I cattolici italiani e le loro scelte elettorali. Gli interessi più dei valori?

Avvenire

Fra le questioni che l’elezione europea del maggio 2019 ha lasciato aperte vi è quella che fa riferimento al rapporto tra voto politico e atteggiamento religioso. In alcuni momenti della storia d’Italia è apparso assai stretto il nesso che collegava fra loro l’atteggiamento verso la religione (e, in generale, la pratica religiosa) e le scelte di voto dei cittadini. Per circa mezzo secolo la Democrazia Cristiana ha direttamente o indirettamente beneficiato di questo collegamento, dal quale sono derivate dapprima le sue fortune e poi le sue sfortune. Dopo la fine della Dc, con la progressiva frantumazione di quell’eredità politica e morale, e in assenza di formazioni politiche facenti esplicito e dichiarato riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa e, in generale, ai valori evangelici, questo nesso si è quasi del tutto spezzato e il voto dei cattolici, anche di quelli dichiaratamente praticanti, si è decisamente spostato dal punto deivalori (tutti, non solo alcuni) a quello degli interessi. Un fenomeno che riguarda l’intero corpo elettorale – anche il direttore di questo giornale insiste da tempo su tale processo – ma che nel caso dei cittadini-elettori cattolici più impegnati sta diventando particolarmente stridente e impressiona persino di più.

Si tratta di una scelta di per sé anche legittima – apparendo comprensibile che i singoli cittadini abbiano a cuore i propri interessi, reali o presunti –, ma che di per sé fa intravedere alcune ombre: è infatti legittimo, per i singoli credenti, votare per una forza politica che tuteli i propri interessi prescindendo del tutto dall’attenzione ad alcuni fondamentali valori? Tentare di dare una risposta a questo interrogativo in modo organico e articolato supererebbe inevitabilmente il breve spazio di un articolo di giornale. Ciò per altro esime dal prospettare alcune considerazioni che dovrebbero, quanto meno, indurre a una seria riflessione (e, se necessario, a una sincera autocritica). Rispondere a questo interrogativo impone necessariamente anche una riflessione sul senso e il valore della politica, di qualunque politica. Essa ha come unico e principale compito quello di promuovere e tutelare gli interessi (sia pure legittimi) o deve anche farsi carico – in una prospettiva più ampia e più completa – di quello che tradizionalmente, nel linguaggio del tradizionale insegnamento della Chiesa, è stato da sempre definito il Bene comune? In quest’ultima prospettiva dovrebbe essere ritenuto doveroso compiere una scelta di campo a favore di coloro che meglio garantiscono, o sembrano garantire, il perseguimento più completo possibile dei valori piuttosto che la tutela dei propri interessi. Ma sembra che difficilmente ciò avvenga, anche nell’ambito di coloro che si considerano credenti e che forse, al momento del voto – quasi prigionieri, appunto, dei propri interessi – si lasciano da questi, e da questi soltanto, condizionare.

La constatazione di tale divario – che da alcuni decenni a questa parte sembra diventato sempre più accentuato – dovrebbe preoccupare non poco la comunità cristiana. Certo – lo scriveva circa 1.800 anni fa la “Lettera a Diogneto” –, i cristiani sono come gli altri e vivono nella stessa città degli altri con gli stessi doveri; ma non devono in tutto e per tutto lasciarsi assimilare, consegnarsi a quello che una volta si era soliti chiamare lo “spirito del tempo” (oggi lo “spirito delle mode” o forse addirittura lo “spirito della guida” di turno…). A parere di chi scrive, si impone dunque, per la comunità cristiana, a tutti i livelli, a partire dagli inizi del cammino catechistico per arrivare alle omelie domenicali e, augurabilmente, a vere e proprie scuole di “educazione alla cittadinanza”, un arduo ma necessario compito di formazione dei fedeli.

Un compito fondato sull’educazione alla socialità, ‘grande assente’, assai spesso, della normale pastorale e della prevalente omiletica: per evitare che l’appello ai valori del grande e concreto umanesimo al quale il cristianesimo ha dato anima sia semplicemente una «voce che grida nel deserto » o, peggio ancora, diventi sempre più una malaccorta copertura di inconfessati, e anche inconfessabili, interessi.

La chiesa e la rete. Cattolici sui social network questione di consapevolezza

Cattolici sui social network questione di consapevolezza

Come si comunica nel digitale? Meglio: come può e deve comunicare la Chiesa soprattutto sui social? La prima cosa che occorre tenere presente è che i social non sono tutti uguali. Twitter, per esempio, è il social del «qui e ora», dove si «chiacchiera» e, a volte, si litiga a colpi di frasi con massimo 280 caratteri. È il luogo dove le notizie arrivano prima e dove si formano le polemiche. Nel nostro caso può servire per dare annunci molto importanti o per portare la voce della Chiesa all’interno di fatti accaduti da poco e che stanno facendo discutere. Se pensate invece di usarlo per far circolare notizie «normali» che rimandano al sito parrocchiale o diocesano, vi accorgerete che non è il social adatto.

Instagram è il social alla moda. In due anni anche in Italia ha raddoppiato i sui iscritti. A settembre 2018 erano 22,3 milioni (oltre 1 miliardo a livello mondiale). Piace soprattutto agli under 30. Perché è il social delle immagini (dove tutto sembra bello), dove l’interazione è inferiore (e quindi meno impegnativa) rispetto agli altri social. Piace perché diverte e distrae. Per portare la vostra voce di senso in un luogo simile dovrete impegnarvi su più fronti. Studiare lo stile delle foto e dei video (corti) che postate, studiare come convertire i vostri contenuti in «Storie», e – dopo avere fatto tutto questo – vi accorgerete che per creare attenzione attorno a temi profondi si fa una fatica enorme.

Passiamo a Facebook. Piaccia o meno, se volete raggiungere più persone possibili dovete andarci. Nonostante quello che si pensa (è in crisi, non piace ai giovani, eccetera) è ancora il social più popolare (e quello che genera più traffico). Secondo i dati AgCom, a settembre 2018 l’audience di Facebook in Italia avrebbe raggiunto 35,7 milioni di persone, con una crescita di ben 9,3 milioni di persone rispetto al settembre 2017. Facebook è il social più versatile. Quello che ospita post anche lunghi, dirette video, confronti (e polemiche). È il luogo dove potete creare gruppi di discussione privati (ristretti solo a un certo numero di partecipanti selezionati) ma è anche – e soprattutto – quello che vi espone di più. Sono sempre più frequenti i casi, infatti, nei quali post parrocchiali o di singoli sacerdoti che erano stati pensati per scuotere una comunità (e quindi rimanere circoscritti in ambiti precisi) sono rimbalzati al punto da diventare notizie nazionali da prima pagina.

Questo è uno dei punti nodali anche della comunicazione ecclesiale: non esistono più barriere né «campi circoscritti», quello che anche un singolo sacerdote scrive sul proprio profilo Facebook può diventare un caso nazionale. Perché i social sono luoghi pubblici. E tutto quello che si pubblica è pubblico. Perfino quando decidiamo che certi post sono destinati a una schiera ristretta di amici basta che una sola persona che riteniamo «amica» faccia lo screenshot di un nostro post privato perché venga messo in circolo come pubblico. Nella comunicazione digitale il «privato» è un’utopia. Lo sanno bene coloro che hanno visto diventare pubblici persino certi messaggi WhatsApp.

Non significa che non dobbiamo più pubblicare alcunché ma sapere sempre che ciò che pubblichiamo potrà (anche) essere usato contro di noi. Questo è un problema che riguarda soprattutto i singoli (sacerdoti, suore e religiosi) visto che per stile e «dna» istituzioni, ordini e diocesi sono da tempo abituati a comunicare in maniera meno «emotiva». Non è un problema da poco. Perché i nostri amici social amano le persone che raccontano di sé e che non hanno paura di esprimere le proprie opinioni – anzi, più certe persone gridano le proprie e più vengono «premiate». Ma come dice Sree Sreenivasa, che insegna giornalismo digitale alla Columbia University, «nessuno presterà attenzione a quel che lanciate online, fino al momento in cui commetterete un errore: allora tutti vi verranno addosso».

Qualunque possa essere il rischio di abitare i social, i vantaggi restano ancora tanti. Non esiste un mezzo così potente per raggiungere in fretta tante persone. Bisogna però tenere a mente alcune «regole». Prima di portare la comunicazione ecclesiale sui social occorre chiedersi (rispondendo nel modo più profondo e sincero possibile): perché vado sui social? Cosa voglio comunicare? Con quale stile? Ho tempo di ascoltare le critiche e le esigenze della mia «comunità digitale» o cerco solo un pubblico che mi gratifichi e metta «mi piace» a tutto ciò che faccio?

Forse vi sembrerò esagerato, ma senza un «piano editoriale» (che risponda alle domande accennate qualche riga sopra), tempo da dedicare (che deve essere «giusto» ma non eccessivo, perché la gente non cerca preti che «vivono sui social» ma che «comunicano sui social») e qualche professionista che vi aiuti, la vostra comunicazione vi sembrerà perfetta, ma solo finché non commetterete un errore.

da Avvenire

100 anni fa l’appello ai “Liberi e forti” di don Luigi Sturzo. Il suo esempio: “Risuona nell’animo di quanti hanno a cuore le sorti del Paese, ancora una volta lacerato e diviso”

Bassetti: Italia ritrovi «via della concordia e della fraternità»
da Avvenire

Nella basilica dedicata ai Santi dodici Apostoli a Roma cristiana che “ha conosciuto infatti la preghiera nascosta, e non per questo meno intensa, di un gruppo di credenti, guidati dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, mentre intendevano mettersi all’opera per offrire il loro servizio politico all’Italia del primo dopoguerra lacerata da divisioni ideologiche, economiche e sociali” il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha celebrato la Messa nel centenario di questo episodio, passato alla storia come l’appello ai «Liberi e forti», e nel 60° anniversario della morte di don Sturzo.

IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA

Al centro del Vangelo odierno la guarigione del paralitico: “Uno dei miracoli più importanti dell’attività di Gesù in Galilea – ha ricordato il porporato nell’omelia -, perché non soltanto comporta la guarigione da una situazione incurabile, ma anche, e soprattutto, la liberazione da quella che si può descrivere ugualmente come una forma di paralisi: la condizione che viene dal peccato”. “Il Medico dell’umanità, il Salvatore, guarisce congiuntamente corpo e anima”. Un altro passaggio del Vangelo di Marco viene sottolineato dall’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve per mettere in luce che “Gesù è tornato in città e non è rimasto fuori dal luogo abituale in cui gli uomini vivono!” e dunque “vi abbia anche in un certo modo esercitato un ruolo civile, che certamente si esprimeva attraverso l’interessamento per la vita di quella povera gente, che viveva principalmente grazie alla pesca e ai commerci”.
“È questo il passo – ha proseguito il cardinale Bassetti nella sua riflessione – che ci permette di ritenere ancora attuale l’Appello di don Luigi Sturzo ai liberi e forti. Un messaggio che ci permette di cogliere in tutta la sua portata il valore storico-sociale dell’opera di don Sturzo, un uomo che, dall’esperienza concreta del suo vissuto di sacerdote, ebbe l’intuizione di chiamare a raccolta i cattolici liberi dalle pastoie e dagli interessi di parte e forti nello spirito, per offrire un servizio all’intero paese, lacerato da lotte sociali talora strumentalizzate da logiche di potere e da visioni contrastanti, sullo sfondo di uno scenario economico-sociale devastato dalla guerra e da povertà diffusa”.

Fu in questa chiesa che, alla vigilia del famoso appello, il servo di Dio don Luigi Sturzo, con il manipolo di seguaci, si ritrovò a pregare per mettere tutto nelle mani di Dio, alla cui luce ogni umano impegno trova forza e vigore.
“Da quella nascosta preghiera dinanzi al Santissimo Sacramento scaturì una storia di impegno e dedizione alla causa del bene comune che tutti ben conosciamo e che ancor oggi richiama il nostro interesse e la nostra ammirazione. Sturzo concepì la sua attività sociale e politica come esigenza e manifestazione dell’amore cristiano: non valore astratto, ma principio ispiratore dell’azione concreta che porta ad impegnarsi per cambiare le sorti di questo mondo, specialmente riguardo ai più bisognosi. L’amore di Sturzo per i poveri non è infatti un epidermico sentimento di filantropia, né è dettato da un superficiale sentimentalismo, ma è un fatto consapevolmente cristiano fondato sulla fratellanza comune per la divina paternità“.
L’impegno politico diventa dovere morale e atto d’amore e oggi, a distanza di cento anni, ha ricordato il presidente della Cei, “questo appello risuona nell’animo di quanti hanno a cuore le sorti del Paese, ancora una volta lacerato e diviso; risuona nell’animo di quanti sentono quella spinta ideale che vede nella difesa della vita e nella promozione umana il motivo di fondo di ogni impegno sociale”.
“Siamo di fronte alla storia di un uomo, di un sacerdote che ha percorso la strada della santità e dell’impegno cristiano attraverso un particolare impegno pubblico; egli lo ha fatto per amore del Cristo che ha scorto sofferente nei suoi concittadini nudi e affamati, lo ha fatto per amore della Chiesa, nella compagine laicale del suo tempo fortemente divisa e in conflitto; lo ha fatto per il suo amato Paese, che vedeva preda delle fazioni più estreme, nell’oscuramento dei valori della dignità umana e del progresso civile – così ha concluso il cardinale Bassetti -. Ricordando quell’ora intensa di preghiera, qui in questa insigne basilica chiediamo anche noi quest’oggi al Signore che volga il suo sguardo di amore e di misericordia sulla sua Chiesa e su tutta la società civile italiana perché possa ritrovare la via della concordia e della fraternità, e ogni uomo e ogni donna di questo Paese possa sempre veder riconosciuti i propri diritti nella solidarietà e nella giustizia“.

Il presidente Ac. I cattolici in politica ci sono, ora serve una buona politica

Caro direttore,

è davvero utile e interessante il dibattito che da diversi mesi si sta sviluppando sulle pagine di ‘Avvenire’, e non solo, circa la necessità di un rinnovato impegno politico da parte dei cattolici italiani. Non perché stia scritto da qualche parte che i cattolici, in quanto tali, debbano occupare un qualche spazio politico, ma perché il nostro Paese ha bisogno del contributo che i cattolici possono portare alla vita pubblica, traendo risorse preziose da quel grande giacimento di energie, esperienze, valori e idee che il tessuto ecclesiale rappresenta.

Un tema importante, dunque. Che però, a mio avviso, per poter essere affrontato in maniera circostanziata tanto sotto il profilo ecclesiale quanto sotto quello politico richiede di partire da una premessa: di cattolici impegnati in politica, a tutti i livelli e in tutte le forze politiche, ce ne sono tanti. La quasi totalità delle più alte cariche dello Stato e i principali esponenti di governo, come anche delle forze di opposizione, ne sono un esempio eloquente. Ma non solo: ancora più importante per la discussione in corso è la constatazione che una larga parte di cattolici italiani si riconosce convintamente e senza particolari remore legate alla propria appartenenza ecclesiale nelle posizioni delle forze politiche attualmente rappresentate in Parlamento, a partire da quelle attualmente al governo. Tantissimi credenti, cioè, o ritengono che le scelte di vita e le convinzioni che nascono dalla loro fede trovano felice rispondenza nelle iniziative portate avanti da quelle forze politiche, oppure, più semplicemente, pensano che le due cose non debbano essere messe in relazione.

Non è così per tutti, naturalmente, e sono diversi i credenti che non si identificano pienamente con nessun dei partiti oggi sulla scena. Ma se da più parti si invoca una nuova stagione di impegno dei cattolici significa che, al di là dell’attuale configurazione del quadro politico, la situazione del nostro Paese pone alla comunità dei credenti delle questioni da cui occorre lasciarsi interrogare, sia dal punto di vista politico sia da quello ecclesiale. Nella prima delle due prospettive è necessario chiedersi quale sia la forma più adeguata per raccogliere e rilanciare i tanti fermenti presenti nel mondo cattolico, ed è proprio quello che si tenta di fare con il dibattito ospitato sulle pagine di ‘Avvenire’. Dal punto di vista ecclesiale – che non è meno importante – mi sembra che le diffuse perplessità rispetto allo stato odierno delle cose implichino quantomeno la necessità di tornare a ri- flettere seriamente sugli esiti delle scelte compiute in passato e a domandarsi, ad esempio, se non sarebbe stato e non sia oggi opportuno sostenere con maggior convinzione quei percorsi ecclesiali di impronta fortemente conciliare che, pur nella loro diversità, si caratterizzano da sempre per lo sforzo di far maturare generazioni di laici consapevoli e responsabili, con un accentuato senso di appartenenza ecclesiale e un’alta concezione del bene comune.

Di laici così, a dire il vero, ne sono cresciuti e ne continuano a crescere tanti, nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti che animano la vita ecclesiale. E molti di loro si sono impegnati e si impegnano, anche oggi, in politica, soprattutto a livello locale: uomini e donne, molto spesso giovani, che rappresentano un autentico serbatoio di competenza, pas- sione ed esperienza per il futuro del nostro Paese. Forse, allora, non è del tutto vero, come spesso si sente dire, che il mondo cattolico italiano si sia allontanato dalla politica, tantomeno quello organizzato che si raccoglie attorno ad associazioni e movimenti, enti di volontariato e organizzazioni ecclesiali. Certamente il cattolicesimo organizzato soffre un deficit di rappresentanza politica, specie se guardiamo alle istituzioni nazionali. Soffre la notevole frammentazione che lo caratterizza, che rende meno rilevanti politicamente le sue iniziative e le sue prese di posizione. Probabilmente soffre anche di scarsa capacità comunicativa, caratteristica che impedisce di avere una visibilità adeguata. Questo però non significa che l’associazionismo cattolico si sia ‘ritirato dalla politica’. È più vero, casomai, il contrario: è la politica ad essersi ritirata dalla società, chiudendosi sempre di più in logiche cooptative e autoreferenziali, impermeabili a un reale confronto con il mondo dell’associazionismo e di tutte quelle attività coraggiose e innovative che ci sono nel nostro Paese. Se la politica fosse più intelligente, avrebbe dato e darebbe maggior credito e più spazio a questi mondi, che, naturalmente, non sono fatti solo di cattolici, ma in cui i cattolici hanno certamente grande rilevanza.

La soluzione a questo stato di cose potrebbe allora essere la creazione di un partito di cattolici, o di ispirazione cattolica? Non sembra che ci siano le condizioni, politiche ed ecclesiali. Viviamo in una stagione diversa da quella che portò all’affer-mazione della Dc, così come da quella che condusse, un secolo fa, alla nascita del Partito Popolare. Proporre oggi la formazione di un partito più o meno esplicitamente ‘cattolico’ sarebbe un po’ come se nel 1919 o nel 1943 si fosse pensato di riproporre l’Opera dei Congressi, che nella seconda metà dell’Ottocento aveva consentito ai cattolici italiani di realizzare tante cose importanti, ma rappresentava ormai un’esperienza superata dalla storia. Non solo: ancora più alla radice bisognerebbe chiedersi se un partito cattolico è ciò di cui oggi l’Italia (e l’Europa, il mondo) hanno bisogno. E da questo punto di vista, a me sembra che più di ogni altra cosa, oggi, l’Italia abbia bisogno di proposte capaci di coagulare energie e consensi attorno a progetti buoni per il Paese, per l’Europa e per il mondo. Ha bisogno che si crei un’ampia convergenza tra coloro che aspirano a costruire insieme ad altri un’Italia (e un’Europa) più giusta, più solidale, più generosa. Ha bisogno di raccogliere la passione politica di quanti ritengono necessario custodire la democrazia, senza rinunciare a una prudente manutenzione dei suoi istituti. Ha bisogno di proposte che riducano le fratture presenti nella trama della società, invece che alimentarle. Ha bisogno, insomma, di iniziative che mirino innanzitutto a unire, a mettere insieme e a valorizzare le energie e le esperienze positive che già esistono e che, in gran parte, tengono in piedi il nostro Paese.

Si tratta dunque di dare vita a un processo di apertura verso un futuro condiviso, in cui ci si possa ritrovare anche tra chi non la pensa allo stesso modo su ogni aspetto della realtà. E in questo percorso il mondo cattolico può giocare sicuramente un ruolo importante, come catalizzatore di forze morali, di competenze ed esperienze significative. Ma lo potrà fare solo se saprà andare fin da subito, almeno idealmente, oltre se stesso. Alcune esperienze significative in questi anni sono già state realizzate: penso ad esempio alla campagna per la lotta al gioco d’azzardo e a quella per l’introduzione del Reddito di inclusione come risposta alla crescente povertà. Così come all’appuntamento su ‘la nostra Europa’ promosso a fine novembre da sette realtà di area cattolica. Bisognerebbe forse proseguire su questa strada con ancora maggior impegno e convinzione, allargando il raggio d’azione. Quale possa essere esattamente lo strumento adatto per un compito simile non è facile dirlo. Sul tavolo c’è la proposta autorevolmente avanzata dal cardinal Bassetti della costituzione di un «forum civico »: un contenitore a cui occorrerà dare forma, dichiarando fin dall’inizio esplicitamente a quale scopo lo si vuole costruire ed escludendo in partenza ogni aspirazione elettorale dei suoi promotori, sgombrando così il campo da ogni sospetto di ‘criptopartitismo’, ma che già dal nome evoca il desiderio di far incontrare, di mettere insieme, di generare processi.

Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana

da Avvenire

Politica / Tempo di azione. La profezia di Dossetti e un dovere attuale

Gentile direttore,

per quanto la storia non si ripeta mai esattamente allo stesso modo, tuttavia non possono essere negate o taciute le ragioni che legano l’appello di Sturzo ai «liberi e forti» del 1919 con le attuali condizioni di imbarbarimento del dibattito pubblico in Italia ed in Europa. Allora come ora, istanze sociali senza risposta generarono una idea di esclusione in gente che finì per affidarsi alla soluzione più radicale. Ho avuto modo di ricordare nell’aula della Camera, in occasione del dibattito parlamentare sul cosiddetto Decreto Sicurezza, le parole profetiche di Dossetti sul rischio, sempre in agguato, del superamento delle democrazia rappresentativa: «Invece di una democrazia rappresentativa, con le sue procedure dialogiche e le inevitabili mediazioni di ragioni contrapposte a confronto, si avrebbe una democrazia populista, inevitabilmente influenzata da grandi campagne mediatiche, senza razionalità e appellantisi soprattutto a mozioni istintive e a impulsi emotivi, che trasformeranno i referendum in plebisciti e praticamente ridurranno il consenso del popolo sovrano a un mero applauso al Sovrano del popolo». Ci siamo arrivati, anzi siamo andati oltre. Le società ‘accelerate’, diventate istantanee, consumano prevalentemente la domanda politica in un clic istintivo che ha posto fine al dibattito pubblico tra pensieri politici, passando dal pensiero all’umore, dalla verità al verosimile, dalla critica all’insulto organizzato e alimentato dalla costruzione tematica e sistematica del nemico. Per questo è necessario immaginare un nuovo impegno, una rete di impegni ricondotti a unità. Nell’era postideologica, nella società disarticolata, dove tutto si consuma velocemente e ricordo e memoria rischiano di scomparire sotto i colpi di una compulsiva campagna elettorale permanente, l’unico antidoto possibile è rappresentato dal coraggio di contrapporre la forza delle idee resistenti.

Il tema che si pone non è che cosa fare, perché la via possibile di un nuovo impegno è tracciata, ma come costruire le ragioni fondanti e motivanti un nuovo cammino. Innanzitutto vanno eliminati possibili equivoci di fondo. In nome della ambizione all’unità in Italia non vi possono essere confusioni di campo. I cattolici italiani devono sapersi schierare, senza ambiguità, su questioni essenziali: nessuno è solo, l’accoglienza è umanità. E neppure questo è scontato: il clima di oggi, in cui crescono e si affacciano sulla scena pubblica le nuove generazioni, è dominato dalla radicalizzazione di un ‘individualismo della paura’ su cui si costruisce un’idea di protezione personale e sociale affidata al presunto ‘uomo forte’ e nella logica autoreferenziale di un nuovo imperante ‘me ne frego’. Per cui la la legittima domanda di sicurezza degenera in rancore, e diventa razzismo. Per cui l’idea di Patria diventa una triste e chiusa idea di Nazione, e degenera in nazionalismo.

I diffusori dell’infezione giurano addirittura sul Vangelo e con il rosario in mano. Si pongono, in Italia e in Europa, come i difensori dell’identità cristiana, salvo poi alzare muri, bloccare barconi di disperati, abbandonare per strada anche donne e bambini, sottraendoli alla protezione dello Stato e regalandoli all’anti-Stato, in un Paese che sembra aver perso il senso di sé. Il contagio si è diffuso anche tra i cattolici italiani, perché per tanti la paura oggi prevale sulla speranza. La contrapposizione tra principio di legalità e principio di giustizia sociale ha generato il falso mito di una società dei più forti.

Il fenomeno non è confinato al solo fenomeno migratorio, ma il tema ‘noi e gli altri’ sta impostando la vita sociale su presupposti contrari a quelli su cui l’Europa comunitaria è nata e si è sviluppata. In gioco c’è tanto e il rischio è il ripetersi, nel dramma della storia, di una certa silente acquiescenza al nuovo corso, il rischio è guardare dall’altra parte, non indignarsi più, non stupirsi più, non percepire lo ‘scandalo’, di far affogare, prima che in un mare di acqua salata, nella indifferenza collettiva vite disperate. Il rischio è sovvertire l’ordine per cui i carnefici diventano vittime. Di fronte a questo non c’è altra soluzione, se non l’azione. E l’azione è esattamente una responsabilità dei cattolici.

in Avvenire

Cattolici e politici in Italia / Una scelta da fare. Si pensi a stati generali del cattolicesimo

Caro direttore,

il vivace dibattito in corso sul rapporto fra cattolici e politica in Italia – tema che ha conosciuto una significativa ripresa in relazione ad autorevoli riflessioni del presidente della Cei, cardinale Bassetti, e al quale anche ‘Avvenire’ sta dando da tempo spazio – si è espresso con una serie di interessanti interventi, senza che tuttavia sia stato, a giudizio di chi scrive, messo a fuoco il problema centrale, e cioè quali sono le vie da percorrere per questa sorta di nuova ‘discesa in campo’? Le molte e importanti prese di posizione che questo giornale ha registrato non hanno sciolto questi dubbi, e dunque pare non inutile riprendere i termini essenziali del problema.

Due sono le vie che i cattolici in passato hanno percorso – e che in futuro potranno percorrere – per dare il loro contributo al Paese-Italia: la via (seguita in una lunga stagione dall’Opera dei Congressi) del «pre-politico», e cioè dell’azione in campo sociale, con l’attivazione di cooperative, la costituzione di casse rurali, la nascita di organizzazioni sindacali di ispirazione cattolica, e via dicendo; e la via, per una breve stagione avviata dal Partito Popolare di don Luigi Sturzo e poi, con ben altra fortuna, ripresa dalla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi, del partito politico di ispirazione cristiana. Questa scelta – nei nuovi scenari di inizio del XXI secolo – sta ancora dinanzi a noi ed è necessario, a nostro avviso, che i cattolici italiani che intendono impegnarsi nel sociale prendano la loro decisione: tenendo presente che, quando ci si orienti a una azione propriamente partitica, si propone il problema se disperdersi – a seconda dei propri riferimenti valoriali – oppure concentrarsi prevalentemente in un partito (non necessariamente di dichiarata ispirazione cristiana). Se si imbocca questa seconda strada – come personalmente riterrei opportuno – si pone e si porrà il problema di individuare la forza più vicina (o meno lontana) dai valori di cui i cattolici sono portatori, e lì combattere la battaglia per una buona politica a servizio del Paese e che tragga la sua ispirazione dalla Parola evangelica e dalla tradizione del cattolicesimo sociale. Né dovrebbe destare scandalo il fatto che dalla stessa ispirazione ideale possano nascere, sul piano della prassi politica, diverse scelte di campo sull’uno o sull’altro dei problemi che la società italiana deve affrontare: ferma restando, comunque, la fedeltà ad alcuni fondamentali valori etici (dal rispetto della vita, al riconoscimento dei diritti della famiglia, a una piena libertà religiosa, e così via).

Come operare questa non facile scelta? Ad avviso di chi scrive sarebbero auspicabili dei veri e propri ‘Stati generali’ del cattolicesimo italiano – sotto l’egida di autorevoli punti di riferimento e non mettendo in campo direttamente l’episcopato – quale potrebbe essere, secondo una proposta da me e da altri già avanzata, una Fondazione che dovrebbe costruire le basi ideali e culturali di una nuova presenza dei cattolici nella società italiana: luogo, auspicabilmente, di incontro di tutti i cattolici impegnati nel sociale, indipendentemente dalle diverse opzioni politiche. Ma, per dare un ‘colpo d’ala’ a una querelle che rischia di essere ripetitiva e stantia, occorre offrire uno sbocco a un dibattito che rischia altrimenti di essere condannato alla sterilità. Come dicevano gli antichi, Hic Rhodus, hic salta: oggi e qui sta il problema, oggi e qui dovrebbe essere cercata e trovata la sua soluzione.

da Avvenire

Settimana di preghiera per l’unità cristiani 18–25 gennaio 2019 a Reggio Emilia

Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla – Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso

Settimana
di preghiera
per l’unità cristiani
18–25 gennaio 2019

“Cercate di essere veramente giusti” (Dt 16,18)

Giovedı̀ 17 gennaio 2019 ore 20.30 (Parr. Buon Pastore RE)
Giornata del dialogo cristiano ebraico
“Il Libro di Ester” introdotto da don Filippo Mainini
Musiche e danze ebraiche proposte da Paolo Versari

Sabato 19 gennaio ore 19.00 (chiesa del Cristo a RE)
Celebrazione dei VESPRI ortodossi
presieduta da P. Mihail Ciocirlan

Domenica 20 gennaio ore 16.30 (cripta Cattedrale a RE)
Celebrazione ecumenica del VESPRO
Partecipano:
don Giovanni Rossi, vicario Episcopale
P. Mykhaylo Khromyanchuk, della comunità greco-cattolica
P. Mihail Ciocirlan della comunità cristiana ortodossa rumena
P. Armya della comunità copta egiziana
P. Yuriy Dmytro della comunità ortodossa di san Zenone

Azione Cattolica. Truffelli: «Cattolici in politica, è l’ora delle proposte»

Il presidente di Ac raccoglie l’invito del cardinale Bassetti: servono nuove modalità di impegno, con argomenti validi per tutti

Matteo Truffelli, presidente nazionale di Azione Cattolica (Siciliani)

Matteo Truffelli, presidente nazionale di Azione Cattolica (Siciliani)

«No, i laici cattolici impegnati in politica non sono estinti. Ci sono, e sono tantissimi. Però…». Martedì scorso il cardinale Bassetti ha dedicato un ampio capitolo del suo discorso all’Assemblea generale della Cei al «clima di smarrimento culturale e morale», al «sentimento di rancore diffuso » e ai loro «effetti pesanti anche in politica ». Eppure la conclusione del presidente della Cei non era negativa: «Non credete – diceva ai vescovi – che ci siano ragioni fondate per dire che la partita non è persa?». Da quel «però» parte la riflessione di Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione cattolica, che comincia là dove Bassetti finisce.

Nonostante le apparenze, sembra dire Bassetti, c’è un terreno fertile. I cattolici impegnati in politica non sono dunque estinti?

No, sono tantissimi. In schieramenti diversi e impegnati soprattutto nelle amministrazioni locali, un livello non meno decisivo per le sorti della comunità civile.

Non le sembra però che la rappresentanza a livello nazionale sia carente?

Sì, è meno forte ed evidente che nel passato. Però la passione per il bene comune rimane diffusa. Ma forse si traduce in forme diverse di impegno e nella scelta di priorità differenti, soprattutto tra i giova- ni. Penso ad esempio alla loro attenzione per la tutela dell’ambiente, del creato.

Le radici sono sane, ribadisce il presidente della Cei, e il Paese è migliore di quanto spesso venga dipinto. Un eccesso di ottimismo?

No, ha ragione. Non solo il cattolicesimo italiano ma l’intero Paese sono ancora irrigati da energie morali e da impegno generoso. L’apertura solidale e inclusiva rappresenta un aspetto importante della nostra identità nazionale. Una caratteristica che dovrebbe essere coltivata e sostenuta dalla politica, non soffocata.

L’impegno politico dei cattolici ha una grande tradizione. Che cosa ne stiamo facendo?

Per esserne degni eredi, come invita Bassetti, non possiamo limitarci a conservarla sotto vetro, o a rimpiangere il passato. Il passato va guardato, studiato e apprezzato, sì, ma per tradurlo in nuove modalità di impegno, nuove formule. E il momento è proprio questo, come cerco di spiegare nel mio libro, La P maiuscola. Nostro, qui e ora, è il compito di elaborare proposte buone per il Paese e di raccogliere consenso attorno ad esse, sapendole argomentare in modo comprensibile per tutti, non attraverso affermazioni valide solo per noi.

Non le sembra che dalla comunità ecclesiale non emerga tutta questa ‘domanda di politica’?

Per molto tempo tra i cattolici la questione politica è stata motivo di divisione, forse più di ogni altra. Non siamo stati capaci di far nostra l’idea che i princìpi possano essere declinati in scelte politiche diverse. Abbiamo fatto tanta fatica, e continuiamo a farla, ad accettare la pluralità.

Eppure lo stesso Concilio la ammetteva: talvolta, di fronte allo stesso problema, è possibile che i cattolici optino per soluzioni diverse…

È un insegnamento che non abbiamo saputo far nostro in modo autentico e consapevole. Molti sono ancora lì, in attesa di un’unità svanita.

Rimangono molti laici cattolici che avvertono la vocazione all’impegno politico ma non trovano occasioni formative. Non sono aiutati. Che cosa si può fare?

Due cose. Abbiamo il dovere di formare credenti consapevoli che non possono essere autenticamente tali senza vivere da cittadini responsabili. Non solo quelli che intendono impegnarsi in modo forte, ma proprio tutti. Ciò di cui più abbiamo bisogno è di cittadini appassionati. Poi, non possiamo dire: «Abbiamo bisogno di voi» e guardare con sospetto chi si impegna, voltandogli le spalle. Dobbiamo creare attorno a essi una rete di persone e comunità che li stimi e gli voglia bene. Dobbiamo accompagnarli, offrire loro occasioni di dialogo e confronto, di formazione e di continua riscoperta delle motivazioni del loro impegno.

avvenire