combattere la fame, le malattie, le disuguaglianze? In una parola perché armarci e non amarci?».

Il volume, che vede la prefazione del cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione per le Cause dei santi, è diviso in due parti: la prima riporta alcuni scritti inediti di don Tonino (lettere, omelie, appunti) e la seconda una raccolta d’interventi di Piccini collocati in momenti diversi: la visita nel 2018 di papa Francesco ad Alessano e Molfetta, la pandemia, il ricordo del fratello di don Tonino, Marcello. Piccinni riporta anche il discorso che don Tonino, da presidente nazionale di Pax Christi, pronunciò nel 1989, davanti a un’Arena di Verona traboccante di gente, in occasione di un incontro promosso dai “Beati costruttori di pace”. Molto interessante è l’intervista che rilasciò a margine di quell’evento e che è riportata nel volume. A chi gli chiede se l’attività di Pax Christi proseguirà senza incontrare ostacoli, don Tonino risponde: «È difficile come per ogni è lavoro creativo che richieda impegno e, soprattutto, sforzo per coscientizzare la gente. È difficile, si trovano tante difficoltà. A volte anche all’interno dell’ambiente ecclesiale c’è qualche diffidenza. Ma è giusto che sia così, è fisiologico sarei per dire. Però vediamo anche un’economia sommersa straordinaria: di grazia, di entusiasmo, di voglia di proseguire per questa strada. Noi abbiamo tantissima fiducia, anche perché poi stiamo facendo gli interessi della “ditta”, cioè del Signore, che è il Re della pace».

Concludiamo con una nota a margine. Il 10 agosto di quest’anno ricorrono i 40 anni della nomina episcopale di don Tonino Bello a vescovo della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi. Negli archivi della Fondazione è conservata, una lettera, anch’essa inedita, che don Tonino inviò nel luglio del 1982 a Giovanni Paolo II per accettare, sia pure a malincuore, la nomina: «La mia accettazione», scrive, «oltre che carica di incertezze, è anche permeata di molta tristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo che ho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria del Signore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia (quella della chiesa Matrice di Tricase, in provincia di Lecce, ndr) ancora per qualche tempo. Se non insisto per essere liberato da questo onore e da queste responsabilità che mi spaventano è perché temo di intralciare i disegni di Dio».

In queste poche righe è condensato tutto lo stile di don Tonino e soprattutto, scrive Piccinni, «il suo intendere il ministero nella Chiesa sempre a servizio del popolo». 

La nuova disputa. I Balcani, l’altro fronte di Putin

Una disputa sulle targhe delle auto e documenti d’identità riaccende la tensione fra la Serbia, sostenuta dalla Russia, e il Kosovo.La Nato: «Pronti a intervenire se è a rischio la stabilità»
Una pattuglia della Kfor sorveglia la rimozione del blocco stradale a Zupce,in Kosovo

Una pattuglia della Kfor sorveglia la rimozione del blocco stradale a Zupce,in Kosovo – Reuters

Dopo quasi 24 ore di blocco stradale, la minoranza serba del Kosovo ha smantellato le barricate erette nel Nord del Paese. Una notte di tensione, con alcuni serbi «fuori legge» che – riferisce la polizia kosovara – avevano aperto il fuoco contro degli agenti senza colpirli. Incidente sfiorato, ma la crisi sembra per ora solo rimandata: per il presidente serbo Aleksandar Vucic «mai la situazione è stata così difficile» da quando il Kosovo si è dichiarato indipendente nel 2008. E la missione Nato in Kosovo (Kfor), dopo aver monitorato con delle pattuglie in elicottero la riapertura dei blocchi stradali, ha informato di star «monitorando da vicino la situazione nel nord del Kosovo» con le organizzazioni di sicurezza locali e di «essere pronta ad intervenire se a rischio la stabilità».
È la guerra dei Balcani che, come un fiume carsico, riemerge dopo oltre un decennio e riapre vecchie incomprensioni tra Russia e Occidente in quello che potrebbe diventare un “fronte parallelo” rispetto alla guerra in Ucraina. Ieri pomeriggio tuttavia, secondo alcune testimonianze, il ponte vicino al confine di Bernjak era ancora istruito e il valico di confine non ancora aperto mentre il giorno prima si segnalavano spostamenti di truppe.
Tutto è iniziato domenica pomeriggio quando la popolazione serba del Kosovo aveva bloccato le strade che conducono ai valichi di confine di Jarinje e Bernjak, obbligando le autorità a chiuderli. Le proteste sono contro nuove leggi sui documenti di identità e targhe automobilistiche, che avrebbero dovuto entrare in vigore il primo agosto. I manifestanti protestavano contro la decisione di Pristina di imporre anche ai serbi che vivono in Kosovo l’uso esclusivo di carte d’identità e targhe kosovare. Dalla guerra del 1999, il Kosovo aveva tollerato l’uso di targhe emesse dalle istituzioni serbe in quattro municipalità del nord del Paese dove sono presenti maggioranze serbe. La nuova legge rende invece obbligatorio l’uso di targhe con l’acronimo «Rks», cioè Repubblica del Kosovo. Ai proprietari di automobili era dato tempo fino alla fine di settembre per effettuare il cambiamento. Le nuove norme prevedono anche che chiunque entri in Kosovo con una carta d’identità serba abbia un documento temporaneo, con validità di tre mesi, mentre si trova nel Paese. Il premier del Kosovo, Albin Kurti, ha spiegato che si tratta di una misura di reciprocità, in quanto la Serbia – che non riconosce l’indipendenza della sua ex provincia a maggioranza albanese proclamata nel 2008 – chiede lo stesso ai kosovari che entrano nel suo territorio. La diatriba su targhe e documenti, che aveva già provocato in passato delle rimostranze, ha così riacutizzato sopite tensioni internazionali. La Serbia, spalleggiata da Russia e Cina, non riconosce l’indipendenza del Kosovo, né il suo diritto di imporre regole e regolamenti come la registrazione di automobili e camion mentre il governo del Kosovo è riconosciuto dalla maggior parte dei Paesi Ue.
Così domenica notte era giunto il minaccioso monito del Cremlino: «Tutti i diritti dei serbi in Kosovo devono essere rispettati», aveva dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. Poi, dopo una mattina di consultazioni lo stesso Peskov, dopo aver ribadito di sostenere «assolutamente» la posizione della Serbia, chiedeva che tutte le parti «agiscano in modo ragionevole» perché riteneva «assolutamente infondati» le richieste delle autorità del Kosovo. Mentre la rappresentante dell’Onu in Kosovo, Caroline Ziadeh, lanciava un appello «alla calma, al ripristino della libertà di movimento» dall’Ue giungeva un chiaro altolà a Belgrado chiedendo di evitare «ogni azione non coordinata e unilaterale che mette in discussione la stabilità e la sicurezza». L’Ue ha poi invitato le autorità serbe e quelle kosovare a Bruxelles per risolvere i contrasti.

Lo status del Kosovo

La Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, proclamata unilateralmente nel 2008, dopo che nel 1999 la risoluzione 1244 dell’Onu autorizzava una presenza internazionale civile e militare in Kosovo, la Kfor a guida Nato ed ora forte di 3.500 uomini. L’indipendenza di Pristina è stata riconosciuta da 113 dei 193 membri Onu tra cui la maggior parte dei Paesi Ue, mentre Russia e Cina, alleate della Serbia, no. Negli anni passati Bruxelles ha cercato di mediare un dialogo tra i due vicini, ma finora gli sforzi non sono riusciti a raggiungere una normalizzazione dei rapporti. Il premier kosovaro Kurti ha affermato che il Kosovo presenterà formalmente domanda per diventare membro dei Ventisette entro la fine del 2022, nonostante le preoccupazioni per le tensioni con la Serbia, anch’essa aspirante membro Ue. Ma è sulla Nato che la spaccatura fra Mosca e l’Occidente si riverbera pericolosamente nei Balcani. Kurti ha infatti lanciato un appello per essere ammesso nella Nato insieme alla Bosnia. Una richiesta avanzata in maggio chiaramente in chiave anti-serba, mentre la crisi in Ucraina era già in atto.

Gudkov e la complicità passiva dei russi verso il potere

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AGI – I russi si sono “rassegnati” alla guerra in Ucraina e continuano a sostenere il presidente Vladimir Putin in una forma di “complicità passiva”, che affonda le sue radici nell’atteggiamento del cittadino sovietico col potere.

Lev Gudkov, il sociologo russo più famoso all’estero e vice direttore del più autorevole istituto demoscopico indipendente del Paese, il Centro Levada, non si nasconde dietro le vaghe formule della narrativa ufficiale, che ha imposto di chiamare “operazione militare speciale” l’intervento in Ucraina.

Settantacinque anni, Gudkov non è nuovo a lavorare e vivere in condizioni rischiose: da quando è stato inserito nel registro degli “agenti stranieri”, nel 2016, il Levada ha visto ridursi al lumicino budget e progetti e la possibilità che le autorità ne impongano la chiusura è una spada di Damocle che, però, non impedisce ai suoi ricercatori di continuare a mappare l’evoluzione dell’opinione pubblica russa anche sui temi più delicati.

I sondaggi sul consenso
Nei cinque mesi di ostilità e sanzioni, il sostegno all’operato del presidente russo si è consolidato, riferisce Gudkov in un’intervista all’AGI nel suo ufficio su via Nikolskaya, a pochi passi dalla Piazza Rossa.

“Se i sondaggi dei giorni subito successivi all’invio dell’esercito, il 24 febbraio, mostravano un’approvazione del 68% per le azioni di Putin, il dato è arrivato all’81% a marzo per poi stabilizzarsi, tra aprile e giugno, intorno al 74-77%”. Non si tratta, spiega Gudkov, di un'”euforia” collettiva come era stato per l’annessione della Crimea, nel 2014, ma piuttosto di “mancanza di resistenza morale”.

Rispetto a otto anni fa, questo consolidarsi del consenso avviene in circostanze molto diverse: prima di tutto, quella di un “totale isolamento mediatico”.

“Dal 24 febbraio”, ricorda il vicedirettore del Levada, “si stima siano stati vietati 2-3mila siti internet e chiuse circa 180 testate, di cui alcune molto autorevoli come Novaya Gazeta e la radio Eco di Mosca; senza contare che i blogger vengono multati, che si rischia il carcere per l’accusa di fake news e che anche Facebook è stato bloccato. Il sociologo lo definisce “sostegno a bassa intensità”, un sentimento a suo modo contraddittorio: “Da una parte si registrano soddisfazione e orgoglio tra gli intervistati (51%), dall’altra quasi lo stesso numero (il 47%) ammette di sentirsi ‘inquieto’ per la morte sia dei cvili ucraini che dei soldati russi”.

L’appoggio alla guerra, inoltre, non va di pari passo con la disponibilità a combattere per la propria patria – solo il 2-3% si dice disposto a farlo – né con un senso di responsabilità per le morti civili.

“La maggior parte degli intervistati non capisce nemmeno la domanda sulle responsabilità come popolo per quanto sta accadendo”, riferisce il sociologo, “in media solo il 10% avverte un problema di coscienza: è il tradizionale atteggiamento sovietico di esprimere un’approvazione semplicemente dimostrativa verso il potere, senza poi volerne rispondere o partecipare. È il comportamento caratteristico di una società in condizioni di regime totalitario, una complicità passiva coi crimini dello Stato”.

Anche la vaghezza delle spiegazioni fornite dal Cremlino alla cosiddetta ‘spezoperazia’ contribuisce a questa accettazione, nonostante almeno il 30% dei russi abbia un qualche tipo di legame con l’Ucraina.

I temi della propaganda
“La propaganda ha passato tre fasi: denazificazione, liberazione del Donbass e poi quella attuale, secondo cui la Russia è stata costretta ad agire per la sua salvezza, perché la Nato avrebbe comunque usato i fascisti ucraini per colpirla”.

“Il tema del fascismo, unito a quello della minaccia esterna dell’Occidente, è un argomento molto forte sui cui in Russia è praticamente impossible discutere”, spiega Gudkov, “perché metterebbe in discussione la stessa identità nazionale”.

“La retorica della lotta al nazismo”, prosegue, “è stata usata in Urss fin dagli Anni ’30 per marchiare tutti i critici dell’Unione sovietica, indipendentemente dal partito o dal campo ideologico a cui appartenessero. È l’etichetta che indica il nemico assoluto, un potente mezzo per disumanizzare l’avversario, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. Definendo fascista un soggetto, non è più necessario fornire prove o argomentazioni e, inoltre, verso il soggetto a cui viene associato questo stigma è impossibile nutrire empatia o compassione. Questa è una parte molto importante su cui gioca la propaganda, oltre al lavoro per mettere a tacere qualsiasi pensiero autorevole contrario alla guerra, che oggi in Russia di fatto non esiste”.

Pertanto, conclude Gudkov, “nonostante il calo del tenore di vita, l’inflazione, le sanzioni, la carenza di alcuni prodotti come i medicinali, il livello di soddisfazione generale è aumentato in modo molto evidente e registriamo tutti i segni di un consolidamento di massa del consenso nei confronti del potere”.  

UCRAINA | Al G20 esteri di Bali è andato in scena l’ennesimo muro contro muro tra Occidente e Russia. Il Papa tenta la mediazione, “potrebbe andare a Kiev ad agosto”

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Al G20 esteri di Bali è andato in scena l’ennesimo muro contro muro tra Occidente e Russia: le potenze del G7 hanno rinnovato la condanna contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina ed il ministro Serghiei Lavrov ha risposto in modo plateale, abbandonando il vertice prima della conclusione.

In questo impasse, anche il Vaticano tenta di dare un contributo per una soluzione diplomatica del conflitto: papa Francesco potrebbe andare a Kiev ad agosto.

Ansa

Ucraina. “Ecco dove sono stati portati i bambini ucraini deportati in Russia”

Il sito di informazione Verstka ha individuato dove si trovano centinaia di minori ospitati lì prima di essere assegnati a famiglie in tutta la Russia
Bambini ucraini in fuga dalla guerra

Bambini ucraini in fuga dalla guerra – Fotogramma

La Russia continua a negare le accuse di deportazione forzata dei bambini ucraini. Ma sui social le richieste dei parenti che si sono messi sulle loro tracce aumentano e, unitamente a un lavoro di inchiesta fatto dal sito di informazione indipendente Verstka, hanno portato a individuare dove si trovano centinaia di minori, ospitati lì in attesa di venire assegnati a famiglie su tutto il territorio nazionale. I principali centri si trovano a Rostov sul Don, sul mare di Azov, a Kursk, ma anche più lontano dal confine con l’Ucraina, a Nizhni Novgorod.

Gli ospiti sono soprattutto bambini che provengono a Mariupol e dal Donbass. Al momento dell’occupazione da parte dei russi si trovavano in ospedali o centri di cura oppure semplicemente si sono persi. Ora la loro vita cambierà per sempre. La conferma che si tratta di bambini ucraini arriva dalle stesse autorità di Rostov, che però parlano di minori «salvati» dai soldati russi e portati fuori dalle zone di guerra e soprattutto orfani, quando invece spesso questi piccoli hanno ancora almeno un genitore che possa prendersi cura di loro.

La Commissaria per i diritti umani della regione di Rostov, Irina Cherkasova, non ha rivelato in quali strutture vengano ospitati, ma ha garantito che «frequentano organizzazioni educative in conformità di programmi che tengano conto del loro livello di istruzione e del loro stato di salute».

A fare chiarezza ci ha pensato il sito Verstka. La struttura principale per l’accoglienza dei bambini ucraini si chiama Romashka, in russo “camomilla”, e da sola ospita circa 400 minori.

Stando a due volontari che hanno parlato al sito in condizioni di anonimato, qui ci sono ospiti da 2 a 18 anni e, se nelle prime fasi della cosiddetta “operazione militare speciale” avevano il necessario per andare avanti, «adesso mancano dei bisogni di base: dai prodotti per l’igiene personale a quelli di cancelleria che servono per le attività scolastiche». Segno che, oltre allo sforzo bellico, la Russia fatica a tenere il passo anche con quello umanitario. Sempre secondo la testimonianza di questi due volontari, all’interno di queste strutture vengono organizzate attività ricreative nelle quali però vengono anche incentivata una maggiore conoscenza della storia e della cultura russa. Il problema, è il futuro che li attende, che per qualcuno si è già risolto in un allontanamento permanente dalla madrepatria.

Il 30 maggio, il presidente Putin ha firmato il decreto che facilita l’ottenimento della cittadinanza russa per i bambini che provengono dal Donbass e più in generale da altre parti dell’Ucraina. Molti potrebbero vedere la loro vita cambiare definitivamente prima dell’autunno, quando negli orfanotrofi inizierà a fare freddo e sarà ancora più oneroso per i russi mantenere quelle strutture. Per alcuni è già cambiata.

Ksenia Mishonova, il difensore civico per i bambini nella regione di Mosca, ha ammesso che, da aprile, decine di bambini sono già stati assegnati alle “cure temporanee” di famiglie nel territorio della capitale. Il governatore della regione, Andreij Vorobyov, ha parlato espressamente di «preparare una opportunità di adozione» per questi bambini, facendosi ritrarre da una Tv privata mentre li accoglieva alla stazione, insieme con un gruppo di psicologi, che aveva il compito di farli sentire a loro agio il più possibile. Luoghi come quello di Romashka sono quindi dei veri e propri centri di smistamento per il loro nuovo futuro da cittadini russi, lontani dai propri cari e dalla terra in cui sono nati e strumenti nelle mani di Mosca per riequilibrare il saldo demografico del Paese.

Avvenire