«Una lunga catena di guerre ma l’Iraq non è stato capito»

Il vescovo Sako: mancato del tutto l’approccio culturale

«Hanno trattato questo Paese come se fosse una fucina di estremismo. Ma in realtà non vi è nulla di più lontano dalla nostra realtà sociale»

DI
BARBARA UGLIETTI

V ent’anni. L’invasione del Kuwait, due Guerre del Golfo, la caduta del regi­me, l’occupazione americana, poi questa transizione che sembra non finire mai. Vent’anni che monsignor Louis Sako, oggi arcivescovo di Kirkuk, ha vissuto, gior­no dopo giorno, in Iraq. Parla in un italiano limpido – una delle 12 lingue che conosce – e dentro ogni pausa rinnova e risolve, in una manciata di secondi, la battaglia per­sonale di chi ha visto troppo. Troppo per a­ver ancora voglia di aspettare un cambia­mento; troppo per smettere di crederci. Il suo racconto è un’onda lenta che affonda ci­clicamente su tre parole – dittatura, fanati­smo, povertà – e risale su altre tre – futuro, dialogo, educazione. Concetti che ritorna­no nei «suoi» decenni iracheni come se tut­to in fondo fosse sempre stato uguale in un’alternanza di guerre e dittature e prove (fallimentari) di democrazia. «Vent’anni non sono bastati all’Occidente per capire l’Iraq» dice senza ombra di rimprovero, con il to­no di chi rileva un puro dato di fatto.

Cosa non è stato ancora capito?

Che questo è un Paese secolarizzato. Che gli iracheni vogliono essere prima di tutto cittadini. E che non hanno nel loro Dna i germi del fanatismo religioso e settario. E­ra l’unica cosa che aveva saputo intuire Sad­dam Hussein, istituendo un governo laico che poi purtroppo ha concretizzato quella dittatura atroce che abbiamo dovuto subi­re.

C’è questa non-comprensione alla radice dei tanti errori commessi nei tentativi di normalizzazione dell’Iraq?

Sì, è mancato del tutto un approccio cultu­rale rispettoso della pluralità e dell’intelli­genza di questo Paese, che aveva uno dei popoli più istruiti della regione. Negli anni l’Iraq, già ferito da una dittatura che ha tol­to tutto alla popolazione, anche l’aria per respirare, è stato trattato come una fucina di fondamentalismo, mentre non c’è nien­te di più lontano dalla nostra realtà. È stato un lento e lungo processo degenerativo che ha portato alla situazione di oggi, dove, per reazione paradossale, l’Iraq è diventato dav­vero un terreno di scontro fra estremismi, spesso provenienti da fuori.

Un processo iniziato quando?

Ero parroco a Mosul nel 1990, quando so­no iniziati i bombardamenti. Un mese di bombardamenti. E poi tutto è cambiato: il governo iracheno è diventato più aggressi­vo verso la popolazione. Ed è iniziato l’em­bargo: dodici anni di privazioni. L’econo­mia è crollata: non c’era acqua, non c’era e­lettricità. Noi siamo abituati a un pane di grano puro e abbiamo mangiato pane ne­ro che nemmeno sapevamo cosa conte­nesse. Quindi è iniziato l’esodo. Prima se n’è andata l’intellighenzia, poi la gente comu­ne, chi poteva. E tutto era controllato. L’Iraq si è trasformato in una grande prigione.

Che situazioni ha potuto sperimentare per­sonalmente?

Avevo una scuola a Mosul, ed eravamo co­stretti tutto il giorno ad ascoltare slogan che inneggiavano al regime e al presidente. Per noi cristiani, che almeno dentro le chiese a­vevamo libertà, iniziò un periodo terribile.

Qual è stato il momento peggiore per la sua comunità?

Devo dire negli anni precedenti: durante la guerra con l’Iran, perché tanti cristiani so­no stati uccisi. E non c’era famiglia che non avesse un figlio fuori a combattere. Ricordo i funerali, i tantissimi funerali che dovevo celebrare durante quella guerra.

E adesso?

Gli americani ci hanno aiutato molto, resti­tuendoci la libertà. Ma hanno un atteggia­mento pragmatico: provano una soluzione, e se non riesce ne provano un’altra. Il fatto è che in un Paese come questo, da­gli equilibri delicatissimi, può esse­re devastante. Devono capire che la strada è quella dell’educazione. Bi­sogna educare le nuove generazio­ni alla democrazia, all’interno di quadro progettuale a lungo termi­ne. E bisogna educare i dirigenti al­la leadership. Perché questa gente ha bisogno di un leader forte. Nel vuoto di potere che stiamo vivendo si sta invece rafforzando la deriva settaria. E sono convinto che l’Iraq stia andando ve­ro una divisione interna.

Quanto tempo ancora durerà questa tran­sizione?

Generazioni. Ci vuole un cambiamento di mentalità che implica l’educazione di inte­re generazioni. Dalla guerra con l’Iran – 1980-1988 – l’elettricità non è mai stata ri­parata. Andiamo avanti con i generatori, e fuori ci sono 50 gradi. Speriamo non succe­da lo stesso con la vita di questa gente.


L’arcivescovo di Kirkuk, Louis Sako, 62 anni. Sotto a sinistra, un bimbo iracheno «gioca» con le armi. Sotto a destra, un tank iracheno distrutto durante la prima Guerra del Golfo (Ap)




  avvenire.it 1 agosto 2010