Iraq: attentato a Kirkuk, almeno 30 morti

Almeno 30 persone hanno perso la vita e un’altra settantina sono rimaste ferite per l’esplosione di un’autobomba davanti al quartier generale della polizia nella città di Kirkuk nel nord dell’Iraq. Secondo le prime ricostruzioni della strage, un gruppo di uomini armati hanno tentato di dare l’assalto e di impadronirsi del complesso. Non riuscendovi, hanno fatto esplodere l’autobomba. (ANSA).

«Una lunga catena di guerre ma l’Iraq non è stato capito»

Il vescovo Sako: mancato del tutto l’approccio culturale

«Hanno trattato questo Paese come se fosse una fucina di estremismo. Ma in realtà non vi è nulla di più lontano dalla nostra realtà sociale»

DI
BARBARA UGLIETTI

V ent’anni. L’invasione del Kuwait, due Guerre del Golfo, la caduta del regi­me, l’occupazione americana, poi questa transizione che sembra non finire mai. Vent’anni che monsignor Louis Sako, oggi arcivescovo di Kirkuk, ha vissuto, gior­no dopo giorno, in Iraq. Parla in un italiano limpido – una delle 12 lingue che conosce – e dentro ogni pausa rinnova e risolve, in una manciata di secondi, la battaglia per­sonale di chi ha visto troppo. Troppo per a­ver ancora voglia di aspettare un cambia­mento; troppo per smettere di crederci. Il suo racconto è un’onda lenta che affonda ci­clicamente su tre parole – dittatura, fanati­smo, povertà – e risale su altre tre – futuro, dialogo, educazione. Concetti che ritorna­no nei «suoi» decenni iracheni come se tut­to in fondo fosse sempre stato uguale in un’alternanza di guerre e dittature e prove (fallimentari) di democrazia. «Vent’anni non sono bastati all’Occidente per capire l’Iraq» dice senza ombra di rimprovero, con il to­no di chi rileva un puro dato di fatto.

Cosa non è stato ancora capito?

Che questo è un Paese secolarizzato. Che gli iracheni vogliono essere prima di tutto cittadini. E che non hanno nel loro Dna i germi del fanatismo religioso e settario. E­ra l’unica cosa che aveva saputo intuire Sad­dam Hussein, istituendo un governo laico che poi purtroppo ha concretizzato quella dittatura atroce che abbiamo dovuto subi­re.

C’è questa non-comprensione alla radice dei tanti errori commessi nei tentativi di normalizzazione dell’Iraq?

Sì, è mancato del tutto un approccio cultu­rale rispettoso della pluralità e dell’intelli­genza di questo Paese, che aveva uno dei popoli più istruiti della regione. Negli anni l’Iraq, già ferito da una dittatura che ha tol­to tutto alla popolazione, anche l’aria per respirare, è stato trattato come una fucina di fondamentalismo, mentre non c’è nien­te di più lontano dalla nostra realtà. È stato un lento e lungo processo degenerativo che ha portato alla situazione di oggi, dove, per reazione paradossale, l’Iraq è diventato dav­vero un terreno di scontro fra estremismi, spesso provenienti da fuori.

Un processo iniziato quando?

Ero parroco a Mosul nel 1990, quando so­no iniziati i bombardamenti. Un mese di bombardamenti. E poi tutto è cambiato: il governo iracheno è diventato più aggressi­vo verso la popolazione. Ed è iniziato l’em­bargo: dodici anni di privazioni. L’econo­mia è crollata: non c’era acqua, non c’era e­lettricità. Noi siamo abituati a un pane di grano puro e abbiamo mangiato pane ne­ro che nemmeno sapevamo cosa conte­nesse. Quindi è iniziato l’esodo. Prima se n’è andata l’intellighenzia, poi la gente comu­ne, chi poteva. E tutto era controllato. L’Iraq si è trasformato in una grande prigione.

Che situazioni ha potuto sperimentare per­sonalmente?

Avevo una scuola a Mosul, ed eravamo co­stretti tutto il giorno ad ascoltare slogan che inneggiavano al regime e al presidente. Per noi cristiani, che almeno dentro le chiese a­vevamo libertà, iniziò un periodo terribile.

Qual è stato il momento peggiore per la sua comunità?

Devo dire negli anni precedenti: durante la guerra con l’Iran, perché tanti cristiani so­no stati uccisi. E non c’era famiglia che non avesse un figlio fuori a combattere. Ricordo i funerali, i tantissimi funerali che dovevo celebrare durante quella guerra.

E adesso?

Gli americani ci hanno aiutato molto, resti­tuendoci la libertà. Ma hanno un atteggia­mento pragmatico: provano una soluzione, e se non riesce ne provano un’altra. Il fatto è che in un Paese come questo, da­gli equilibri delicatissimi, può esse­re devastante. Devono capire che la strada è quella dell’educazione. Bi­sogna educare le nuove generazio­ni alla democrazia, all’interno di quadro progettuale a lungo termi­ne. E bisogna educare i dirigenti al­la leadership. Perché questa gente ha bisogno di un leader forte. Nel vuoto di potere che stiamo vivendo si sta invece rafforzando la deriva settaria. E sono convinto che l’Iraq stia andando ve­ro una divisione interna.

Quanto tempo ancora durerà questa tran­sizione?

Generazioni. Ci vuole un cambiamento di mentalità che implica l’educazione di inte­re generazioni. Dalla guerra con l’Iran – 1980-1988 – l’elettricità non è mai stata ri­parata. Andiamo avanti con i generatori, e fuori ci sono 50 gradi. Speriamo non succe­da lo stesso con la vita di questa gente.


L’arcivescovo di Kirkuk, Louis Sako, 62 anni. Sotto a sinistra, un bimbo iracheno «gioca» con le armi. Sotto a destra, un tank iracheno distrutto durante la prima Guerra del Golfo (Ap)




  avvenire.it 1 agosto 2010