In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui (…) La Quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un Vangelo pieno di sole e di luce. Dai 40 giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall’arsura gialla, ai volti vestiti di sole. La Quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori» (G. Centore). «Verità è la fioritura dell’essere» (R. Guardini). «Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci). Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita.Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s’innalza nella luce, dove l’azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra. «E si trasfigurò davanti ai loro occhi». Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l’esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore. L’entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello»
gridato a pieno cuore. Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l’icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor.Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l’uomo, «non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell’umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo» (D. Bonhoeffer). Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto.Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio.
Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» (…). In quel tempo. In questo tempo.
Come in una parabola dei nostri giorni, provo a immaginare il vangelo delle tentazioni nella città che conosco meglio: Milano. Il diavolo portò Gesù nella metropoli, capitale della finanza e della moda. Lo pose in alto, sopra la guglia centrale del Duomo, e gli mostrò la città ai suoi piedi: il Castello, la Borsa, la cintura delle banche, lo stadio, le vie della moda. E c’era folla sul corso, turisti e polizia. Qualcuno dei mendicanti stringeva un cagnolino in grembo, forse per un po’ di calore, forse per attivare un briciolo di pietà.Sull’asfalto grigio, coriandoli e stelle filanti di carnevale, e la pioggia leggera di fine inverno. Qualcuno, occhi tristi e pelle scura, vendeva le ultime rose ai passanti . Guardando bene si vedevano anche quelli che si lasciavano andare: alla solitudine, alla vecchiaia, alla depressione, che si lasciavano morire di droga o di dolore.
Allora il diavolo disse a Gesù: “Tutto questo è mio! Tutto sarà tuo se ti inginocchi davanti a me!”. Signore, perché non gli hai dato del bugiardo? Dicendogli, e dicendo a noi, che non è vero, che non tutto è suo, che la città non è il suo regno, che ci sono giusti e bambini e innamorati e poeti. Lascia che ti mostri una cosa, Signore, proprio a Te che non hai reagito. Nella città, che il Nemico dice sua, ci sono luoghi dove per tutto il giorno si asciugano lacrime, dove donne e uomini intercedono per la città, la collegano al cielo, e altri che provano a fare del loro poco qualcosa che serva a qualcuno. Ci sono madri che danno la vita per i figli e gente onesta perfino nelle piccole cose; ci sono padri che trasmettono rettitudine ai figli e occhi diritti. C’è il grido del male, lo sento forte, e mi stordisce a giorni, ma più ancora c’è il silenzioso lievitare del bene.Signore, se guardi bene nella città che il diavolo dice sua, non c’è solo competizione, puoi incontrare la passione per la giustizia, il sottovoce dell’onestà, gente limpida senza secondi fini. E se vieni ancora un po’ più vicino, puoi incontrare anche me, perché ci sono anch’io e sono tra quelli che credono ancora nell’amore, e non si consultano con le loro paure ma con i sogni.Buttati, ti ha detto, verranno gli angeli a portarti sulle mani! Io lo so che verranno, quando con l’ultimo, con il più grande atto di fede, mi butterò in Te nel giorno della mia morte, fidandomi. Se c’è un angelo nel cielo sopra Milano, chiedo che mi accompagni nell’ultimo viaggio, tenendomi per mano, perché ho un po’ paura, e mi dica in quell’ultimo tratto di cielo solo questo: “Vieni, hai tentato di amare, il tuo desiderio di amore era già amore”! Non chiedo altro, ma che lo dica con un sorriso.
(Letture: Genesi 2,7-9; Salmo 50; Romani 5,12-19; Marco 4, 1-11)
#avvenireperledonneafghane – La sindaca più giovane del Paese, fuggita nell’estate del 2021, dall’esilio in Germania continua la sua lotta per la pari dignità e la libertà
Zarifa Ghafari – Z.F.
Avvenire per le donne afghane. Ecco il nostro progetto: guarda il video
«Non credo che l’Occidente sia stato leale con le donne del mio Paese. Erano state coinvolte nel futuro dell’Afghanistan, poi sono state abbandonate». Zarifa Ghafari parla da Düsseldorf, dove è stata accolta come rifugiata dopo la sua rocambolesca fuga da Kabul, nell’agosto 2021, con la madre, cinque sorelle minori e il marito. Lei, la più giovane sindaca che l’Afghanistan abbia mai avuto, nominata nel 2018, a 26 anni dall’allora presidente Ashraf Ghani, sopravvissuta a tre attentati e al dolore per l’omicidio del padre, dall’esilio è diventata una delle voci più note dell’attivismo per i diritti delle donne.
Ha scritto un libro (“La battaglia di una donna in un mondo di uomini”, la cui traduzione italiana per Solferino è attesa tra pochi giorni) dal quale è stato realizzato il documentario “In Her Hands”, prodotto da Hillary e Chelsea Clinton e distribuito da Netflix , e ora si accinge a completare un secondo libro proprio sulle donne afghane. Nel febbraio 2022 è tornata a Kabul per completare le riprese del film sulla sua vita e per aprire un centro di assistenza per donne e bambini con l’associazione che ha fondato, Assistance and Promotion of Afghan Women (Apaw). Il primo gesto che Zarifa ha voluto compiere è stato portare un fiore sulla tomba dell’amato padre.
Zarifa Ghafari, non è stata una mossa azzardata tornare in Afghanistan, sebbene avesse avuto assicurazioni di non essere arrestata?
Niente di nuovo per me, la mia vita è sempre stata a rischio, e l’Afghanistan è il mio Paese. Ho un solo passaporto e una sola nazionalità.
È possibile un dialogo con i taleban?
È necessario: si consuma una terribile crisi umanitaria e l’unica possibilità che abbiamo per aiutare la popolazione è attraverso la mediazione con i taleban. Se le associazioni che lavorano nel Paese non dialogano con le autorità, sarà una catastrofe e molti moriranno.
Pensa che l’Occidente stia facendo abbastanza per il popolo afghano e in particolare per i diritti delle donne?
No, soprattutto se pensiamo a come si è mosso per l’Ucraina e per le donne in Iran. In Afghanistan decine di donne giacciono in prigione, decine sono scomparse o uccise e nessuno ne parla. Non c’è vita per le donne, e nessuno ne parla. È un doppio standard incomprensibile. Quando l’Occidente parla di diritti umani, penso: perché non il mio popolo, le mie donne, il mio Paese? Sì, mi sento abbandonata. E chiedo che l’Occidente faccia almeno quanto fa in supporto al popolo e agli attivisti iraniani. Anche in Afghanistan le donne manifestano, rischiano la vita per i propri diritti, perché non hanno lo stesso supporto? Il silenzio dell’Occidente rende i talebani più forti, li mette nella condizione di reprimere perché sanno che non ci saranno reazioni.
Alcune attiviste suggeriscono di troncare ogni aiuto ai taleban, sia per isolarli sia perché si teme l’effetto corruzione. Lei cosa ne pensa?
Non credo che tagliare gli aiuti sia una buona opzione. Non importa se gli aiuti finiscono anche alle famiglie dei taleban: anche loro hanno mogli, bambini che hanno bisogno, perché punirli? Quanto alla corruzione, le ong internazionali hanno molte possibilità di rendicontare le loro spese. Certo l’ideale sarebbe che gli aiuti arrivassero direttamente alle donne e alle famiglie. Le donne non sono corrotte.
Pensa che ci sia un futuro per lei in Afghanistan?
Non ho lasciato per sempre il mio paese. Certe volte penso con tristezza alla decisione che ho preso. Se mio padre fosse stato vivo e io non avessi avuto la responsabilità della mia famiglia, in quanto primogenita, forse non sarei fuggita. Ma non importa quando e come: tornerò in Afghanistan, appartengo al mio Paese e non voglio che siano i taleban a rappresentarmi.
Suo padre l’ha sostenuta negli studi e nell’impegno civico, suo marito la assiste nel suo lavoro. Che ruolo possono giocare gli uomini nella battaglia per la pari dignità delle donne?
Senza gli uomini la strada verso la pari dignità delle donne non è percorribile. La maggioranza della popolazione maschile afghana rispetta le donne e non condivide la mentalità dei taleban. I valori dell’istruzione e del lavoro non ci arrivano dalla comunità internazionale, ma hanno radici nella nostra cultura, nella nostra religione, nella nostra identità. Più del 50% della popolazione è donna. Se non dai al 50% della popolazione il diritto di vivere una vita normale, è difficile che l’intera società sopravviva.
Lei non perde la speranza…
No. Non importa se la mia battaglia non darà frutti per me, l’importante è lottare per la prossima generazione. Voglio che mia figlia non mi biasimi per non aver fatto abbastanza. Voglio che possa vivere in Afghanistan godendo interamente dei suoi diritti, come un maschio, come io non ho potuto fare. Allora mi siederò davanti a lei e le dirò che questo è stato reso possibile anche grazie alla mia lotta. Su questo, sì, sono ottimista.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: (…) Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. (…)
Vi fu detto, ma io vi dico. La dirompente novità portata da Gesù non è rifare un codice, ma il coraggio del cuore, il coraggio del sogno di Dio. Agendo su tre leve maestre: la violenza, il desiderio, la menzogna.Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, chi nutre rancore è nel suo cuore un omicida. Gesù va diritto al movente delle azioni, al laboratorio interiore dove si formano.L’apostolo Giovanni afferma una cosa enorme: “Chi non ama suo fratello è omicida”(1 Gv 3,15). Chi non ama, uccide. Il disamore non è solo il mio lento morire, ma è un incubatore di omicidi. Chiunque si adira con il fratello, o gli dice pazzo, o stupido, è sulla linea di Caino… Gesù mostra i primi tre passi verso la morte: l’ira, l’insulto, il disprezzo, tre forme di omicidio.
L’uccisione esteriore viene dalla eliminazione interiore dell’altro. “Chi gli dice pazzo sarà destinato al fuoco della Geenna.” Geenna non è l’inferno, ma quel vallone, alla periferia di Gerusalemme, dove si bruciavano le immondizie della città, da cui saliva perennemente un fumo acre e maleodorante. Gesù dice: se tu disprezzi e insulti l’altro tu fai spazzatura della tua vita, la butti nell’immondizia; è ben di più di un castigo, è la tua umanità che marcisce e va in fumo. Ascolti queste pagine che sono tra le più radicali del vangelo e capisci che, per paradosso, diventano le più umane, perché Gesù parla solo del cuore e della vita, e lo fa con le parole proprie della vita: custodisci il tuo cuore e non finirai nell’immondezzaio della storia.Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: se guardi una donna per desiderarla sei già adultero. Non dice semplicemente: se tu desideri una donna; ma: se guardi per desiderare, con atteggiamento predatorio, per conquistare e violare, sedurre e possedere, se la riduci a un oggetto da prendere o esibire, tu commetti un reato contro la grandezza di quella persona. “Adulterio” viene dal verbo a(du)lterare che significa alterare, falsificare, rovinare. Adulterio non è un reato contro la morale, ma un delitto contro la persona, contro il volto alto e puro dell’uomo. Terza leva: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no. Dal divieto del giuramento, Gesù arriva al divieto della menzogna. Di’ sempre la verità, e non servirà più giurare; non avrai bisogno di mostrarti diverso da ciò che sei nell’intimo, cura il tuo cuore e potrai curare tutta la vita attorno a te. Custodisci il cuore perché è la sorgente della vita, “Custodiscilo tu, Signore, questo fragile, contorto, splendido dono che ci hai dato: questo cuore che è di carne, ma che sa anche di cielo”.
(Letture: Siracide 15,16-21 (NV); Salmo 118; Prima Lettera ai Corinzi 2,6-10; Matteo 5, 17-37)
Beato chi cammina sulla via del Signore
IV Domenica Tempo ordinario – Anno A
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia». Abbiamo davanti parole abissali, delle quali non riusciamo a vedere il fondo, le più alte della storia dell’umanità (Gandhi). È la prima lezione del maestro Gesù, all’aperto, sulla collina, il lago come sfondo, e come primo argomento ha scelto la felicità. Perché è la cosa che più ci manca, che tutti cerchiamo, in tutti i modi, in tutti i giorni. Perché la vita è, e non può che essere, una continua ricerca di felicità, perché Dio vuole figli felici. Il giovane rabbi sembra conoscerne il segreto e lo riassume così: Dio regala gioia a chi produce amore, aggiunge vita a chi edifica pace. Si erge controcorrente rispetto a tutti i nuovi o vecchi maestri, quelli affascinati dalla realizzazione di sé, ammaliati dalla ricerca del proprio bene, che riferiscono tutto a sé stessi. Il maestro del vivere mette in fila poveri, miti, affamati, gente dal cuore limpido e buono, quelli che si interessano del bene comune, che hanno gli occhi negli occhi e nel cuore degli altri. Giudicati perdenti, bastonati dalla vita, e invece sono gli uomini più veri e più liberi. E per loro Gesù pronuncia, con monotonia divina, per ben nove volte un termine tipico della cultura biblica, quel “beati” che è una parola-spia, che ritorna più di 110 volte nella Sacra Scrittura. Che non si limita a indicare solo un’emozione, fosse pure la più bella e rara e desiderata. Qualcosa forse del suo ricco significato possiamo intuirlo quando, aprendo il libro dei Salmi, il libro della nostra vita verticale, ci imbattiamo da subito, dalla prima parola del primo salmo, in quel “beato l’uomo che non percorre la via dei criminali”.
Illuminante la traduzione dall’ebraico che ne ricava A. Chouraqui: “beato” significa “in cammino, in piedi, in marcia, avanti voi che non camminate sulla strada del male”, Dio cammina con voi. Beati, avanti, non fermatevi voi ostinati nel proporvi giustizia, non lasciatevi cadere le braccia, non arrendetevi. Tu che costruisci oasi di pace, che preferisci la pace alla vittoria, continua, è la via giusta, non ti fermare, non deviare, avanti, perché questa strada va diritta verso la fioritura felice dell’essere, verso cieli nuovi e terra nuova, fa nascere uomini più liberi e più veri. Gesù mette in relazione la felicità con la giustizia, per due volte, con la pace, la mitezza, il cuore limpido, la misericordia. Lo fa perché la felicità è relazione, si fonda sul dare e sul ricevere ciò che nutre, cura, custodisce, fa fiorire la vita. E sa posare una carezza sull’anima. E anche a chi ha pianto molto un angelo misterioso annuncia: Ricomincia, riprendi, il Signore è con te, fascia il cuore, apre futuro. Tu occupati della vita di qualcuno e Dio si occuperà della tua.
(Letture: Sofonia 2,3; 3,12-13; Salmo 145; Prima Corinzi 1,26-31; Marco 5,1-12a)
avvenire.it
III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…
San Giovanni in prigione – G.di Paolo
III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?
Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.
Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.
La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.
Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?
Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.
Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. […]».
Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano e non si accorsero di nulla… i giorni di Noè sono i giorni ininterrotti delle nostre disattenzioni, il grande peccato: «questo soprattutto perdonate: la mia disattenzione» (Mariangela Gualtieri). Al vertice opposto, come suo contrario, sull’altro piatto della bilancia ci soccorre l’attenzione «che è la preghiera spontanea dell’anima» (M. Gualtieri). Avvento: tempo per essere vigili, come madri in attesa, attenti alla vita che danza nei grembi, quelli di Maria e di Elisabetta, le prime profetesse, e nei grembi di «tutti gli atomi di Maria sparsi nel mondo e che hanno nome donna» (Giovanni Vannucci). Avvento è vita che nasce, a sussurrare che questo mondo porta un altro mondo nel grembo, con la sua danza lenta e testarda come il battito del cuore. Avvento: quando Dio è una realtà germinante, colui che presiede ad ogni nascita, che interviene nella storia non con le gesta dei potenti, ma con il miracolo umile e strepitoso della vita, con la danza di un grembo, in cui lievita il pane di un uomo nuovo. Dio è colui che invece di porre la scure alla radice dell’albero, inventa cure per ogni germoglio, per ogni hinnon (Salmo 72,17), che è anche nome di Dio. Due uomini saranno nel campo… due donne macineranno alla mola, una rapita, una lasciata; due soldati saranno al fronte in Ucraina, uno sarà ferito, uno resta incolume. Perché questa alternanza di vita e di morte, di salvati e di sommersi? Gesù stesso non lo spiega. Sappiamo però che caso, fatalità, fortuna sono concetti assolutamente estranei al mondo biblico. Dio non gioca a dadi con la sua creazione. Io credo con tutto me stesso che, nonostante qualsiasi smentita, la storia, mia e di tutti, è sempre un reale cammino di salvezza. E il capo del filo è saldo nelle mani di Dio. Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro… Un ladro come metafora del Signore! Di lui che non ruba niente e dona tutto. Se solo sapessi il momento… ma risposta non c’è, non c’è un momento da immaginare; il tempo, tutto il tempo è il messaggero di Dio, ne solleva le parole sulle sue ali insonni. Viene adesso il Signore, camminatore dei secoli e dei giorni, viene segnando le date nel calendario della vita; e ti sorprende quando l’abbraccio di un amico ti disarma, quando ti stupisce il grido vittorioso di un bimbo che nasce, una illuminazione interiore, un brivido di gioia che non sai perché. È un ladro ben strano: viene per rendere più breve la notte. Tempo di albe e di strade è l’avvento, quando il nome di Dio è Colui-che-viene, Dio che cammina a piedi nella polvere della strada. E la tua casa non è una tappa ma la meta del suo viaggio.
(Letture: Isaia 2,1-5; Salmo 121; Romani 13,11-14; Matteo 24,37-44)
Inviata in occasione della professione di 52 nuovi membri dell’associazione nata dal carisma di Comunione e Liberazione. Laici chiamati a vivere il proprio lavoro come «luogo della memoria di Cristo»
I Memores Domini sono una forma di esperienza di vita cristiana nata nel grembo di Comunione e Liberazione, fondata da monsignor Luigi Giussani. – Archivio Avvenire/Olympia
Lo scorso 4 dicembre in un hotel di Lazise, sulla sponda veronese del Lago di Garda, 52 tra giovani donne e uomini hanno emesso la professione che segna la loro incorporazione definitiva ai Memores Domini, l’associazione che riunisce laici di Comunione e Liberazione chiamati a vivere il proprio lavoro come «luogo della memoria di Cristo», a praticare i consigli evangelici di obbedienza, povertà e verginità e a farlo abitando insieme, in piccole comunità.
Questo rito che da tradizione avviene nel corso del ritiro spirituale di inizio Avvento, per due anni non si è tenuto a causa della situazione interna all’associazione, con divisioni e tensioni che hanno portato dopo una serie di passaggi al suo “commissariamento”, lo scorso settembre, con la nomina da parte del Papa dell’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro quale suo delegato speciale con pieni poteri e del gesuita Gianfranco Ghirlanda quale assistente per le questioni canoniche.
I nuovi Memores Domini provenienti da 7 Paesi (40 dall’Italia, 4 dal Brasile, 3 dalla Spagna, 2 dall’Argentina, 1 rispettivamente da Colombia, Kazakistan, e Portogallo) hanno ricevuto un messaggio speciale del Papa, consegnato a Santoro, che suona come un incoraggiamento in una delicata fase di transizione.
«Saluto tutti i membri dell’Associazione e soprattutto voi, cari giovani, che vi accingete a compiere un passo così importante» scrive Francesco all’inizio della sua missiva, disponibile sul sito ufficiale di Cl, «so che da lungo tempo attendete questo evento, che giunge ancor più desiderato dopo il travaglio vissuto dall’Associazione negli ultimi anni». «Don Giussani amava dire che con la forma stessa della vostra vita gridate a tutti che Cristo è l’unico per cui valga la pena di vivere – scrive sempre il Papa – la professione perciò rafforza la vostra presenza missionaria nelle realtà ordinarie della vita, nei diversi ambiti di lavoro e della società, nelle periferie esistenziali delle città e dei tanti Paesi da cui provenite. Siete laici e missionari, in perfetta linea con il mandato evangelizzatore proveniente dal Battesimo».
«Come ho avuto modo di manifestare in varie occasioni – continua il Pontefice – nutro grande stima per il carisma dei Memores Domini e sono vivamente grato allo Spirito Santo che lo ha suscitato». Così «in queste circostanze, cari giovani, la vostra professione assume un significato particolare: è segno di predilezione per voi da parte del Signore, ma anche espressione della vostra rinnovata fiducia nei confronti della Chiesa, che accoglie e accompagna il vostro carisma perché, docile allo Spirito e obbediente alla sua Sposa, porti frutti di apostolato e di santità nel mondo. Possiate dunque riconoscere e promuovere quell’unità concorde che, sola, rende bella e feconda la testimonianza».
Papa Francesco, nel suo discorso ai membri del collegio cardinalizio e della Curia romana, ha invitato a percorrere la «via dell’umiltà» perché in essa è custodita la «lezione del Natale»: l’umiltà, infatti, rappresenta «la grande condizione della fede, della vita spirituale, della santità». Cristo è venuto nel mondo attraverso questa via e ci ha mostrato «una meta», che non si raggiunge con la forza della volontà, ma attraverso la partecipazione, la comunione fraterna e lo spirito missionario. Parole stupende che sono valide, ovviamente, per la Chiesa universale e ci restituiscono appieno il senso profondo del cammino che abbiamo intrapreso.
La Chiesa italiana, oggi, sta percorrendo la strada della sinodalità in un momento storico che è avvolto dalle tenebre della pandemia. Eppure all’orizzonte c’è la grande luce del Natale, che riscalda, ispira e rischiara il percorso. Un Bambino che si dona e che, con il suo atto d’amore, diventa criterio con cui rileggere gli avvenimenti. Non è un caso, dunque, che il tempo di Natale sia anche occasione per fare il bilancio dell’anno e per considerare i rapporti con i propri familiari, con gli amici, i colleghi e con quanti abitano le nostre giornate.
Ancora una volta, purtroppo, siamo in grande apprensione per la nuova ondata pandemica. Il Censis, nel suo ultimo rapporto, parla di «un’Italia irrazionale»: per alcuni milioni di italiani, che pretendono «di decifrare il senso occulto della realtà», il Covid addirittura non esiste e il vaccino è inutile. In nome di un diritto soggettivo di scegliere per la propria vita in totale autonomia, molte persone finiscono per dimenticarsi dei fragili, degli anziani e dei poveri, rompendo, in questo modo, i legami alla base della solidarietà umana. Mai come oggi è dunque necessaria l’umiltà: nel giudizio, nei rapporti interpersonali, nell’amore verso il prossimo.
Anche per questi motivi, non possiamo e non dobbiamo abituarci allo stillicidio, praticamente quotidiano, di morti sul lavoro e alle tragedie immani che continuano a compiersi, nell’inerzia colpevole della comunità internazionale, tra coloro che sono costretti a lasciare la loro terra per sfuggire alle violenze e alla fame. Il loro dramma ricorda che anche quest’anno il mondo è stato segnato da tensioni e da guerre e che alla maggioranza dell’umanità è ancora precluso il diritto a una vita libera e dignitosa. Avremo modo di aprire uno squarcio di speranza durante la seconda edizione dell’Incontro “Mediterraneo frontiera di pace” che si svolgerà a Firenze dal 23 al 27 febbraio 2022. Convinti, come ricorda il Papa nel Messaggio per la 55ª Giornata mondiale della pace, che «tutti possono collaborare a edificare un mondo più pacifico».
Il pensiero commosso e la preghiera vanno anche alle vittime di gravi fatti di cronaca che nel 2021 hanno chiamato in causa, direttamente o indirettamente, le responsabilità di alcuni o l’incuria sistematica. Voglio qui ricordare in particolare, unendo il Nord e il Sud d’Italia, i tragici fatti del Mottarone e quelli recentissimi di Ravanusa. A fronte di questo quadro a tinte fosche, però, non bisogna cedere alla tentazione della rassegnazione, come nei giorni scorsi ci ha raccomandato il presidente Mattarella. Nell’imminenza della fine del suo mandato intendo rinnovargli il ringraziamento per la testimonianza che ha reso al Paese nel corso di questi sette anni. In lui possono riconoscersi tutti gli italiani – e sono la stragrande maggioranza – che anche quest’anno hanno dato prova di responsabilità e di solidarietà, di impegno rigoroso e di fratellanza operosa soprattutto con le persone più bisognose.
Quale il messaggio di questo Natale? Si può rispondere senza esitazione: la speranza! Che è bene ricordare non è la realizzazione di un desiderio, quanto di una sorpresa. Un evento che accade e sblocca una situazione che sembra irrisolvibile. Come i magi e i pastori, che si presentano a riverire un piccolo bambino adagiato in una mangiatoia. Mi piacerebbe che all’interno della comunità cristiana fossimo portatori di speranza in questo modo: provando a stupirci reciprocamente, a entusiasmarci l’un l’altro con la sorpresa dell’amore. Nel buio delle paure e dei rapporti per interesse, abbiamo la possibilità di portare un po’ di carità.
Il Signore che viene si lascia accogliere da chi ha occhi per stupire i fratelli con l’amore. Così l’amore arriva come la luce nelle tenebre. Se la contemplazione della scena della mangiatoia ci indurrà a diventare portatori di speranza agli altri, allora vorrà dire che l’Avvento è stato un cammino di umiltà che ci permette di vivere il Natale da cristiani.
di Gualtiero Bassetti, cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Conferenza episcopale italiana
XVI Domenica Tempo ordinario – Anno B In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’».
Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Venite in disparte e riposatevi un po’. I suoi sono ritornati felici da quell’invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà. I Dodici hanno incontrato tanta gente, l’hanno fatto con l’arte appresa da Gesù: l’arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell’incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale. C’è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d’Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell’agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi. C’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.
Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).
La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo. E si mise a insegnare molte cose. Forse, diremmo noi, c’erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare. A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via. Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l’agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: «Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d’affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco» (Sorella Maria di Campello). È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo. Se ancora c’è chi sa, tra noi, commuoversi per l’uomo, questo mondo può ancora sperare.
«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri […].»
Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli. Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. Il nostro Dio ama gli orizzonti e le brecce. A due a due: perché il due non è semplicemente la somma di uno più uno, è l’inizio del noi, la prima cellula della comunità. Ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere la stanchezza e un amico su cui appoggiare il cuore. Né pane, né sacca, né denaro, né due tuniche. Saranno quotidianamente dipendenti dal cielo. Li vedi avanzare da una curva della strada, sembrano mendicanti sotto il cielo di Abramo. Gente che sa che il loro segreto è oltre loro, «annunciatori infinitamente piccoli, perché solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci). Ma se guardi meglio, puoi notare che oltre al bastone portano qualcosa: un vasetto d’olio alla cintura. Il loro è un pellegrinaggio mite e guaritore da corpo a corpo, da casa a casa. La missione dei discepoli è semplice: sono chiamati a portare avanti la vita, la vita debole: ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Si occupano della vita, come il profeta Amos, cacciano i demoni, toccano i malati e le loro mani dicono: «Dio è qui, è vicino a te, con amore». Hanno visto con Gesù come si toccano le piaghe, come non si fugga mai dal dolore, hanno imparato l’arte della carezza e della prossimità. E proclamavano che la gente si convertisse: convertirsi al sogno di Dio: un mondo guarito, vita senza demoni, relazioni diventate armoniose e felici, un mondo di porte aperte e brecce nelle mura. Le loro mani sui malati predicano che Dio è già qui. È vicino a me con amore. È qui e guarisce la vita. Francesco ammoniva i suoi frati: si può predicare anche con le parole, quando non vi rimane altro. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro. Gesù li prepara anche all’insuccesso e al coraggio di non arrendersi. Come i profeti, che credono nella parola di Dio più ancora che nel suo realizzarsi: Isaia non vedrà la vergine partorire, né Osea vedrà Israele condotto di nuovo nel deserto del primo amore. Ma i profeti amano la parola di Dio più ancora che i suoi successi. I Dodici hanno quella stessa fede da profeti: credono nel Regno ben prima di vederlo instaurarsi. L’ideale in loro conta più di ciò che riescono a realizzarne. Bellissimo Vangelo, dove emerge una triplice economia: della piccolezza, della strada, della profezia. I Dodici vanno, più piccoli dei piccoli; sulla strada che è libera, che è di tutti, che non si ferma mai e ti porta via, come Dio con Amos; vanno, profeti del sogno di Dio: un mondo totalmente guarito.
(Letture: Amos 7,12-15; Salmo 84; Efesini 1,3-14; Marco 6,7-13)
Sì: 366, a coprire anche le esigenze di un prossimo anno bisestile, com’è giusto che sia per un volume che si propone come una specie di calendario perpetuo per l’introspezione e la riflessione spirituale.
Ma per quel giorno in più si può trovare un’altra giustificazione, che riguarda in modo più specifico il magistero che il presidente del Pontifico Consiglio della Cultura svolge ormai da molti anni. Si tratta del continuo scambio tra parola degli uomini e Parola di Dio, in una prospettiva di eccedenza – qualcosa in più, appunto – dello spirito rispetto alla lettera che Ravasi ha costantemente alimentato sia nella sua veste di biblista sia in quella di lettore onnivoro e appassionato. Ne è nato un genere letterario a sé stante, che si potrebbe definire del “mattutino”, riprendendo il titolo della fortunata rubrica che Ravasi ha tenuto a lungo sulla prima pagina di “Avvenire” e che ora prosegue, con formula di volta in volta mutata, grazie al contributo di diversi autori. Nella sua struttura originaria, il “mattutino” si compone degli elementi che ora troviamo elencati nell’introduzione (o «guida all’uso») che accompagna Scolpire l’anima. Una citazione, anzitutto, di provenienza spesso sorprendente, di norma più profana che sacra, come conferma una rapida scorsa all’indice dei nomi posto in calce al volume. Si dal premio Nobel Derek Walcott («Lo scopo della poesia è glorificare Dio») al grande matematico Jules-Henri Poincaré (la sua disciplina, assicura, «ha anche uno scopo filosofico»), dall’altrimenti misconosciuta Ada Negri («Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo») all’imperatore Giuliano l’Apostata, stupito dal fatto che «gli empi galilei» si prendano tanta cura dei poveri. Questa minima campionatura aiuta a rendersi conto non solo della vastità di fonti alle quali Ravasi attinge, ma anche della sua capacità di far risuonare ogni parola in maniera che la lettura sconfini nella meditazione. E non sarà casuale, pertanto, il fatto che a metà esatta percorso, nella data del 30 giugno, si trovi una frase, tratta da Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, nella quale la dismisura del significato viene messa a tema con esemplare semplicità: «Il libro è una cosa. Ma se lo apri e leggi diventa un mondo». Vale per tutti i libri, vale a maggior ragione per la Bibbia, i cui versetti ricorrono sempre con frequenza negli stringati commenti che Ravasi riserva ai frammenti di testo da lui trascelti. Non per niente quella che per noi è la Scrittura nella tradizione ebraica è semmai miqra’, ovvero la Lettura. È ancora il cardinale a ricordarlo nelle pagine iniziali di Scolpire l’anima, con una precisazione che implicitamente rimanda a un altro suo volume tornato in libreria di recente.
Apparso originariamente nel 1995, Il racconto del cielo (il Saggiatore, pagine 302, euro 20,00) è una personalissima traversata dell’Antico Testamento, condotta integrando la successione cronologica degli eventi con l’analisi dei nuclei tematici portanti. Particolare attenzione è dedicata alla dimensione profetica, della quale ci si avvale già per illustrare il resoconto della Creazione. «Il profeta, più che un uomo annunziatore di un remoto passato, è un uomo di battaglia nel suo presente storico», avverte Ravasi fissando un criterio che sorregge tutto l’impianto del libro, nel quale può capitare di trovare convocati il Milton di Paradiso Perduto e il rivoluzionario Majkovskij, le melodie sacre di Charpentier e le dodecafonie di Schönberg. Ogni risorsa viene messa al servizio di un’interpretazione che ha, a sua volta, nei libri sapienziali della Bibbia (Giobbe, Qoelet, Proverbi, gli stessi Salmi) la sua chiave più caratteristica. Con un dettato più disteso, il metodo rimane lo stesso dei “mattutini”. A proposito: il fatidico 29 febbraio ospita la «regola d’oro» per cui «nessuno di voi è un vero credente fino a quando non desidera per il fratello quello che desidera per sé». Un detto ( hadith) del profeta Muhammad che ha la funzione di un ponte gettato tra Scritture e letture.
Gianfranco Ravasi propone “366 meditazioni quotidiane” facendo della formula inventata per “Avvenire” un vero genere letterario
In quel tempo, Gesù disse: (…) C’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna (…) La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio (…) lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero (…)
Gesù amava le vigne: le ha raccontate, per sei volte, come parabole del regno; vi ha letto un simbolo forte e dolce (io sono la vite e voi i tralci, Gv 15,5); al Padre ha dato nome e figura di vignaiolo (io sono la vite vera e il Padre è l’agricoltore, Gv 15,1). Ma oggi il Vangelo racconta di una vendemmia di sangue. Una parabola dura, che vorremmo non aver ascoltato, cupa, con personaggi cattivi, feroci quasi, e questo perché la realtà attorno a Gesù si è fatta cattiva: sta parlando a chi prepara la sua morte. L’orizzonte di amarezza e violenza verso cui cammina la parabola è già evidente nelle parole dei vignaioli, insensate e brutali: Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!
Ma quale manuale di diritto civile hanno mai letto? È chiaro che non è il diritto ad ispirarli, ma quella forza primordiale e brutale, originaria e stupida, che in noi sussurra: devi sopraffare l’altro, occupa il suo posto, e allora avrai il suo campo, la sua casa, la sua donna, i suoi soldi. Quanto è diverso Dio, che ricomincia, dopo ogni tradimento, a mandare ancora servitori, altri profeti, infine suo Figlio; che non è mai a corto di sorprese e di speranza: che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Io, noi siamo vigna e delusione di Dio, e lui, contadino appassionato, continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La soluzione proposta dai capi del popolo è tragica: uccidere ancora, far fuori i vignaioli disonesti, sistemare le cose mettendo in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, il fuoco dal cielo. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio. Infatti Gesù introduce la novità propria del Vangelo: la storia di amore e tradimenti tra uomo e Dio non si concluderà con un fallimento, ma con una vigna viva e una ripartenza fiduciosa: Perciò io vi dico: il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.
Trovo in queste parole un grande conforto: sento che i miei dubbi, i miei peccati, le mie sterilità non bloccano la storia di Dio; quel suo sogno di buon vino comunque avanza, niente lo arresta. La vigna darà il suo frutto, perché c’è ancora chi saprà difenderla e farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, nascono dovunque, e lui sa vederli, vignaioli bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che servono l’umanità anziché servirsene. I custodi della fecondità. Nella vigna di Dio è il bene che revoca il male. La vendemmia di domani sarà più importante del tradimento di ieri. I grappoli gonfi di succo e di sole riscatteranno anche la sterilità di questi nostri inverni in ansia di luce.
Attività pastorali congelate in gran parte delle diocesi del Nord Italia. Ma i vescovi invitano alla preghiera personale e familiare Misure anche in Vaticano
Una delle Messe trasmesse on line streaming su Facebook e Youtube – Ansa
La preghiera, la vicinanza, la piena collaborazione con le autorità civili per contenere il diffondersi del virus. Ma anche fiducia e di speranza per affrontare questa difficile situazione. È il senso del messaggio indirizzato a tutte le comunità dalla Presidenza della Conferenza episcopale italiana in cui si invita tra l’altro alla massima disponibilità «nella ricezione delle disposizioni emanate». Sollecitazione raccolta dalle diocesi delle aree coinvolte dalla diffusione del coronavirus che già domenica hanno sospeso la celebrazione delle Messe fino a domenica prossima e, dove le liturgie eucaristiche continuano, hanno raccomandato di evitare lo scambio della pace e di togliere l’acqua benedetta dalle acquasantiere. La maggior parte dei vescovi, in ottemperanza alle disposizioni delle rispettive Regioni e del Ministero della Sanità, ha anche deciso di rimandare la celebrazione della Messa per il Mercoledì delle Ceneri. Oppure di invitare a seguirla via radio e tv.
In un’intervista a Radio Vaticana l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, ha detto che «attenendoci alle indicazioni delle autorità competenti diamo sufficiente serenità per fare quello che si riesce a fare». Per quanto riguarda le celebrazioni liturgiche che aprono il tempo di Quaresima, ha spiegato che «le indicazioni sono quelle della Regione di evitare assembramenti. Nella diocesi di Milano le celebrazioni sono in gran parte di rito ambrosiano e quindi non si celebra il Mercoledì delle Ceneri. Però secondo me vale la linea generale di evitare gli assembramenti… Si troverà un’altra maniera per introdursi nella Quaresima».
A Torino l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha annunciato che la Messa delle ceneri sarà spostata al 1° marzo. Oltre alle Messe ‘con concorso di popolo’, sospese in tutte le parrocchie anche le attività pastorali. A Bologna il cardinale Matteo Zuppi ha invitato ad attendersi «sempre a criteri di prudenza, evitando in ogni modo concentrazione di persone in volumi ristretti e per lungo tempo. Le chiese rimangono aperte al culto e alla preghiera individuale, non a gruppi». Sospese le celebrazioni liturgiche, de- roga per le Messe feriali che «se sono partecipate da pochi fedeli, si possono celebrare in spazi larghi». Sospese le celebrazioni per il Mercoledì delle Ceneri. Unica eccezione per la Messa celebrata da Zuppi a cui potrà partecipare una piccola delegazione di fedeli e che sarà trasmessa da alcune radio locali.
Disposizioni simili in una nota del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in cui invita a vivere «con responsabilità civica questo momento, senza cedere ad allarmismi e paure ingiustificate». E, dopo aver spiegato che la basilica di San Marco fino a domenica 1 marzo non sarà accessibile, ha affidato la diocesi alla Madonna della Salute. Cautela e prudenza anche nelle scelte dei vescovi della Liguria. In tutta la regione ecclesiastica sospese le celebrazioni eucaristiche, tutte le iniziative nei locali e nelle opere parrocchiali; funerali e matrimoni «soltanto con la presenza dei parenti stretti e sospesa anche la benedizione delle famiglie. I vescovi raccomandano allo stesso tempo che «si intensifichi la preghiera e si inizi il sacro tempo penitenziale secondo le indicazioni della Chiesa: ascolto della Parola di Dio, astinenza dalle carni e digiuno (secondo le modalità stabilite), celebrazione del sacramento della Riconciliazione, meditazione e opere di carità e misericordia».
Niente Messe festive ma solo feriali in spazi ampi (non nelle cappelle) e chiese aperte alla preghiera personale a Parma, con la Messa delle Ceneri celebrata in forma privata e in diretta su Giovanni Paolo Tv alle 20.30 dal vescovo Enrico Solmi. Le mense per i poveri forniscono solo pasti «in porzioni singole e d’asporto».
La diocesi di Cremona, una di quelle più direttamente coinvolte dal contagio, ha predisposto uno schema per la preghiera personale e familiare che si può scaricare dal sito diocesano (diocesidicremona.it) in sostituzione della liturgia comunitaria del Mercoledì delle Ceneri. In assenza di celebrazioni liturgiche, la diocesi di Piacenza invita a nutrirsi in «abbondanza con il pane della Parola di Dio, nel digiuno e nelle opere di carità». E a restare uniti nella preghiera senza lasciarsi dominare dalla paura: «Rischiamo di vivere nella contraddizione di temere la morte senza amare la vita». Mentre il vescovo di Como, Oscar Cantoni, ha accompagnato le comunicazioni sulle misure da adottare con riflessioni in cui spiega che «ogni famiglia può ritrovare la sua vocazione originaria di ‘Chiesa domestica’, così che è facilitata nel pregare insieme anche attraverso i mezzi di comunicazione ». Infine, in ottemperanza alle disposizioni delle autorità italiane, è stato rimandato in Vaticano un incontro sul cardinale Celso Costantini in programma oggi all’Urbaniana. Inoltre, negli uffici frequentati dal pubblico saranno installati dispenser con un igienizzante per le mani. Presenti anche un infermiere e un medico per l’assistenza immediata a pazienti con sintomi riconducibili al coronavirus.
Togliere lo studio del passato ai ragazzi significa attenuare le loro facoltà naturali come la curiosità, la voglia di giudicare, di intervenire, di fare essi stessi la storia
Benedetto Croce pensava che la storia ci renda migliori, con una sua capacità maieutica
avvenire
Un vasto dibattito s’è sviluppato di recente sulla questione della storia, come materia da apprendere e studiare a scuola, come parte essenziale di una cultura che deve lievitare in ogni luogo del sapere. Su un punto si è raggiunto un certo consenso, sul fatto che la storia non può essere dimidiata nella sua identità, né diluita per la presunta trasversalità in altre discipline, come pulviscolo utile ai rami della conoscenza.
La trasversalità è certa, ma senza i fondamenti di una branca autonoma del sapere, essa perde consistenza, fornisce pezzetti di conoscenza privi di logica e organicità, azzera la ricerca di quel “senso del fluire delle generazioni”, che è base dell’evoluzione umana. I grandi dibattiti, di cui sono piene le biblioteche del mondo, riguardano gli interrogativi che tornano in ogni epoca. Cosa è la storia, in che misura è veritiera, o utile agli uomini, se insegna a migliorare. Le discussioni si nutrono delle rispettive culture di riferimento, razionaliste, storiciste, altre di tipo teleologico.
La svolta illuminista, che ha Voltaire come grande alfiere, ritiene che la storia migliori gli esseri umani solo se privata d’ogni idealità, o idea di provvidenza, guardata con crudo raziocinio; e relega la storia antica in un orizzonte favolistico, perché non saremo mai in grado di conoscerla davvero. In realtà, anche Voltaire coltiva uno spunto finalistico quando afferma che essa riflette «i costumi e lo spirito delle nazioni», ma il razionalismo estremo non gli fa cogliere la complessità e la bellezza dell’azione dell’uomo che costruisce il presente e il futuro, fino a sostenere che alcune verità sono utili, altre inutili, e lo porta a tagliare, ignorare ciò che non serve al presente. Tra scetticismo e razionalismo, l’unica filosofia della storia consisterebbe nella critica della tradizione, si basa sulla Ragione e la Verità, ma così essa diviene spettacolo truce e rutilante, colmo di incoerenza e irrazionalità. Per le culture teleologiche, che includono quelle di ispirazione religiosa, la storia non è un insieme di meri fatti e date, ma un concatenarsi di processi guidati da una freccia del divenire, ha più finalità.
Benedetto Croce pensa che essa ci renda migliori, con una sua capacità maieutica, perché è l’inverarsi di uno spirito che supera i singoli eventi, li permea e avvolge, nell’ambito di una evoluzione che non procede a caso. La ricerca di un senso della storia è base d’ogni storicismo, quello idealistico che ci chiude in un determinismo che priva l’uomo di tanti spazi di libertà.
O quello di Henri Bergson che vede nelle due fonti dell’etica e della religione le forze creatrici della storia, perché a ogni svolta etica corrisponde una grande innovazione nel mondo del diritto e nelle leggi. Si apre lo spazio alla libertà dell’uomo, avvertito sin dalla classicità e da chi attinge alla religione e alla sua evoluzione, per individuare traguardi e sconfitte, a seconda dei valori cui ci si ispira.
Questo dibattito mostra la centralità della storia per l’esperienza umana, e chiedersi se essa abbia un senso è una domanda che per Dante non può nemmeno porsi, perché «nelle cose evidenti, è fastidioso dover addurre delle prove». Accettando invece la domanda, si stende lo sguardo su questioni che affascinano gli uomini d’ogni tempo: e una riflessione speciale può concernere un aspetto speciale della storia, quello del suo rapporto con i giovani, la sua utilità e centralità, per la loro maturazione.
Per i ragazzi, la conoscenza della storia è il primo cibo necessario per “situarsi” nel mondo e nella realtà, il resto è crescita, cultura, desiderio di sapere. Togliere, o ridurre, il primo nutrimento ai giovani significa attenuarne facoltà naturali come la curiosità, la voglia di giudicare, intervenire, fare essi stessi la storia. Vorrebbe dire, per Salvatore Settis, colpire il carattere costitutivo che essa ha per la formazione della persona e il suo rapporto con la realtà.
Per Liliana Segre non si deve «rubare il passato ai ragazzi», perché così facendo, si finisce col togliere loro la capacità critica che si viene formando nell’età giovanile, mentre storia e analisi critica sono elementi indissociabili, esprimono la libertà con la quale l’essere umano guarda a sé stesso, alle vicende che l’hanno preceduto, costruito, lo preparano a vivere il futuro. Solo così, potranno porsi antichi interrogativi, e fornire insieme risposte nuove.
Sono celebri gli opposti pareri su alcuni caratteri della storia, quello di Tucidide, per il quale «la storia si ripete», e l’altro di Vilfredo Pareto per cui «la storia non si ripete mai», e ancora di G. Macaulay Trevelyan per il quale le due affermazioni sono egualmente vere.
Pezzetti di verità e d’ironia si ritrovano nell’opinione di Enoch Powell, per il quale «la storia è cosparsa di guerre che tutti sapevano che non sarebbero accadute», o di Alexis de Toqueville secondo cui «la storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie »; all’opposto, per Elias Canetti occorre «imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare». In realtà i giovani comprendono presto, con l’ardimento loro proprio, che dalla storia si può imparare se ci si impegna a studiarla, anche perché a chi si rifiuta di imparare non servono né la storia, né la filosofia, o altre branche del sapere.
Gaetano Salvemini è attirato dal lato oscuro degli eventi umani, perché solo l’immaginazione può riempire le lacune del puzzle della storia, mentre per Thomas Carlyle «le epoche felici dell’umanità sono le pagine vuote della storia», e in essa «contano anche i fatti non avvenuti». Per i ragazzi questi paradossi aiutano a pensare, introducono una dialettica che non ha mai fine. Infine, c’è il capitolo dell’attualità della storia, che può iniziare con il pensiero di Paul Johnson, secondo cui «lo studio della storia è un potente antidoto all’arroganza contemporanea».
Nella modernità le lacune tendono a diminuire anche perché la storia si svolge sotto i nostri occhi, ed è quasi impossibile oscurare, insieme al bene, il male che si compie, soprattutto il male assoluto, che conosciamo e che sconvolge e ferisce i giovani più degli altri. L’arroganza resiste anche di fronte al male, l’arroganza di chi non vuole vedere, sapere, di chi addirittura (c’è anche questo) rivendica il male compiuto e vuole ripeterlo, scimmiottarlo, nasconderlo con tanti negazionismi. Resta soprattutto l’arroganza di chi vuole privare i giovani della capacità critica necessaria a chi voglia conoscere quella storia che parla dei valori, arricchisce la persona, la fa crescere.
Basta pensare ai simboli che evocano e riassumono fatti ed epoche storiche, ma se la storia si cancella, anche il simbolo si svuota, non parla più. Poi alla storia che abitua a ragionare, cercare nessi di casualità, e attira i giovani per una più profonda comprensione dell’uomo e della sua creatività. Se però si emargina, si spezzetta e frantuma il nostro ragionare, si finisce con gli slogan, le frasi fatte, che costituiscono l’odierno flagello della non cultura, si finisce con il pensiero unico che annulla il pensiero.
La storia è esattamente il contrario, si oppone agli slogan, alla superficialità, ai tweet, alla fretta. Per Norberto Bobbio una cultura viva chiede di «valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare le testimonianze, non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda una scelta perentoria e definitiva».
La storia si presenta ai giovani come la scienza del cambiamento, un orizzonte in perenne movimento, ed è così vasta da aprire la mente a mille ricerche e a tante prospettive nuove. Essa, però, chiede la riflessione della coscienza, l’inclusione di tutti, anche dei perdenti, mentre viene spesso utilizzata come uno scenario dal quale si vuole cacciar via qualcuno, espellere l’uno o l’altro dei protagonisti.
Nel nascondimento della storia, a seconda dei negazionismi, si possono espellere gli immigrati, i popoli che si muovono, o che non hanno voce, perché essi semplicemente non si esistono. Si può abolire lo studio della religione, di una delle forze motrici dell’evoluzione, della cultura, della spiritualità di un popolo o interi continenti. O ancora, si può ridurre la naturalità dell’uomo a una scheggia della sua antropologia, stravolgendo la stagione dei diritti umani, sostituendoli con i desideri, le pretese, dell’individuo, con tutto ciò che è effimero.
E si può proporre la storia solo di se stessi, umiliando quella degli altri, ignorando che ogni qualvolta lo si è fatto, essa s’è di nuovo macchiata di sangue, di conflitti, egoismo. Infine, è questione dei giorni nostri, si vuole cancellare l’etica, la compassione, e la compromissione, dalla storia dell’uomo ignorando le conseguenze che ne derivano, per la dignità dell’uomo, per l’ingigantirsi degli egoismi, per chiudersi e coltivare i propri piccoli trofei, ignorare i traguardi più grandi dell’umanità. Studiare, coltivare la storia, vuol dire invece, per l’uomo, per i giovani soprattutto, proseguire un cammino che valorizza l’opera umana, dona significato e valore ai contributi che ciascuna generazione reca in termini di conoscenza, sapienza, spiritualità. Essa è il più grande teatro che si possa immaginare, senza che alcun autore scriva alcun testo o inventi scenari, perché ogni cosa è stata scritta, sofferta, realizzata direttamente dagli esseri umani.