Tante famiglie per Khalif. Gara di solidarietà per il bambino simbolo del salvataggio

«Vogliamo accoglierlo tra i nostri figli»: tanti si sono rivolti ad Avvenire commossi dal coraggio di Khalif arrivato dal Mali dopo aver camminato da solo per un anno. Tra i salvati della Mare Jonio
MINORI SOLI, ECCO COSA DICE LA LEGGE Dopo anni di stallo, nel 2017 è stata approvata la legge sui minori stranieri non accompagnati.  Cinque i punti principali del testo in base al quale i bambini e i ragazzi non ancora maggiorenni che arrivano in Italia senza una famiglia non potranno essere respinti ma avranno gli stessi diritti dei loro coetanei dell’Unione Europea. Per la prima volta vengono disciplinate per legge le modalità e le procedure di identificazione ed accertamento dell’età. Oltre a una banca dati nazionale, viene regolato il sistema di accoglienza integrato tra strutture dedicate esclusivamente ai minori. La legge promuove poi lo sviluppo dell’affido familiare come strada prioritaria di accoglienza rispetto alle strutture. Il minore potrà richiedere direttamente il permesso di soggiorno alla questura competente. In ogni Tribunale per i minorenni viene istituito un elenco di 'tutori volontari' disponibili ad assumere la tutela anche dei minori stranieri non accompagnati per assicurare a ogni minore una figura adulta di riferimento adeguatamente formata.

MINORI SOLI, ECCO COSA DICE LA LEGGE Dopo anni di stallo, nel 2017 è stata approvata la legge sui minori stranieri non accompagnati. Cinque i punti principali del testo in base al quale i bambini e i ragazzi non ancora maggiorenni che arrivano in Italia senza una famiglia non potranno essere respinti ma avranno gli stessi diritti dei loro coetanei dell’Unione Europea. Per la prima volta vengono disciplinate per legge le modalità e le procedure di identificazione ed accertamento dell’età. Oltre a una banca dati nazionale, viene regolato il sistema di accoglienza integrato tra strutture dedicate esclusivamente ai minori. La legge promuove poi lo sviluppo dell’affido familiare come strada prioritaria di accoglienza rispetto alle strutture. Il minore potrà richiedere direttamente il permesso di soggiorno alla questura competente. In ogni Tribunale per i minorenni viene istituito un elenco di ‘tutori volontari’ disponibili ad assumere la tutela anche dei minori stranieri non accompagnati per assicurare a ogni minore una figura adulta di riferimento adeguatamente formata.

«Vado in Europa». Con questa pazzia nel cuore Khalif si è messo a camminare, da solo. Passo dopo passo, lasciandosi alle spalle madre e padre, facendosi inghiottire dal deserto, senza paura, senza voltarsi indietro.

Ci vuole coraggio, per noi adulti occidentali che senza navigatore ci sentiamo sperduti anche nel mezzo di una metropoli affollata, ma il viaggio di Khalif, cittadino del Mali, iniziava un anno fa quando di anni ne aveva otto. «Vado in Europa perché voglio studiare e lavorare», ha detto a se stesso prima che agli altri, ma cos’era questa Europa nemmeno lo sapeva. Come un Eldorado o l’America dei nostri nonni, l’Europa di Khalif doveva essere la fine di ogni tribolazione, il luogo in cui si mangia tutti i giorni, la gente non si uccide per strada, i piccoli vanno a scuola e non a fare il soldato, se stai male ti curano.
«Studiare e lavorare». È questa la benzina che lo ha fatto marciare per un anno, tra gli stenti, il lavoro forzato per pagarsi il viaggio, le botte, i ricatti, la prigione. Gli ultimi mesi li ha passati in Libia, l’inferno sulla terra, finché una notte ha avuto il suo angolino su un gommone e ha affrontato il mare nero… A salvarlo è stata la Mare Jonio, ormai nota come ‘la nave dei bambini‘, tanti ne portava a bordo.

«Quando sarò in Europa potrò mandare soldi ai miei genitori», ha spiegato sei giorni fa al giornalista di Avvenire, Nello Scavo, a bordo della Mare Jonio, prima di essere sbarcato dai soccorritori della Guardia Costiera sulla spiaggia di Lampedusa. Hai qualcuno ad aspettarti in Italia o in altri Paesi? «Non ho nessuno. Farò tutto da solo». Che paura può fare un continente intero, pur sconosciuto e poco accogliente, quando a nove anni si è già traversato il Sahara e si ha vinto la sfida con il mare? Anche i tre giorni di stallo sulla nave in balìa dei cavalloni, aspettando che l’Italia permettesse il trasbordo dei piccoli, sarà stato poco più di un inciampo, solo l’ultimo in ordine di tempo. Nel suo futuro c’è ben altro cui pensare, «farò da solo, non ho nessuno che mi aspetti».

“Ecco, direttore, perché le sto scrivendo”, dice una delle tante lettere arrivate con ogni mezzo al nostro giornale, “per dirle che da questo momento Khalif ha qualcuno che lo aspetta in Italia, io e la mia famiglia abbiamo il desiderio di ospitarlo”. A scrivere questa volta è Francesca, insegnante di scuola primaria in Piemonte e madre di tre bambini: “Per questo mi ha impressionato molto la sua storia, perché i miei figli sono coetanei di Khalif. Leggendo l’articolo ho provato a immaginare questo bambino che attraversa l’Africa da solo e ho pensato ai miei figli, che io non mando neanche a prendere il pane dall’altra parte della strada per paura che capiti loro qualcosa…”. Un quarto letto, una sedia in più attorno al tavolo e il calore di una famiglia, questo ha da offrirgli, e chiede adAvvenire con chi mettersi in contatto per realizzare il progetto.

Il bambino ancora non lo sa, ma sono in molti ad attenderlo in tante case di questa Italia, che sarà pure litigiosa, confusa, allo sbando, ma ancora capace di allargare le braccia di fronte a un bambino uscito dal mare per scaldarlo in un abbraccio e dare anche a lui l’opportunità di essere felice. “Non so come spiegarlo in un breve messaggio, ma ho sentito che potrei fare qualcosa per questo bambino. Prenderlo con me e aiutarlo a crescere: aiutarlo ad aiutare la sua famiglia”, scrive anche Simona, già iscritta nell’elenco potenziale dei genitori affidatari dal Tribunale di Cagliari, “siete il mio unico ponte con questo bambino, spero riusciate a contattarmi quanto prima”.

“È possibile metterci in contatto con i servizi sociali o con chi si sta curando di lui? Noi saremmo disponibili ad accoglierlo in affido”, si appella Anna da Reggio Emilia. E c’è chi non sa di cosa Khalif potrà avere bisogno quindi offre tutto, “fateci sapere, se servono vestiti, libri di scuola, un maestro di italiano, i pomeriggi a giocare con altri bambini”. “I miei ragazzi sono al liceo, potranno aiutarlo a studiare…”. Di tutto questo da Lampedusa Khalif non sa nulla.

«Ora chiamerò mamma e papà, saranno felici di me», dice esausto. Dopo un anno si permette di tornare bambino. E finalmente, per la prima volta, piange.

da Avvenire

Giovani. Gli oratori in uscita incontrano i «neet» e i «teen»

500 educatori di 60 diocesi italiane partecipano al terzo happening della pastorale giovanile. Oggi non basta più essere circolo ricreativo
L'oratorio san Giorgio della parrocchia Stella Maris di Tortolì (Archivio)

L’oratorio san Giorgio della parrocchia Stella Maris di Tortolì (Archivio)

da Avvenire

Per chi è abituato a giocare e a far giocare, non dev’essere un problema un gioco di parole, anzi. E se vengono convocati al Seminario regionale pugliese di Molfetta al loro happening con il titolo: “Facciamo fuori l’Oratorio!”, i 500 animatori di circa 60 tra diocesi e associazioni sorridono alla provocazione. A loro è tutto chiaro: viene evocata la “Chiesa in uscita” tanto cara a papa Francesco, il compito a cui invitò la Chiesa italiana al Convegno ecclesiale di Firenze quattro anni fa.

E se proprio chiaro non fosse, a fare chiarezza pensano don Michele Falabretti e don Riccardo Pascolini, rispettivamente direttore del Servizio nazionale per la pastorale giovanile e segretario del Foi (Forum oratori italiani), che organizzano l’Happening degli Oratori per la terza volta (in sigla: H3O): «”Fare fuori” nel senso di aprirsi verso ciò che ci aspetta al di là della porta dell’oratorio, che a volte corre il rischio di essere semplicemente un curato circolo ricreativo».

Il segreto, suggerisce Marco Moschini, sta in un continuo “dentro e fuori”, andare e tornare per ripartire e ritornare, ogni volta più ricchi. Moschini, professore di filosofia teoretica, a Perugia dirige il Corso di perfezionamento in progettazione, gestione e coordinamento dell’oratorio.

A H3O non sono previste conferenze frontali, ma un momento di confronto tra alcuni esperti (ieri pomeriggio) e dei laboratori (oggi). Moschini provoca e viene provocato. «Per andare fuori – spiega – bisogna saper stare dentro. E uscire, in senso antropologico ed educativo, significa vicinanza, esperienza dell’altro, in una continua dinamica educativa». L’oratorio, così, diventa «campo di rigenerazione dell’umano, cura delle solitudini».

Bastano pochi attimi per scoprire che moltissimo dipende dagli animatori. Angela Melandri, coordinatrice del Progetto oratori della diocesi di Parma, racconta come nella parrocchia del Corpus Domini siano stati coinvolti ineet, i giovani che non studiano né lavorano. Certo non i classici “bravi ragazzi”… Il percorso “Work in progress” li ha coinvolti in piccoli lavori, e ha funzionato per le quattro caratteristiche degli animatori: «Sanno ascoltare la realtà per ciò che è, e dietro le provocazioni hanno visto le competenze; hanno dato fiducia; hanno saputo accompagnare i giovani stando al loro fianco; e hanno lavorato in rete», non da cavalieri solitari – tipico profilo parrocchiale negativo di chi dice «devo fare tutto io perché non c’è nessun altro» – ma in rete, con le scuole, gli assistenti sociali, la comunità degli adulti.

Non poteva mancare lo sport. Don Alessio Albertini, assistente nazionale del Csi, osserva: «L’oratorio non può che tornare ad essere come il cortile di don Bosco», aperto al mondo, pena ridursi alla catechesi, senza una formazione umana integrale. Lo sport: «La squadra, la relazione con gli altri, legami solidi e duraturi, il senso di appartenenza, il senso di responsabilità». I giovani stipati nella parrocchia Regina Pacis, voluta da don Tonino Bello («Una parrocchia di pietra ma soprattutto di carne») applaudono convinti.

Ministero dell’Interno, consuntivo amaro. La sicurezza pubblica e l’etica del servizio

Conosco da molti decenni, per studio e per impegno, il ministero dell’Interno. Non solo il Dipartimento della Pubblica sicurezza, ma anche alcuni dei settori delicati dell’Amministrazione civile. È sempre utile ricordare che in Italia non è il dicastero dell’ordine pubblico inteso come mera ‘forza’. Si tratta di una branca dello Stato-apparato che sovrintende alla continuità delle funzioni centrali e periferiche della Repubblica: anche con l’arte della mediazione sociale e con lo scopo principale della composizione dei conflitti, collocandosi sempre come terzo imparziale. Mentre ci si accinge a cambiare passo, bisogna registrare che in quest’ultimo anno l’immagine dell’Interno è cambiata ed è stata involgarita. Purtroppo nell’acquiescenza di tanti.

Un esempio per tutti, oltre a quello pessimo nella vicenda della nave militare Diciotti, che se i marinai della Guardia costiera non avessero mostrato fermezza avrebbe provocato un danno enorme alla credibilità dell’Italia. Mi riferisco a un episodio che è riduttivo qualificare solo come ‘simbolico’: lo sfregio all’Inno di Mameli. Che il ministro dell’Interno Salvini, nei panni di uno strano ‘dj’, ha fatto e lasciato intonare in spiaggia da ‘cubiste’ in costume ‘panterato’ e ritmare da personaggi da palestra, più simili a tronisti di reality show che a comuni bagnanti dei lidi nostrani.

Pochi, anche al Viminale, hanno preso le distanze da quello spettacolo. Diversamente da quanto accaduto negli ambienti della Difesa, dai quali si sono levate voci di censura nette e dure. Un dettaglio? Come dire, sovrastrutturale? Non proprio. La tolleranza riguardava un contegno che evocava indimenticati gesti di banalizzazione e oltraggio ai segni ‘italiani’ già di Bossi e di Borghezio (che interessarono anche la magistratura).

Quando mi recavo di buon mattino per insegnare alla Scuola per ispettori di polizia a Nettuno, a volte arrivavo mentre era in corso il rito dell’alzabandiera. Non un vuota cerimonia: quegli allievi si ponevano in esemplare raccoglimento davanti al simbolo della loro funzione, della dignità del lavoro che si preparavano a svolgere. Formandosi come quadri della Polizia che «nello Stato democratico è al servizio del cittadino». Come recitava il motto che negli anni Sessanta Angelo Vicari, all’epoca capo della Polizia, fece esporre in tutte le sedi. A ricordare – fino a poco tempo fa – il cambiamento avvenuto con la Repubblica e con la Costituzione. Parole importanti, di segno etico. Di altra pregnanza rispetto a quelle che inopinatamente – e anche qui senza critiche – le hanno sostituite. Come i refrain poveri di contenuto quali «Esserci sempre» e lo stesso «Insieme tra la gente». Anche la compagnia che distribuisce elettricità potrebbe dichiarare «esserci sempre», e una catena di supermercati può per rivendicare di essere «insieme tra la gente». Le parole muovono convinzioni, radicando un senso comune e si ripercuotono nei comportamenti. Se alla cultura del servizio subentra la retorica, portata addirittura verso approdi beceri e offensivi. Uno slittamento avvenuto, di nuovo, con troppe acquiescenze. E senza nemmeno avvertire le conseguenze pratiche e organizzative della squalificazione di un punto fermo – il monopolio statale assoluto della forza – con il messaggio politico secondo cui ‘la difesa è sempre legittima’. Ci sono poi, e non per ultime, le maledizioni che – nei suoi giri senza fine per comizi e incontri, ma istituzionalmente dal Viminale – il ministro ha lanciato incessantemente verso rifugiati, richiedenti asilo, immigrati e contro organizzazioni e opere della solidarietà e del volontariato.

Tra i tecnici della sicurezza pubblica quanti hanno colto le conseguenze operative di quei messaggi, sì, proprio per la disciplina delle forze di polizia? Qualcuno si è reso conto che quel modello muscolare, tronfio, con tanto di esibita felpa con il corredo dei colori d’istituto della Polizia, incoraggiava comportamenti aggressivi degli agenti? Che riduceva l’autorevolezza dei quadri e dei funzionari, chiamati a dirigere, a comandare con saggezza e misura nei momenti difficili, uomini e donne in divisa? Non si era allarmati per come i messaggi del ministro suonavano di rinforzo alla subcultura di gruppo gregario, che si rigonfia in modo spontaneo, da sempre, in alcune caserme? E che proprio l’alta funzione di quadri, funzionari e ufficiali ha l’obbligo di prevenire: con la ‘medicina’ più appropriata, e cioè con il richiamo alla dignità della funzione, ai valori del servizio, alle idealità della Repubblica. Ovvero a tutto quello che dà contenuto al rigore della disciplina che si richiede a quanti si sono visti attribuito l’esercizio del monopolio pubblico della sicurezza. Ora il sipario è calato, ma non ci si può proprio esonerare dalla riflessione. Anche perché non è sempre vero che ‘indietro non si torna’. Qualche volta indietro bisogna saper andare per andare davvero avanti, ed è indispensabile farlo.

di Maurizio Fiasco Sociologo, docente negli istituti di formazione delle Forze di polizia statali e locali – da Avvenire

PAPA, OGGI CONCLUDE VISITA MOZAMBICO E VOLA IN MADAGASCAR

FRANCESCO: FIRMA PACE E’ PIETRA MILIARE, SPERO SIA DECISIVA Papa Francesco conclude stamani la sua visita in Mozambico, per volare poi nel pomeriggio in Madagascar. La storica firma il 6 agosto scorso dell’accordo di pace per il Mozambico tra governo e opposizione è “una pietra miliare che salutiamo e speriamo come decisiva”, ha detto ieri Bergoglio in merito all’accordo che attua quello del 1992 firmato a Roma con la mediazione della comunità di Sant’Egidio.