In ascolto di Dio. Iniziativa del Lay Centre di Roma per valorizzare il silenzio durante la pandemia

«In questo tempo c’è tanto silenzio. Si può anche sentire il silenzio. Che questo silenzio, che è un po’ nuovo nelle nostre abitudini, ci insegni ad ascoltare, ci faccia crescere nella capacità di ascolto». Il 24 aprile scorso, nei giorni più duri della pandemia in Italia, quelli del lockdown, Papa Francesco apriva la messa mattutina a Santa Marta con questa preghiera-riflessione dedicata al silenzio e all’ascolto. La città vuota e taciturna per la quarantena e, di contro, l’esplosione di parole sul web di quei primi giorni di paura, hanno ispirato anche un’iniziativa ecumenica del Lay Centre di Roma, l’istituto cattolico internazionale creato nel 1986 per offrire accoglienza e formazione agli studenti laici delle università pontificie dell’Urbe.

Dal 24 luglio e per cinque settimane, registrandosi al sito laycentre.org, sarà possibile ricevere ogni venerdì, via mail, un testo di meditazione in lingua inglese dedicato al silenzio, accompagnato da un’immagine e da un brano musicale. «Wellsprings of silence» (“Sorgenti di silenzio”), s’intitola la serie nata per favorire la riscoperta della ricchezza della preghiera e della meditazione silenziosa. «Durante la pandemia — spiega Heather Walker, coordinatrice della comunicazione e dei programmi di studio del Lay Centre — qui a Roma, quando uscivamo per andare al lavoro o a fare la spesa, scoprivamo le strade vuote e silenziose. Dietro le mura delle abitazioni c’erano invece una vita e una comunicazione frenetica. Ora che l’Italia è uscita dal lockdown abbiamo pensato ai nostri amici di tutto il mondo, ai nostri studenti che vivono in Paesi ancora in piena pandemia e offerto loro dei testi che aiutino, nel silenzio, a riflettere, ascoltare la voce di Dio e a trovare risposte. La preghiera silenziosa nel mondo cristiano è abbastanza diffusa fra i religiosi — nota ancora Walker — ma non lo è altrettanto fra i laici. Ecco perché abbiamo voluto proporre testi non solo di autori religiosi».

La prima meditazione pubblicata è di padre John Keating, religioso irlandese, docente a Dublino. Un esperto di silenzio che nel 1990 ha trascorso un anno di ritiro in solitudine sulle coste del lago Lough Derg nel suo Paese. Seguirà quella della teologa Karen Petersen Finch, ministro della chiesa presbiteriana, e, nelle settimane successive, quelle di laici e religiosi esponenti di altre confessioni cristiane, a sottolineare il carattere ecumenico delle meditazioni.

Chiuderà il ciclo la dottoressa Donna Orsuto, cofondatrice del Lay Centre e docente di spiritualità alla Pontificia università Gregoriana.

Nel suo testo padre Keating cita in apertura il capitolo 10 del Libro dei Proverbi: «Un fiume di parole non è mai senza colpa, chi frena le labbra è saggio». Ricorda poi quanto sia frequente oggi ascoltare parole che non costruiscono pace: un linguaggio divisivo, aspro che sembra distruggere ciò che abbiamo di più caro e prezioso. Il religioso invita a trovare l’antidoto in un equilibrio fra suono e silenzio, che possa generare gentilezza, tenerezza e compassione. Sottolinea il bisogno urgente che avvertono in molti di curare questo bilanciamento e di concentrarsi sulle piccole cose, non su quelle grandi. «Stare in disparte in silenzio — nota padre Keating — ci dà la possibilità di ritrovare noi stessi e crescere anche nelle relazioni con gli altri».

Come ricorda insomma il Salmo 23 è solo presso le «acque tranquille» che possiamo rinfrancare il nostro spirito. Solo uno specchio d’acqua fermo e silenzioso può riflettere la nostra anima.

di Fabio Colagrande

Osservatore Romano

Brasile. Sale il bilancio di contagiati e morti nel clero

Il Brasile è il secondo Paese al mondo più colpito dal Covid19, dopo gli Stati Uniti, con circa due milioni e mezzo di casi e più di ottantottomila decessi. Aumentano le vittime anche tra i sacerdoti e i vescovi

È di 21 sacerdoti e due vescovi morti il bilancio aggiornato delle vittime della pandemia nel clero brasiliano. Lo ha reso noto ieri il bollettino della Commissione nazionale dei presbiteri, organismo legato alla Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb). Secondo il rapporto stilato in collaborazione con le 18 Conferenze regionali della Cnbb, i sacerdoti positivi al virus sono 347 e 9 i vescovi. La Regione ecclesiastica più colpita è quella che comprende gli Stati di Pará e Amapá, con 58 contagiati e 6 morti. Due i presuli che risultano deceduti per complicanze legate al Covid-19: monsignor Henrique Soares da Costa, vescovo di Palmares e monsignor Aldo Pagotto, arcivescovo emerito di Paraiba. L’unico Stato a non aver registrato sacerdoti positivi al virus è il Mato Grosso do Sul.

Le cifre della pandemia in Brasile

ll Brasile, subito dopo gli Stati Uniti, è il secondo Paese più colpito al mondo dalla pandemia che, secondo gli ultimi dati, sembra non volersi arrestare. Nelle ultime 24 ore, infatti, ci sono stati più di quarantamila contagi facendo salire le infezioni a circa due milioni e mezzo. Più di ottantottomila sono stati i decessi.

La preghiera corre sul web

Dal sito dell’arcidiocesi di Brasilia, l’invito è alla preghiera: “Preghiamo per tutti i sacerdoti e i vescovi che stanno partecipando alle sofferenze di tante suore e sorelle in tutto il mondo in occasione di questa pandemia. Rendiamo grazie a Dio anche a coloro che sono stati guariti”. La richiesta è stata pubblicata sul web il 22 luglio, il giorno della morte di padre João da Silva proprio a causa delle complicazioni causate dal virus. Padre João sarebbe stato ordinato sacerdote a novembre.

In Terra Santa la pandemia ha trasformato i luoghi di culto in spazi deserti

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Osservatore Romano

«La pandemia di coronavirus che continua a minacciare il mondo intero si è già trasformata da semplice crisi sanitaria in una crisi economica, sociale e umana su scala mondiale. Sento il grido di uomini e donne di Israele mentre il loro mondo crolla…». Ad esprimersi così non è un semplice opinion maker, ma Reuven Rivlin, il presidente israeliano in persona, sulle pagine di un sito web di notizie locali. E continua:  «In Israele non abbiamo mai dovuto affrontare una pandemia di queste proporzioni, ma abbiamo dovuto affrontare altre sfide decisive, e ne siamo usciti forti e vincitori… In quest’ora difficile, noi tutti — guide politiche e membri della società — dobbiamo tornare ai nostri valori essenziali, alla solidarietà sociale e all’unanimità. Dobbiamo uscire insieme dalla crisi».

Di certo, la situazione non è facile. Se a marzo scorso le misure draconiane assunte dal governo israeliano erano parse a molti eccessive, di fatto avevano consentito di contenere in maniera efficace il numero dei contagi in Israele. Da maggio in poi però la situazione è cambiata drasticamente. La riapertura delle scuole per le celebrazioni conclusive dell’anno scolastico ha scatenato una nuova ondata di contagi, molto più massiccia che nei mesi precedenti. Nei giorni scorsi, nel territorio israeliano sono stati registrati oltre 1.700 casi al giorno. L’eventuale superamento della soglia dei 2.000 avrebbe comportato — così annunciavano le autorità sanitarie — un nuovo lockdown totale. Solo il 19 luglio si è scesi di nuovo sotto le mille unità; ma già il giorno seguente i nuovi casi erano 1.183. I pazienti in terapia intensiva sono più di 200, contro i 42 di due settimane fa. La situazione, del resto, non è meno preoccupante nei territori della West Bank. L’Autorità Palestinese ha recentemente dichiarato 6.566 casi: pochi, se confrontati con altri Paesi del mondo; ma sono triplicati rispetto ai primi di giugno, mentre i decessi sono passati da 7 a 58. Il maggior centro di diffusione del virus al momento è il distretto di Hebron, dove si contano il 60 per cento dei casi. Il sistema sanitario palestinese non è certo attrezzato per affrontare un’epidemia su larga scala.

Le strategie di controllo da parte del governo israeliano sono pervasive. Nelle scorse settimane in molti hanno protestato contro il tracciamento dei cellulari. Basandosi sull’analisi dei tracciati, le autorità israeliane hanno obbligato alla quarantena migliaia di persone, che si presumeva fossero entrate in contatto con persone contagiate. Le multe per chi non indossa la mascherina sono salate, e i controlli frequenti e rigorosi. Per evitare assembramenti, in molti luoghi gli accessi sono limitati. Il problema maggiore, a Gerusalemme, riguarda ovviamente i luoghi di culto. La spianata delle moschee, dopo la chiusura totale di alcuni mesi fa (peraltro in concomitanza con il ramadan) ha riaperto i battenti, con l’impegno di garantire il rispetto delle misure di sicurezza. Il Muro Occidentale rimane abbastanza frequentato, benché il piazzale sia suddiviso in settori transennati, per consentire un facile conteggio delle presenze e il relativo distanziamento.

Il Santo Sepolcro invece è formalmente aperto, ma rimane vuoto perché non ci sono pellegrini cristiani che vengono a visitarlo. Durante gli ultimi week-end si era registrato un certo incremento di turisti, quasi esclusivamente musulmani ed ebrei, che volevano approfittare della mancanza di pellegrini per visitare il sito con più libertà. Per evitare il rischio di contagi, le comunità cristiane che custodiscono il Santo Sepolcro hanno deciso di comune accordo di chiudere le porte della basilica il venerdì e il sabato (la domenica è giorno lavorativo e turisti non ne vengono), consentendo soltanto ai fedeli abituali, che conoscono gli orari delle liturgie, di parteciparvi. Nella basilica della Natività di Betlemme la situazione è ancora più triste: nonostante la riapertura ufficiale a metà maggio, per motivi di sicurezza l’accesso è ora limitato ai fedeli locali non solo nel week-end, ma ogni giorno.

La sospensione dei pellegrinaggi cristiani balza particolarmente all’occhio in questo tempo estivo, solitamente di alta stagione, e produce effetti dirompenti. Prima ancora che un problema economico, è una profonda sofferenza spirituale. «Non è la prima volta, già durante le intifade è stato così — dice l’amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini, arcivescovo Pierbattista Pizzaballa — ma la novità stavolta è che siamo di fronte ad un periodo molto prolungato di azzeramento dei pellegrinaggi. Come dico sempre, la Chiesa di Terra Santa vive con due polmoni: uno è la Chiesa locale, l’altro è la Chiesa universale rappresentata dai pellegrini. La presenza dei pellegrini è costitutiva dell’identità di questa Chiesa. Il vedere Gerusalemme con le strade vuote, il Santo Sepolcro senza pellegrini, il lago di Galilea senza nessuno che scenda a toccare le acque toccate da Gesù… è come se mancasse qualcosa. Si può vivere con un solo polmone, sì, ma non si vive bene», conclude.

È difficile descrivere la desolazione di questi spazi, un tempo fin troppo affollati e ora praticamente deserti. Santuari nei quali, per trovare posto, occorreva prenotare con largo anticipo la visita o la celebrazione delle sante messe, sono ora vuoti tutto il giorno. Solamente i frati francescani della Custodia di Terra Santa continuano a presidiare i luoghi santi e a celebrarvi fedelmente la liturgia, come se nulla fosse. Con impegno lodevole trasmettono almeno alcune celebrazioni sui social media, affinché si sappia che la preghiera nei luoghi santi non viene meno. «I frati della Custodia provengono da tutto il mondo» riferisce commosso padre Francesco Patton, custode di Terra Santa. «Rimaniamo in questi luoghi come presenza internazionale per far salire a Dio la preghiera di tutta l’umanità. I frati si fanno pellegrini al posto dei pellegrini che ancora non possono arrivare».

Il Santo Sepolcro, cuore della fede cristiana, ha subìto un lockdown totale per due mesi. Racconta uno dei francescani che lo custodisce, il congolese fra Michael: «La basilica è stata chiusa il 25 marzo scorso alle 17.05, appena terminata la processione quotidiana, e riaperta solo il 24 maggio. Il nostro dovere era quello di pregare: lo abbiamo fatto fedelmente, in comunione con il mondo intero, chiedendo anche la fine di questa pandemia. Non abbiamo omesso nessuna delle liturgie previste, nemmeno durante la Settimana santa e il triduo pasquale, anche se a partecipare eravamo in pochissimi. Stiamo bene, nessuno di noi si è ammalato, non ci è mancato nulla: i confratelli del monastero di San Salvatore ci portavano il necessario, e noi lo ricevevamo attraverso la finestrella nel portone d’ingresso. Continuiamo a pregare, e chiediamo a tutti di unirsi spiritualmente alla nostra preghiera».

Ma se la provvidenza non è venuta meno ai frati del Santo Sepolcro, la crisi generale è dolorosamente tangibile. La città vecchia ha davvero un aspetto spettrale e surreale: solo i negozi del mercato locale sono aperti; volti stranieri non se ne vedono: quasi tutti sono residenti, arabi o ebrei. Le botteghe di souvenir e i ristoranti intorno al Santo Sepolcro, un tempo affollati di clienti, sono per lo più chiusi. Le strutture di accoglienza per pellegrini cristiani, nelle quali fino a pochi mesi fa non era facile trovare una camera libera, rimangono disabitate. «Per molto tempo ancora i viaggi e i pellegrinaggi — continua l’arcivescovo Pizzaballa — saranno difficili. Dovremo dunque ripensare noi stessi, in modo da custodire il legame con la Chiesa universale in altri modi, e cercare di trovare forme di supporto e di aiuto alle tante famiglie della comunità cristiana, e non solo, che a causa di questa situazione sono rimaste senza risorse e con prospettive di grande incertezza».

Un altro settore che contribuisce a generare insicurezza è l’educazione. La Chiesa cattolica in Terra Santa si spende generosamente nella formazione delle nuove generazioni, e le numerose scuole cattoliche gestite dal Patriarcato di Gerusalemme dei Latini e dai frati della Custodia di Terra Santa sono molto apprezzate. «Speriamo che le scuole possano riprendere regolarmente il prossimo anno — prosegue padre Patton — ma non ne abbiamo certezza. Per questo ci prepariamo anche alla didattica a distanza, come abbiamo fatto già nei mesi passati: grazie a questo impegno siamo riusciti a far completare l’anno scolastico a tutti, compresi i maturandi». La pandemia però ha colpito in modo assai pesante queste terre, soprattutto la Palestina e la Giordania, dove il possesso degli strumenti digitali per la didattica a distanza non è affatto scontato. E se già prima della crisi tante famiglie non erano in grado di pagare integralmente le rette, adesso il numero degli insolventi è ulteriormente accresciuto, mentre le direzioni scolastiche non possono sospendere il pagamento degli stipendi del personale. A questo si deve aggiungere che la colletta “pro Terra Sancta”, abitualmente effettuata il Venerdì santo, è stata posticipata al 13 settembre prossimo, e quindi i suoi benefici non potranno farsi sentire prima della fine dell’anno. Anche nell’ipotesi (invero alquanto ottimistica) che la raccolta si mantenga ai livelli consueti, rimangono problemi di scoperto finanziario per i mesi di posticipo rispetto agli ordinari flussi di cassa.

«Trasformare le crisi in opportunità»: è un ritornello che abbiamo ascoltato spesso, in questi mesi. Ma non è solo retorica. Così, ad esempio, il monastero Santa Chiara delle clarisse di Gerusalemme, che ha visto azzerati i suoi proventi ordinari, legati quasi esclusivamente all’accoglienza di pellegrini nella foresteria, sta vivendo questo momento difficile come un’occasione per ripensare il proprio stile di vita. «Una caratteristica fondamentale della nostra vita religiosa — dice la superiora suor Maria di Nazareth — è vivere il “privilegio della povertà”, come voleva santa Chiara. Le attuali difficoltà economiche ci invitano a ripensare cosa significa per noi essere povere davvero, e ci spronano a fare scelte di maggiore austerità. Così aumenta la nostra solidarietà con tante persone che la povertà non la scelgono, ma la subiscono».

La crisi economica, infatti, ha pesantemente colpito tutta la popolazione, penalizzando soprattutto le fasce più fragili. Si registrano nel solo Israele almeno 850.000 persone senza lavoro (più di un milione, secondo altre stime), con un tasso di disoccupazione balzato in pochi mesi dal 4 per cento al 21 per cento e oltre. Gravissima la situazione dei lavoratori stranieri, molti dei quali hanno perso l’impiego, pur dovendo affrontare le spese necessarie per vivere in un paese straniero: spesso infatti non hanno nemmeno la possibilità di tornare nella propria terra di origine. Un’emergenza sociale di cui il Patriarcato di Gerusalemme dei Latini si è fatto carico soprattutto attraverso il vicariato ebreofono di San Giacomo (per i cristiani di espressione linguistica ebraica) e il vicariato per i migranti, di recente istituzione. Ancora una volta, volendo guardare al futuro, si può sperare che la situazione di crisi possa spingere le comunità cristiane a stringere nuove reti di solidarietà e superare la logica assistenzialistica che, non di rado, affligge le Chiese più povere. Laddove la difficoltà è generale, a nessuno è consentito attendere la manna dal cielo, e ciascuno è chiamato a dare il suo contributo per progredire insieme.

«Una situazione particolarmente dolorosa — riferisce con toni accorati padre Francesco Patton — è quella vissuta in questo momento dai nostri frati in Libano e Siria. In Libano, perché gli effetti della pandemia si sommano alla preesistente crisi economica dovuta alla bancarotta statale, con effetti devastanti. In Siria poi, per usare le parole dei nostri parroci, stiamo passando dalla povertà alla miseria. Un anno fa — aggiunge il custode di Terra Santa — speravamo di aver superato la fase di emergenza legata al conflitto tra milizie jihadiste e potere statale, in cui l’impegno pastorale si doveva concentrare sugli aiuti alimentari e progettavamo di poterci occupare anche della ripresa e dello sviluppo… Invece siamo piombati nuovamente in una situazione in cui dobbiamo concentrare ogni sforzo sulle opere di carità relative ai bisogni primari, perché la gente si trova ridotta alla fame».

Ma il malessere sociale è sensibile e crescente anche in Israele. E non solo tra i cristiani: le manifestazioni di insofferenza da parte della popolazione locale, stretta tra i disagi delle misure anti-contagio e l’incalzante crisi economica, si fanno sempre più diffuse.  Nell’ultima settimana quasi ogni sera le strade di Gerusalemme intorno all’abitazione del premier Netanyhau sono state teatro di manifestazioni di protesta, più o meno affollate, e in diverse occasioni disperse dalle forze dell’ordine. Difficile dire se si tratti di contestazioni di politica interna nei confronti del leader, o più semplicemente di esplosioni di malcontento da parte di gente che sta male. Ma certamente il futuro della nazione non si profila sereno. Senza l’apporto del turismo — e i pellegrinaggi cristiani sono certamente una porzione non irrilevante di questo settore — è difficile formulare previsioni ottimistiche. Si può almeno sperare che le pesanti limitazioni, attualmente in vigore per l’ingresso in Israele a chi non è in possesso di passaporto israeliano, siano presto accantonate. Il termine per la riapertura delle frontiere è fissato all’1 di settembre, ma — come già si è verificato più volte — potrebbe essere prorogato.

Nel frattempo, non pochi italiani che vivono in Terra Santa, sia religiosi che laici, registrano difficoltà a rientrare in Israele, dopo un eventuale soggiorno in patria. «Devo tornare in Italia — racconta Barbara, che da diversi anni vive a Gerusalemme e lavora per una ong — perché è da troppo tempo che non vado, ma prima di partire ho raccolto tutte le mie cose in valigie e scatoloni, perché non sono sicura che mi daranno l’autorizzazione a ritornare qui. Ho lasciato le chiavi di casa ad un’amica, così eventualmente potrà spedirmi le mie cose. Speriamo bene…». Non dissimile la situazione di Daniele, un giovane che collabora da più di un anno come volontario al Christian Media Center della Custodia di Terra Santa: «A settembre dovrò rientrare in Italia perché si sposa mio fratello. Ma chissà se riuscirò a rientrare nei tempi previsti…». Più tranquillo è fra Alberto, direttore della scuola francescana di musica Magnificat: «Come mi è stato suggerito, ho scritto una lettera ai servizi consolari dell’ambasciata di Israele in Italia, spiegando che devo recarmi in Italia per un mese e poi rientrare qui in sede. Ho scritto in ebraico — vivo qui da 13 anni — e, forse per questo, mi hanno risposto subito, dicendo che mi avrebbero rilasciato il permesso senza esitazioni». Ma la presenza dei cristiani sembra sempre meno scontata in questa terra. Un motivo in più per non dimenticare questi luoghi, questa Chiesa e questa gente. «Se ti dimentico, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo…» (Salmo 137, 5,6).

di Filippo Morlacchi

Come ripensare la teologia dopo il trauma collettivo della pandemia

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La domanda di Theodor Adorno ritorna dopo ogni catastrofe: possiamo ancora filosofare o non dobbiamo rassegnarci al silenzio? E per il teologo ciò comporta far proprio il silenzio di Dio. Il sisma di Lisbona (1755), seguito dall’irrisione di Voltaire verso Leibniz, la shoah, e ora la pandemia, come ogni altra catastrofe, impongono la rinuncia al pensiero (logos che è anche linguaggio) o un “nuovo pensiero” (F. Rosenzweig)? E la comunità credente può rinunciare alla riflessione? Di fronte all’attuale tragedia i credenti si sono impegnati soprattutto su due fronti: quello che Antonio Rosmini chiamerebbe la “carità temporale” ossia la vicinanza e il soccorso delle persone colpite dal virus a diversi livelli e quello della devozione e dell’invocazione. Di fronte a queste scelte fondamentali l’opzione del silenzio teologico mi era sembrata la più opportuna, finché non mi ha raggiunto il grido di un amico/collega ormai in pensione: «Ci avete consolati, ma non ci avete illuminati!». Di qui l’impegno profuso ad accompagnare i momenti del dramma con riflessioni teologiche pubblicate sui media. Braccia (le mie) sottratte alla cura dei corpi e delle anime, con la pungente domanda rivolta da Lazzaro al buon Emanuele: «Poca teologia, eh? Poca teologia; religione, religione», mentre la sorella Angela si chiedeva se non era teologia anche questa (Miguel de Unamuno). E ora? Se è vero che tutto non sarà più come prima, non possiamo esimerci dalla domanda: che ne sarà della teologia in genere e in particolare di quella regione teologica che sono chiamato ad abitare nella didattica e nella ricerca, denominata teologia fondamentale? A meno di non essere stati infetti dal virus della cecità, così ben descritto da José Saramago, non potremo continuare ad insegnare e a svolgere le nostre ricerche come se nulla fosse accaduto. In particolare la teologia fondamentale chiede di essere ripensata e dovrà subire una profonda metamorfosi, visto che la sua vocazione è quella di mostrare la credibilità della rivelazione cristiana nell’oggi della storia.

«Nessuna parola altisonante, nemmeno teologica, ha un immutato diritto dopo Auschwitz» (ancora Adorno). Allora una teologia umile, come anche una metafisica umile — in senso etimologico non spiritualistico — ma non rinunciataria potranno illuminare la consolazione e il conforto della pietà. Se infatti siamo chiamati a vigilare contro ogni manifestazione idolatrica e superstiziosa nel rapporto col sacro, non possiamo a nostra volta ricadere nell’idolatria del concetto, delle nostre idee, dei nostri filosofemi e delle nostre superbe teologie. E da questa sempre incombente tentazione Papa Francesco ci mette continuamente in guardia, per esempio allorché ammonisce nel suo twitter del 14 luglio (data storica e simbolica, spesso ideologicamente evocata): «Nel giorno del giudizio non saremo giudicati per le nostre idee, ma per la compassione che avremo avuto».

Per quanto riguarda la teologia fondamentale, mi sembra di poter indicare alcuni compiti imprescindibili per il suo new normal postpandemico. Un primo appello/compito, sul quale spesso ci si è interrogati, a prescindere dalla tragedia, ma che ora acquisisce ben altra qualità speculativa riguarda il rapporto fra esperienza religiosa e fede, orizzonti che non dobbiamo sbrigativamente identificare. L’epidemia si è intrecciata all’esperienza religiosa dei greci, come mostra Laurent de Sutter nel suo Cambiare il mondoL’epidemia e gli dei (Roma, Edizioni Tlon, 2020, euro 3,99), dove emerge con forza il tema del “sacrificio”, caro a Andrej Tarkovskij. Quando leggiamo che nel periodo di maggiore crisi si riscopre la preghiera, non sempre si tratta del vissuto credente. «La maggiore sacralità di un tempio è data dal fatto che in esso si va a piangere in comune» (de Unamuno), ma si tratta del “pianto inutile” di Solone per la morte del figlio. Diffondere l’idea che la preghiera cambia solo noi stessi e non la realtà risulterà fuorviante e tutt’altro che cristiano, in quanto la nostra preghiera è invocazione destinata a cambiare la realtà, anche quando non viene immediatamente esaudita, nella logica dominante del tutto e subito. Infatti la nostra preghiera eucaristica ottiene da Dio che il pane e il vino trasmutino la loro sostanza nel corpo e nel sangue di Cristo: non è solo il nostro modo di porci di fronte alle specie eucaristiche che si modifica, ma la realtà stessa in esse contenuta e che siamo invitati a mangiare e bere. E quando la preghiera non viene esaudita non dobbiamo dimenticare quanto scriveva Dietrich Bonhoeffer all’amico Eberhard Bethge dal carcere di Tegel il 14 agosto del 1944: «Dio non realizza tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse, cioè egli rimane il signore della terra […]». In Giobbe e Gesù di Nazareth Dio ha realmente esaudito le loro invocazioni, mantenendo tutte le sue promesse: al “paziente” di Uz Egli restituisce quanto ha perduto, come a Gesù la vita che gli era stata tolta. Ma non si tratta di un puro e semplice ritorno alla vita precedente, ma di una reale e profonda novità (new normal), donata attraverso la sofferenza e la croce, perché «l’amore è contemporaneamente fratello, figlio e padre della morte» (de Unamuno).

Giobbe e il Crocifisso impongono un secondo compito al teologo fondamentale: quello di farsi carico della teodicea, ovvero della riflessione sul rapporto fra l’esistenza di Dio e il male del mondo, soprattutto nella forma del dolore innocente. Accade che i teologi si fermino, nella lettura di Giobbe alla teofania del capitolo 38 del testo sapienziale e nella vicenda di Gesù al venerdì santo, ritenendo le loro invocazioni non esaudite, adottando così una teodicea apofatica e, non so quanto consapevolmente, obbedendo al divieto kantiano di mettere in atto ogni tentativo di riflessione filosofico-razionale sul tema del dolore innocente. Già Rosmini ha infranto, con la sua monumentale e geniale Teodicea (1845), il divieto kantiano riportando la questione all’“ordine soprannaturale”, ossia offrendo una teodicea staurologica e cristocentrica, incentrata sul mistero della croce e il suo compimento nel mistero pasquale. Tale orizzonte va oltre una concezione che vede ogni male (anche la pandemia) come castigo (teodicea amartiocentrica) e supera anche il silenzio assoluto di fronte al mistero (teodicea apofatica). Nel secolo breve, grazie al lavoro di Johann Baptist Metz, abbiamo imparato a declinare teologicamente la teodicea. Oggi l’icona del crocifisso grondante di pioggia nella preghiera di piazza San Pietro del 27 marzo mi sembra atta ad esprimere questa prospettiva, che il teologo è chiamato ad elaborare ed articolare con l’esercizio del pensiero credente. Le prime due prospettive abitano rispettivamente le due prediche di padre Paneloux ne La peste di Albert Camus, il cui protagonista resta non credente. L’icona che emoziona e commuove deve farci pensare e potrà convertirci ad un cristianesimo autentico e non convenzionale. In questo contesto si tratta di ripensare il “principio di causalità”, attenzionando la dinamica della “causalità errante” evocata da Platone nel Timeo (letteralmente una causa che “plana”, guidata non da un “motore immobile”, ma dal vento che tira e trasmette anche virus). Ma anche superando la formula della “permissione del male” per orientare la riflessione verso il fatto che Dio non permette il male, ma lo “subisce”. Ed è questa “compassione di Dio” a esprimersi nella nostra compassione (espressa nel twitter del Papa). Un paradosso perché se Dio non patisse non potrebbe essere compassionevole, così se noi non patissimo non potremmo avere compassione per nessuno, nemmeno per Dio stesso e il suo Figlio.

In terzo luogo ed infine, se il trauma diventa luogo di invocazione e di esperienza religiosa, esso tuttavia ci pone soprattutto di fronte alla Parola, da cui si genera la fede che salva, come ha brillantemente mostrato il teologo quacchero David M. Carr, nel suo saggio Santa resilienzaLe origini traumatiche della Bibbia (Brescia, Queriniana, 2020, pagine 272, euro 27). La scrittura, a livello personale, spesso nasce dal dolore e dal trauma di una malattia, della perdita di una persona cara, di una delusione amorosa, ma qui siamo di fronte al trauma collettivo, che Israele racconta e cristallizza nel testo santo, mentre ad esempio, in occasione del ritorno dall’esilio, ritrova il rotolo di quello che possiamo indicare come un proto-Deuteronomio, e gli scribi «leggono nel Libro» e commentano il testo, interpretandone il senso. Siamo quindi chiamati, nel trauma e nel suo post, non a leggere il Libro, ma in esso la nostra storia, le nostre vicissitudini, le nostre angosce e speranze. E se la rivelazione eccede la Scrittura, dobbiamo saper ritrovare nelle devozioni e nelle pratiche autentiche e non superstiziose della pietà popolare il messaggio che la Parola di Dio intende porgere alle nostre personali e comuni esistenze. Così ad esempio sarà sempre necessario riportare ai misteri di Gesù, che meditiamo nel rosario, la nostra preghiera. È il vangelo che va annunciato, anche se non solo attraverso la lettura, e la storia ci insegna che, nelle espressioni pittoriche, scultoree ed architettoniche della fede, si consegna una biblia pauperum soprattutto a quanti non hanno accesso ai testi biblici o perché non sanno leggerli e interpretarli o perché si smarrirebbero nella loro complessità.

di Giuseppe Lorizio / Osservatore Romano

Pandemia: una lettura biblico-spirituale

«Come cambieranno le cose? Come saremo? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo? Perché un Dio buono permette tutto ciò ai suoi figli? Nelle domande dei vescovi è emersa la necessità di una lettura spirituale e biblica di ciò che sta accadendo». Ha preso corpo così un documento della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della CEI, datato 23 giugno 2020, dal titolo “È risorto il terzo giorno”, che pubblichiamo integralmente.

lettura pandemia

  • «Ad un certo punto – non saprei dire come – mi sono ritrovata con mio marito e i miei figli a casa senza poter più uscire come prima. E mi sono dovuta inventare maestra, chef, catechista…». (V.D., impiegata)
  • «La colonna dei mezzi militari, che a Bergamo portano via le bare di notte? Chi potrà più dimenticarla? Per me non c’è dubbio: quella è l’immagine della vittoria della morte». (L.P., studente)
  • «Mi affaccio dalla finestra e guardo il parco. E mi viene sempre voglia di scendere per giocare a pallone con i miei compagni». (M.B., bambino)
  • «Avrei semplicemente voluto salutare mio padre nell’ultimo istante della sua vita. Avrei voluto almeno dirgli “grazie” o “perdonami” o “tranquillo, un giorno ci rivedremo”. E invece neanche questo». (S.F., avvocato)
  • «Sì, mi manca di poter celebrare ogni giorno la Messa con la gente. Ma sai cosa? Mi è mancato di più poter dire una parola di conforto a quei morenti e poter celebrare il funerale con i loro familiari». (G.F., cappellano)
  • «Mentre vestivo la mascherina e i guanti pensavo a mia moglie e ai miei due figli a casa. Però mi dicevo: “Sei un medico: quei pazienti aspettano te, la tua professionalità e la tua umanità”». (S.R., medico)
  • «“Preghiera” è una parola grossa, quando sei a casa con tre bambini piccoli e una persona anziana da accudire. Diciamo che alle 7, mentre tutti ancora dormivano, vedevo la messa del Papa in tv e che la sera con mia madre dicevamo il rosario. Va bene così? (C.L., casalinga)
  • «Tutto il giorno allo schermo del computer con amici e compagni. Anche se siamo sempre insieme, posso dire che mi mancano?». (I.P., adolescente)
  • «Ho sentito che avevano bisogno di volontari per la mensa della Caritas in parrocchia. Quando ho deciso di andare, mio padre si è opposto. Allora gli ho detto: “Ma se lì non ci vanno quelli belli e in gamba come me, chi vuoi che ci vada?”. Mi ha sorriso e mi ha lasciato andare». (M.T., volontario)
  • «Don, è cambiato tutto: è successo qualcosa di grosso. Voi preti ve ne siete accorti? Se tornate a dire le stesse cose e sempre nello stesso modo, davvero stavolta non vi ascolterà più nessuno». (S.C., segretaria)
  • «Come cambieranno le cose? Come saremo? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo? Perché un Dio buono permette tutto ciò ai suoi figli? Nelle domande dei vescovi è emersa la necessità di una lettura spirituale e biblica di ciò che sta accadendo». (Consiglio permanente CEI, 16 aprile 2020)
Il tempo dell’ascolto

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1).

Così ci ha insegnato il Concilio. Ed è con questo spirito, con apertura di cuore, che vogliamo lasciarci interrogare sulle conseguenze che segnano il nostro Paese – e non solo – all’indomani della pandemia da Coronavirus.

lettura pandemia

Rivolgendoci idealmente sia ai credenti che ai non credenti, come pastori intendiamo proporre una “lettura spirituale e biblica” di questa esperienza, che ci riguarda tutti in primo luogo come persone umane.

Per noi cristiani, in particolare, lo sguardo su ogni avvenimento della vita passa attraverso la lente del mistero pasquale, che culmina nell’annuncio che Cristo «è risorto il terzo giorno» (1Cor 15,4). Queste poche parole esprimono il nucleo della fede della comunità credente, la fiducia in una grazia che ci è stata donata e che continua ad espandersi nello spazio e nel tempo. Lì per noi il tempo degli uomini e l’eternità di Dio si sono incontrati, divenendo il centro della storia, il criterio fondamentale, la chiave interpretativa dell’intera realtà.

È tempo di ascoltare insieme la voce dello Spirito, che Gesù ci ha consegnato sulla croce (cf. Gv 19,30) e nel Cenacolo (cf. Gv 20,22). Il compito dello Spirito è di far approfondire la verità di quanto accade (cf. Gv 16,13).

Proveremo quindi ad accostare la nostra realtà, lasciandoci guidare dalla sua voce, facendo tesoro innanzitutto delle pagine della Bibbia, che raccontano le ultime ore dell’esperienza terrena di Gesù: in quelle pagine è riservato uno spazio aperto, in cui i credenti possono incontrare nuovamente il Signore, mentre i non credenti possono sentire accolte e custodite le loro domande.

Il dramma del Venerdì

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Nel racconto evangelico il grido uscito dal cuore di Gesù Crocifisso rimane sul momento senza risposta. Possiamo immaginare che anche i familiari di Gesù o i suoi amici, chi gli era rimasto vicino o chi si era allontanato, abbiano fatto proprie quelle parole: «Dio nostro, perché ci hai abbandonato?».

In questi mesi di pandemia tutti ci siamo chiesti il senso di un’esperienza così imprevedibile e tragica. «Si fece buio su tutta la terra» (Mt 27,45): è come se quelle tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio del Venerdì, si siano ora dilatate, avvolgendo il nostro mondo con le tenebre della sofferenza e della morte.

La pandemia ha rivelato il dolore del mondo: ne ha di certo prodotto e ne produrrà anche in futuro, con conseguenze economiche e sociali vaste e persistenti. Si tratta di sofferenze profonde: come la morte di persone care, soprattutto di anziani, senza la prossimità dell’affetto familiare, il senso di impotenza di medici e infermieri, lo smarrimento delle istituzioni, i dubbi e le crisi di fede, la riduzione o la perdita del lavoro, la limitazione delle relazioni sociali.

La pandemia ha anche risvegliato bruscamente chi pensava di poter dormire sicuro sul letto delle ingiustizie e delle violenze, della fame e della povertà, delle guerre e delle malattie: disastri causati in buona parte da un sistema economico-finanziario fondato sul profitto, che non riesce a integrare la fraternità nelle relazioni sociali e la custodia del creato. Il Coronavirus ha dato una scossa alla superficialità e alla spensieratezza e ha denunciato un’altra pandemia, non meno grave, spesso ricordata da papa Francesco: quella dell’indifferenza. L’immagine del mondo, colorato di zone rosse in base alla diffusione del virus, fa pensare all’immagine biblica della terra “rossa”, perché bagnata dal sangue del fratello che “grida” a Dio (cf. Gen 4,10).

Tutto questo è come riassunto dall’urlo di dolore lanciato dal Crocifisso verso il cielo, quasi un’accusa a Dio, una drammatica domanda di senso posta di fronte alla morte: perché tanta sofferenza nel mondo? È un interrogativo che risuona nel cuore di tutti, credenti e non credenti, e che chiede di essere raccolto.

Sul Calvario c’è però dell’altro. Nei pressi della croce ci sono alcune donne, il discepolo amato, il centurione, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea: poche persone, certo, ma rappresentanti di un resto di umanità capace di “stare in piedi” sotto la croce (cf. Gv 19,25) per tenere compagnia a Gesù, per accompagnarlo alla morte, per garantirgli una sepoltura dignitosa. Quel Venerdì si rivela così un giorno non solo di violenza e morte, ma anche di pietà e condivisione.

Se guardiamo il nostro presente alla luce di questa scena, non possiamo non riconoscere che anzitutto i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari sono “stati in piedi” sotto la croce delle persone contagiate. I ministri delle comunità, i collaboratori pastorali e i volontari, i catechisti e gli operatori delle Caritas, hanno alleviato le povertà materiali, psicologiche e spirituali.

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I giornalisti hanno portato immagini e parole di speranza nelle case, negli ospedali, nei centri per anziani e nelle strutture di detenzione. Le forze dell’ordine e tanti volontari hanno svolto il loro servizio alla collettività con coraggio e dedizione. Alle norme restrittive dettate dalle istituzioni nazionali e locali i cittadini hanno risposto sostanzialmente con grande senso di responsabilità.

Anche se a volte non sono mancate le difficoltà, le famiglie si sono rivelate spazi di relazioni nuove, vere e proprie “Chiese domestiche”, nelle quali è fiorita la preghiera, la celebrazione nel tempo di Pasqua, la riflessione e le opere di carità. Anche così si sono riscoperti quel “sacerdozio battesimale” e quel “culto spirituale”, che non sempre ricevono il giusto spazio nella vita delle nostre parrocchie.

Le confessioni cristiane si sono ritrovate per alcuni momenti di preghiera, approfondendo i tradizionali legami ecumenici; e alcune comunità musulmane e di altre religioni hanno espresso vicinanza e solidarietà.

A ben vedere, il Venerdì santo della storia umana porta con sé l’abisso del dolore, ma anche gesti nuovi di fede e di carità, aderenti alle fragilità e attenti alle relazioni personali. Mai come ora i richiami di papa Francesco nell’Evangelii gaudium suonano come un vero programma pastorale: «La realtà è superiore all’idea» (n. 231); «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (n. 49); «Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione, ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (n. 169).

Il silenzio del Sabato

«E fu sepolto» (1Cor 15,4). Dopo la morte, Gesù si è lasciato deporre dalla croce, stendere a terra, avvolgere nei teli, porre dentro il sepolcro, oscurare da una grossa pietra. Quella che il corpo di Gesù subisce è una passività preziosa, che rivela la nostra stessa passività: veniamo al mondo perché voluti e accolti da altri, siamo sfamati, nutriti e vestiti da altri e, alla fine, non saremo più padroni del nostro corpo, consegnato ad altri e alla terra.

Che lo vogliamo o no, siamo “dipendenti”, siamo limitati.

Il virus ha assestato un colpo fatale al delirio di onnipotenza, allo scientismo autosufficiente, alla tendenza prometeica dell’uomo contemporaneo. Ha creato una profonda inquietudine, quasi un trauma planetario, specialmente nelle zone ricche e industrializzate della terra: uno smarrimento speculare rispetto al senso di sicurezza che diventava facilmente spavalderia. Improvvisamente, anche questa parte di umanità ha dovuto fare i conti con il limite, con la propria consegna nelle mani di altro da sé, con una grossa pietra all’ingresso del sepolcro.

E ci si è resi conto, come ha ricordato papa Francesco, che «siamo sulla stessa barca» (27 marzo 2020): non esistono navi sicure e zattere sfasciate, ma un unico grande traghetto sul quale pochi credevano di potersi riservare scomparti privilegiati. Adesso – si potrebbe dire – «siamo nello stesso sepolcro»: condividiamo paura e morte, ansia e povertà. Tutti, senza distinzione, abbiamo fretta di uscire dal sepolcro. Vorremmo risorgere subito dopo il Golgota. Ma in questa fretta si nasconde una tentazione: quella di considerare la pandemia una brutta parentesi, anziché una prova per crescere; un chrónos da far scorrere il più velocemente possibile, anziché un kairós da cogliere e da cui lasciarsi ammaestrare.

Il giorno dopo la morte di Gesù è segnato dal silenzio. Non un silenzio vuoto, ma riempito dall’attesa e dalla condivisione.

Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebr 5,8). La sofferenza, che in quanto tale non va mai cercata e procurata, può diventare una scuola. Nelle vicende drammatiche di un evento che non abbiamo scelto ci è data la possibilità di entrare con umiltà per purificare il nostro sguardo e la nostra stessa fede.

In questi mesi, purtroppo, sono state anche rilanciate interpretazioni teologiche fuorvianti sulle origini della pandemia, presentata come punizione o flagello di Dio per i peccati degli uomini. Sono interpretazioni che hanno il sapore amaro delle parole degli amici di Giobbe che, presumendo di dare una spiegazione “logica”, finiscono per non sentire il dolore dei sofferenti e quindi non pensano secondo il Dio della Bibbia.

Nel silenzio del Sabato è emerso un altro atteggiamento scomposto: la tentazione del miracolo. Alcuni gesti, che poco hanno a che vedere con l’umile purezza della liturgia, svelano piuttosto la fatica di rimanere nel sepolcro, condividendo le domande e le ansie di ogni persona di fronte alla morte, accettando di rivolgersi con maturità e toni sommessi al Dio che è onnipotente nell’amore.

L’esperienza di questo tempo ha riproposto con forza un altro importante aspetto proprio del Sabato santo: il digiuno eucaristico. È emerso un sincero attaccamento di molti presbiteri e fedeli alla liturgia della Messa e alla comunione. Lo stretto legame tra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale – da cui la celebre espressione “l’Eucaristia fa la Chiesa” – si è mostrato una volta di più vero, per quanto vissuto nella forma della mancanza. Ma la scena era insolita: da una parte, il corpo eucaristico veniva ripresentato sull’altare dai presbiteri; dall’altra, il corpo ecclesiale nella sua forma assembleare era costretto a rimanere lontano dall’altare, dalla mensa e dalla comunità.

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Si trattava di una separazione innaturale, per quanto le trasmissioni televisive potessero in parte supplire, integrate dalle celebrazioni domestiche. Tuttavia, anche il digiuno eucaristico prolungato appartiene all’esperienza del dimorare nel sepolcro in attesa della risurrezione. Dalla condivisione della situazione a cui tante comunità cristiane sparse nel mondo sono costrette, a causa della persecuzione o della scarsità dei sacerdoti, si può imparare ad apprezzare di più la celebrazione eucaristica e il mandato di carità che ci consegna: la comunione eucaristica è finalizzata, infatti, alla comunione ecclesiale e al servizio reso ai fratelli (cf. 1Cor 11,17-29).

Sostare in pace e con coraggio nel sepolcro non è affatto facile: è però un passaggio necessario verso l’ascolto attento dei fratelli, verso una condivisione profonda delle fragilità, verso il recupero di un silenzio orante, verso un affidamento autentico al Signore.

La speranza della domenica

«È risorto… ed è apparso» (1Cor 15,5). L’annuncio del “terzo giorno”, lanciato da san Paolo nel kérygma della Lettera ai Corinzi, risuona nelle forme degli inni e delle narrazioni lungo tutto il Nuovo Testamento: le cosiddette “apparizioni” sono esperienze uniche, capaci di rinnovare in profondità la vita. Attraversando la morte, Gesù ha infatti cambiato la direzione della storia. Non si tratta di un suo privilegio esclusivo: egli è risorto come «primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20), come «primogenito dei morti» (Ap 1,5), come il primo di tutti, perché spalanca il sepolcro di ciascuno di noi.

Gesù risorge solo il terzo giorno, quando ormai la morte sembrava averlo inghiottito per sempre, quando la pietra pareva averlo tumulato definitivamente. Solo il terzo giorno, perché la risurrezione è vera e credibile quando abbraccia la morte e la sepoltura: il corpo di Gesù risorto è pienamente “trasfigurato”, perché in precedenza aveva accettato di essere completamente “sfigurato”. La sua gloria risplende, perché è passata attraverso una piena solidarietà con gli uomini: ha raccolto tutto l’umano, anche nei suoi risvolti più orribili.

La pandemia ha messo alla prova l’annuncio della speranza cristiana, la “beata speranza” di cui parla la liturgia. Forse ha svelato anche i limiti di una predicazione troppo astratta sulla vita eterna, frettolosamente preoccupata, quando non semplicemente silente, di rimandare all’aldilà senza sostare il tempo giusto sul Golgota e nel sepolcro. Nonostante i tentativi di rinnovare l’annuncio della speranza cristiana (cf. Benedetto XVI, Spe salvi), siamo rimasti ancorati ad una concezione secondo cui l’immortalità e la risurrezione sono temi del “post”: riguardano cioè solo ciò che saremo dopo la morte. Nella cultura occidentale temi come la fine e l’oltre sono stati in buona parte rimossi. La morte, imbarazzante e fastidiosa, ha subìto due tentativi di neutralizzazione: con il silenzio o, all’opposto, con la spettacolarizzazione. La vita eterna, con tutti i suoi risvolti – giudizio, paradiso, purgatorio, inferno, risurrezione – è banalizzata o relegata nello scaffale dell’evocazione simbolica: due tentativi di escluderla dall’orizzonte terreno, dalle cose umane su cui vale la pena puntare.

Per noi cristiani è sì una questione di linguaggio, ma è soprattutto una questione di esperienza e testimonianza. Il linguaggio va certamente aggiornato, non solo a livello teologico, ma anche della prassi pastorale e della predicazione; ma è soprattutto necessario saper cogliere i segni della vita eterna dentro la vita terrena di ogni giorno.

Il Vangelo di Giovanni spesso annuncia la vita eterna e la risurrezione al presente, ad esempio con le lapidarie parole di Gesù a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita» (cf. Gv 11,25). Chi cammina verso un traguardo desiderabile accetta anche le fatiche del percorso senza perdersi d’animo; chi cammina nella speranza della vita eterna trova tracce di eternità anche nel gesto di dare un bicchiere d’acqua ad un piccolo (cf. Mt 10,42). Vangelo alla mano, il formulario dell’esame finale sarà molto semplice: «Mi hai assistito quando ho avuto fame e sete, ero nudo e povero, ero straniero, malato e carcerato?» (cf. Mt 25,31-46). In definitiva, «alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (san Giovanni della Croce).

L’annuncio della speranza cristiana (Rm 5,5) è tutt’altro che alternativo alla speranza umana: l’averlo talvolta presentato come una raccolta di verità astratte, slegate dall’esistenza terrena e dalle sue attese, ha prestato il fianco all’accusa di alienazione, illusione o fantasia compensativa. L’escatologia cristiana è in realtà un’antropologia che reclama pienezza, una carità che inizia a prendere corpo nel presente e si orienta al suo compimento. Senza questo orizzonte, ogni germe di amore, ogni progetto, ogni desiderio e sogno, andrebbero inesorabilmente ad infrangersi: sarebbe davvero un raggiro la nostra vita sulla terra, se fosse sufficiente un virus o un terremoto, una distrazione in auto o un momento di disperazione perché tutto finisca, per sempre.

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La speranza cristiana si fonda sull’esperienza che la comunità credente fa del Risorto. Ancora otto giorni dopo la risurrezione di Gesù, infatti, i discepoli si ritrovano nel Cenacolo, in una casa, a porte chiuse (cf. Gv 20,19). Hanno una percezione angosciosa del rischio che corrono fuori da quell’ambiente, che adesso sentono come rassicurante ma che alla lunga sanno essere troppo angusto. Il Risorto li raggiunge nell’ambiente chiuso in cui si sono rifugiati: l’incontro avviene anzitutto il primo giorno dopo shabbat, cioè il primo giorno lavorativo dopo quello di riposo e di festa. Il Risorto viene ad attivare processi di vita evangelica nel tempo quotidiano dei discepoli.

Non si dice quanto si sia trattenuto con i discepoli: si può presumere che lo abbia fatto per tutto il tempo necessario per rasserenarli, per fare loro una catechesi sui misteri della fede e per motivarli ad un nuovo stile di vita.

Se, da una parte, il trauma della morte violenta di Gesù aveva disorientato i discepoli e li aveva fatti rinchiudere in se stessi, dall’altra, aveva paradossalmente sollecitato domande come quella di Tommaso – «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25) – che trovano adesso una risposta nel Risorto.

L’evento della risurrezione di Gesù pone il nostro desiderio di vita in un orizzonte di possibilità reale. La sua risurrezione comporta la definitiva trasfigurazione del corpo, l’ingresso della carne nella dimensione divina. Il suo corpo terreno è stato investito dallo Spirito e glorificato, anticipando la risurrezione finale di ciascuno di noi: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono.

Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare e a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo» (Evangelii gaudium, n. 276).

Per un cammino creativo

Una lettura pasquale dell’esperienza della pandemia non può prospettare il semplice ritorno alla situazione di prima, augurandosi di riprendere l’aratro da dove si era stati costretti a lasciarlo.

L’esperienza del Venerdì e del Sabato – la permanenza sulla croce e nel sepolcro – non può più essere vissuta dai cristiani come una parentesi da chiudere al più presto: deve, piuttosto, diventare una parenesi, cioè un’esortazione, un invito a maturare un’esistenza diversa. Risuonano ancora le parole di papa Francesco: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (Evangelii gaudium, n. 33).

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La croce e il sepolcro possono diventare cattedre che insegnano a tutti a cambiare, a convertirsi, a prestare orecchio e cuore ai drammi causati dall’ingiustizia e dalla violenza, a trovare il coraggio di porre gesti divini nelle relazioni umane: pace, equità, mitezza, carità. Sono questi i germi di risurrezione, i lampi della Domenica, che rendono concreto e credibile l’annuncio della vita eterna.

Se avremo imparato che tutto è dono, se da questo sorgerà un nuovo stile personale e comunitario, che rinuncia alla lagnanza e all’arroganza e adotta la condivisione, il ringraziamento e la lode, allora la pandemia ci avrà insegnato qualcosa di importante. L’avremo vissuta, letta ed elaborata ascoltando lo Spirito e partecipando al mistero della Pasqua di Gesù, Crocifisso e Risorto.

Ripartiremo, allora, come comunità ecclesiale sui passi dell’uomo del nostro tempo, animati da tenerezza e comprensione, da una speranza che non delude.

settimananews