Sinodalità e partecipazione attiva dei fedeli

Uno dei temi più caratteristici dei documenti e degli interventi di papa Francesco che rivelano la sua profonda sintonia con il concilio Vaticano II è l’enfatizzazione della partecipazione attiva di tutti i membri del popolo di Dio alla missione della Chiesa e della necessità di quello stile sinodale che è necessario per valorizzare il loro contributo.

Una soglia da varcare

Questo aspetto è colto molto chiaramente dal recente documento della Commissione teologica internazionale sulla sinodalità, in cui si afferma: «Di qui la soglia di novità che papa Francesco invita a varcare. Nel solco tracciato dal Vaticano II e percorso dai suoi predecessori, egli sottolinea che la sinodalità esprime la figura di Chiesa che scaturisce dal Vangelo di Gesù e che è chiamata a incarnarsi oggi nella storia, in fedeltà creativa alla Tradizione. In conformità all’insegnamento della Lumen gentium, papa Francesco rimarca in particolare che la sinodalità “ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico” e che, in base alla dottrina del sensus fidei fidelium, tutti i membri della Chiesa sono soggetti attivi di evangelizzazione. Ne consegue che la messa in atto di una Chiesa sinodale è presupposto indispensabile per un nuovo slancio missionario che coinvolga l’intero popolo di Dio» (La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 9).

Dunque, per papa Francesco il compito missionario della Chiesa suppone la valorizzazione del senso di fede di ogni battezzato, cioè di quel dono dello Spirito Santo che gli consente di comprendere più pienamente il contenuto dell’esperienza cristiana e di tradurlo in modo più autentico nella sua vita (cf. LG 12).

Grazie a questo carisma, tutti i membri del popolo di Dio sono chiamati a dare il loro contributo per cogliere sempre meglio il cristianesimo e per “tradurlo” nella loro cultura, in modo che esso possa effettivamente risuonare come esperienza di salvezza per chi ancora non crede. Perché tale coinvolgimento possa attuarsi, è necessaria la sinodalità, cioè la capacità di ascoltare, valutare e valorizzare ciò che è creduto, pensato e vissuto da tutti i credenti attraverso processi di consultazione formale e nel dialogo più ordinario.

Anzi – secondo Francesco – questa sinodalità è la cornice nella quale interpretare il ministero gerarchico. Il suo compito di guida autorevole delle comunità consiste sostanzialmente nel discernimento di quanto emerge dal vissuto e dal “pensato” dei credenti, volto a valutare la sua congruenza con la fede e con le esigenze della comunione ecclesiale, e quindi nell’indicare ciò che risulta genuinamente evangelico come norma della vita cristiana della propria comunità.

Ma la prassi parrocchiale…

Forse, però, le convinzioni del pontefice espresse nel citato passaggio del documento della Commissione teologica internazionale possono lasciare perplesso chi svolge un ministero pastorale nelle comunità cristiane, non perché non siano condivisibili in linea di principio, ma per il fatto che sembrano difficilmente praticabili.

Normalmente, nelle parrocchie non ci si pone il problema di comprendere più pienamente cosa sia il cristianesimo, o quanto meno si ritiene che questo compito riguardi esclusivamente il pastore. Gli altri componenti della comunità devono lasciarsi mettere in discussione a livello personale dalle sue parole, soprattutto dalle sue omelie, ma poi il dibattito comunitario verte solamente su questioni organizzative, economiche e relazionali.

In altre parole, le questioni che effettivamente sono discusse riguardano la preparazione delle varie iniziative, il reclutamento di nuovi volontari, la composizione degli inevitabili conflitti, la raccolta di fondi, l’amministrazione del patrimonio, la manutenzione delle strutture, e così via.

È infrequente, ad esempio, che un consiglio pastorale sia dedicato a capire meglio un aspetto del Vangelo o le sue ricadute sulla prassi della comunità ma, quando questo avviene, il più delle volte si pensa che debba essere il pastore a chiarire le cose. Le cose della fede rientrano tra i suoi compiti esclusivi. In realtà, papa Francesco e il citato documento orienterebbero verso un modello differente, in cui le modalità specifiche dello stile evangelico che una comunità deve assumere nel proprio contesto culturale non sono stabilite solo dalla sua guida, ma emergono dall’ascolto di tutti i suoi membri, che pure hanno il dono dello Spirito.

Certo, sul piano dell’efficienza questo approccio crea grosse difficoltà. A fronte delle molteplici problematiche di una parrocchia, si è tentati di dare per scontate le questioni di fondo e di investire tempo e risorse per affrontare esclusivamente i problemi pratici, quelli di tipo organizzativo, economico e relazionale.

Mettere a tema il Vangelo in quanto tale e farne oggetto di un discernimento sinodale, in cui tutti i membri di una comunità possano valorizzare il loro senso di fede, esige non solo molto tempo e pazienza per imparare a capirsi, ma può rallentare fortemente i processi decisionali.

Ad esempio, se un’azienda deve costruire delle sedie, ma continua ad interrogarsi su cosa sia una sedia anziché concentrarsi sul processo produttivo, forse non concluderà granché. Le comunità cristiane, però, non sono delle fabbriche che devono realizzare un prodotto già prestabilito dal proprietario, ma luoghi in cui l’unico “titolare”, lo Spirito del Signore, rivela progressivamente a tutti che cosa credere e realizzare. Per questo, scavalcare la sinodalità in nome dell’efficienza porterebbe alla lunga ad andare sicuramente fuori strada.

settimananews

Quando la messa perde sapore

Ho svolto la gran parte del mio ministero (anno di ordinazione 1961) nella periferia di una grande città. Da poco più di un anno mi trovo a seguire la messa dalle panche nel mio villaggio natale, una parrocchia di circa 4.000 abitanti. Vado la domenica mattina alla messa delle 8, frequentata – come si può immaginare – per lo più da gente di una certa età.

Dico subito che ogni volta ne esco sconfortato, per lo spettacolo di una celebrazione formalmente corretta, ma che per alcuni dettagli percepisco come sciatta e frettolosa, non particolarmente amata dalla mezza età in giù.

Vorrei provare a dire perché, senza voler dare la colpa a nessuno, ma solo nella speranza che qualcosa possa essere fatto, almeno per non essere costretti a pensare che “questa” liturgia è destinata a scomparire con la generazione, alla quale io pure appartengo, che ha la pazienza di continuare a frequentarla.

In testa a questo discorso, e da subito, metto la convinzione che mi sono fatto, con tristezza, in questo anno: mi pare che preti e laici abbiano raccolto della riforma liturgica solo il fatto che si è passati dal latino all’italiano, perché tutto si svolge come se le parole del messale andassero in automatico, in chi presiede la celebrazione e in chi vi partecipa.

E ne aggiungo una seconda, che spiega quanto ho appena detto, ed è che si dimentica che la comunità liturgica non è mai fatta e ancor meno cresce da sola.

La partecipazione alla liturgia dev’essere costantemente educata, motivata e ravvivata, e questo dipende in gran parte dallo stile della celebrazione, che non è una questione da esteti (l’estetismo è una malattia fastidiosa quanto la sciatteria, perché ambedue ignorano il cuore della faccenda), ma è semmai un problema morale e spirituale. Procedo per punti.

Della puntualità o del ritardo

Parto dal senso e dal “mito” della puntualità, almeno per noi del Nord. Appena la campana batte le otto, al primo colpo parte la “corazzata”; se uno entra in chiesa mentre batte il terzo o il quarto colpo, sente che si sta già cantando il canto di ingresso! Non intendo certo dire che si può essere approssimativi sull’orario, ma mi permetto solo di osservare che tale rigidità suppone che, allo scoccar dell’ora, la comunità esista già! Non è detto. Anzi, temo che proprio questo presupposto sia la radice degli altri guai che andrò elencando.

Faccio un esempio. Perché invece di partire subito con il segno di croce, non si prende un po’ di tempo per rispondere alla domanda: perché siamo qui questa mattina, a fare che cosa?

E sarebbe magari l’occasione per ricordare che la prima ragione che ci convoca in assemblea nel giorno del Signore è per ringraziare Dio di tutti i suoi doni, che è poi il senso della stessa parola “eucaristia”, e questo prima di chiedere grazie, prima di pensare ad ascoltare, o a subire, l’omelia.

In paese – e questo è bello – quando entro in chiesa trovo già la comunità riunita, rarissimo chi arriva in ritardo.

Nella grande città, soprattutto alle messe di tarda mattinata, era una disperazione: dovevano passare anche venti minuti e più prima di vedere l’assemblea radunata. Una volta trovai l’occasione di un gesto un po’ fuori dell’ordinario.

Uscii sull’altare all’ora prevista, e lessi a quelli che c’erano, forse la metà di quelli che poi sarebbero arrivati, una norma del messale che recita: «Quando il sacerdote vede che l’assemblea è riunita, dà inizio alla celebrazione», e continuai così: «Le prime dieci panche vuote dicono che mancano ancora molte persone, e dunque, siccome la parola di Dio, con riferimento alla cena eucaristica, dice: fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri (1Cor 11,33), ora ci sediamo e aspettiamo che la comunità sia riunita».

Lascio immaginare la sorpresa dei molti ritardatari che, entrando, trovavano un grande silenzio e vedevano che non succedeva niente.

Alle 11,50 iniziai la celebrazione, tranquillizzando i fedeli: «Non temete per il pranzo: l’omelia non durerà più di tre minuti, perché quello che avevo da dire l’ho già detto col gesto che abbiamo fatto». Non sono certo cose da fare tutti i giorni: perderebbero di efficacia, ma un richiamo o un insegnamento ogni tanto non credo che farebbe male.

Del ritmo e della sonorità

Ho detto che una comunità di paese, dove si conoscono tutti, ha i suoi vantaggi e i suoi rischi. Uno, e forse il più grave, è di dare tutto per scontato, di procedere nella preghiera e nel canto come in automatico, quasi che a celebrare fosse un popolo di mummie. Se si nota un “movimento”, e non certo virtuoso, è nel modo di cantare e di intervenire nelle acclamazioni o per rispondere agli inviti del presidente. In ambedue i casi si rivela o la compostezza di un’assemblea coesa e compatta o la poco allegra confusione di un “popolo” dove ognuno pare che stia per conto suo.

Nel canto, per esempio, non manca mai qualcuno/a che sente il dovere o il bisogno di distinguersi elevando la voce ben al di sopra degli altri. Qui c’è l’idea che si sta celebrando in una “comunità”, ma questo funziona in modo perverso: la si vive come in uno stadio, dove si fa a gara a chi primeggia o arriva prima degli altri. Il tema del distinguersi nel canto penso sia vecchio quanto la Chiesa: ne dà una versione scorticante Aelredo di Rievaulx (XII secolo) nel suo Specchio della carità (2,67), nel capitolo dedicato alla vanagloria, ma ne parla pure D. Bonhoeffer (XX secolo) là dove parla della preghiera del mattino in La vita comune (pp. 82-83).

Si potrebbe fare una divertente antologia dei tanti passi che ricorrono nella letteratura su questo tema, su cui interviene persino san Francesco nella Lettera all’Ordine 41-42 (FF 227), echeggiato da uno dei suoi primi seguaci, il francescano tedesco Davide di Augusta (sec. XIII), che ne La composizione dell’uomo esteriore e interiore (Paoline, 2018) scrive: «Nell’Ufficio divino la tua intenzione dev’essere soprattutto diretta a trarre dalle parole della sacra Scrittura un’intelligenza spirituale e un sentimento di devozione più che a spremere cantando le note in modo affettato o a esaltare la voce come una tromba, anche se alcuni religiosi ritengono inutilmente con questo di prestare ossequio a Dio (Gv 16,2); perché, se Dio si dilettasse con la sonorità della voce, allora anche la musica degli strumenti e degli uccelli gli sarebbe fonte di dolcezza, perché a loro modo sono molto dolci» (p. 171).

Dell’acclamazione e dell’Amen

Simile spirito di competizione appare pure – e questo crea un fastidio ancora più insopportabile – negli interventi dell’assemblea che, nello spirito della riforma liturgica, avrebbero dovuto stimolare ed evidenziare la “partecipazione” al rito, prima pressoché totalmente sequestrato dal presidente.

Ciò che risalta vistosamente, invece, è la fretta e la confusione di una comunità dove le voci non trovano modo di accordarsi, il che implica che ciascuno “ascolti” gli altri per mettersi al loro ritmo, cosa che spesso esige una voce guida che non sovrasti, ma appunto “guidi” con delicatezza il cammino di tutti. Da questo spirito di gara che induce alla fretta della corsa non si salva niente. C’è persino chi lancia il suo Amen ancora prima che la colletta termini!

A proposito, c’è mai qualcuno che spieghi il senso di questa paroletta così densa di significato? È bello che, per rendersene conto e farla propria con piena consapevolezza, qua e là si sia preso la bella abitudine di cantarla, anche tre volte, come nel caso dell’Amen che conclude l’Anafora.

Lo stesso accade con «Tuo è il regno ecc.», dove i tre splendidi sostantivi ruzzolano l’uno sull’altro come si trattasse di una generica lista da sbrigare in fretta. Perché non prendere l’abitudine, ancora una volta, di cantare questa grande acclamazione, magari sulla facilissima melodia delChristus vincit?

E che dire del «Signore, non son degno»?

Ma là dove il ritmo raggiunge il delirio e la confusione è nella risposta al «Pregate, fratelli…», tale che viene da chiedersi: ma cosa stanno chiedendo queste persone? Il testo dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio / a lode e gloria del suo nome / per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa».

Sono tre i membri di questa preghiera, che implicano tre atteggiamenti spirituali:

1) che Dio gradisca ciò che noi offriamo in sintonia con Gesù;

2) anzitutto a lode di lui;

3) in subordine per il bene della Chiesa.

Il modo di recitare tale formula mostra sonoramente che nessuno pare pensi a ciò che sta dicendo. L’unica speranza di una recitazione calma e decorosa si può avere quando il testo non superi le cinque parole, come in certi ritornelli del salmo responsoriale, perché se si va oltre parte la baraonda.

Del Gloria e del Credo

Non ho ancora parlato di Gloria e Credo, testi di una straordinaria densità.

Sul Credo cito solo la bellissima Introduzione al cristianesimo del card. Ratzinger e, quanto alGloria ricordo che una volta predicai un ritiro d’Avvento facendo ascoltare, con l’opportuno commento, sei versioni musicali dell’inno, dal barocco ai contemporanei, dove ogni interpretazione sottolineava un modo particolare di intendere un testo che possiede una varietà incredibile di suggestioni. Ma questo è un altro discorso, anche se mi rattrista il fatto che sia sfruttato ancora troppo poco il potenziale catechetico e spirituale della musica: si pensi, anche solo per fare un esempio, a quanto si impara dall’ascolto della versione musicale di un salmo o di una messa.

Il lettore, a questo punto, credo capirà la mia sofferenza di quando avverto che, anche in questi testi che – non lo si dimentichi – sono la prima “scuola della fede” (e anche per questo non sarebbe male qualche volta prendere il tempo di spiegarli, visto che l’omelia può avere come soggetto qualsiasi parte della messa, a partire dell’Amen), è proprio chi presiede l’assemblea a lanciare la corsa!

E qui mi si permetta di ricordare che uno stile decoroso di celebrazione implica che si dia il dovuto risalto alle parole, evitando sia l’enfasi indebita come la pronuncia frettolosa e incolore. Perché accade di sentire, anche in esempi che vengono dall’alto, che quando si predica si percepisce la passione della convinzione, e quando poi si passa al “copione” previsto (colletta, anafora ecc.) la voce sembra spegnersi in un tono spiccio e senza sentimento?

Del silenzio o del rumore

Ho lasciato per ultimo il silenzio. È costante il lamento che ce n’è troppo poco nella liturgia. Viviamo in un tempo dove il chiasso, in tutti i sensi del termine (intendo non solo il rumore, ma anche il profluvio di parole nel cicaleccio radiofonico e televisivo), imperversa dovunque. Non si può ricuperare la serietà e il valore morale della parola se non fasciandola di silenzio.

I testi che, nella messa, esigono un’attenzione assoluta sono le collette, in particolare quelle antiche, pregevoli per la loro densità e concisione, due qualità che, soprattutto oggi, le espongono al rischio di passare inosservate.

Le rubriche prevedono un momento di silenzio dopo l’invito “preghiamo”. Si sa che non tutti sanno riempire il silenzio in modo fruttuoso, e in effetti quella pausa di fatto si dissolve con la velocità della luce. Spesso, utilizzando il fatto che i fedeli hanno tra le mani il foglietto con i testi della messa, usavo introdurre così la colletta: «Ora leggerò in nome vostro una preghiera alla quale voi metterete la firma con il vostro Amen. Per non firmare in bianco, e per stare attenti a quello che dirò, usate un momento di silenzio per leggere con calma il testo prima che io lo pronunci».

Ripensandoci, queste potrebbero parere fisime di un povero vecchio, «pensieri di un cervello arido in una stagione arida», come scrive T.S. Eliot nel poemetto Gerontion. Credo, invece, che siano il prodotto di una situazione che il prete celebrante rischia di non vedere. Partecipare all’eucaristia “dalle panche” potrebbe mostrare, invece, quanto possa essere feconda la visione dai margini!

di Nico Guerini – settimananews

A noi, come sempre, il compito di scrutare i segni dei tempi e chiederci: cosa lo Spirito sta dicendo alla sua Chiesa con questi cambiamenti radicali?

di Sergio Di Benedetto – vinonuovo.it

Quando ero bambino e frequentavo la catechesi dell’iniziazione cristiana, con una certa regolarità si poneva il tema “missione”: generalmente questo accadeva in occasione del ritorno a casa di qualche missionario o missionaria, tutti consacrati. E così, anche se da lontano, quell’incontro tra i bambini e il religioso o la suora avevano un loro valore educativo, perché facevano allargare lo sguardo: con parole e foto, in tempi in cui Internet ancora non era diffuso, quei momenti erano una finestra sul mondo più povero. Ai bambini, infatti, si sottolineava soprattutto l’aspetto “sociale” della missione, lasciando in secondo piano, ma non poi totalmente nascosto, il carattere evangelico di vite spese in luoghi lontani. Erano i primi anni ’90 e la mia parrocchia, come tante altre, aveva in Africa o America Latina una decina di missionari, già maturi, ma ancora impegnati e sulla breccia.

Oggi, 25 anni dopo, cosa è rimasto? Di quei missionari, alcuni sono morti, altri sono ormai rientrati in Italia perché molto anziani, altri (pochi) sono ancora in missione. Ma il loro ritorno è ora più privato, meno comunitario: non c’è più il momento dell’incontro, o l’omelia predicata dal religioso che, all’occasione, chiedeva anche qualche offerta: la solidarietà non può essere solo a parole. Di cosa sia segno questo ripiegamento non saprei dirlo: lo registro, e mi spiace.

Oggi, comunque, quel mondo è tramontato e le stesse comunità occidentali, col fiato corto, le mille incombenze, i timori, le nostalgie, l’approccio un po’ difensivo e i numeri in drastico calo hanno poco interesse e poca energia per cercare di portare la “missio ad gentes” nel cuore della pastorale ordinaria. I mutamenti si vedono: oggi la missione ha più volti laici, più professionisti, e indubbiamente la globalizzazione stessa ha tolto quel tratto di eroicità e mistero che essa esercitava su quanti rimanevano a casa. I “serbatoi” di missionari, ossia regioni che donavano centinaia di uomini e donne, oggi sono a secco.

Ma di tutto quel mondo, cosa era realmente evangelico e cosa era orpello? Io credo che molto fosse buono, che molto fosse radicato in una vera dimensione cristiana. Eppure, come tanti altri fenomeni, anche questo della “missione” intesa in senso novecentesco è finito. Possiamo rammaricarci, ma il dato di realtà è così. Sappiamo che non si dà cristianesimo senza una necessaria spinta missionaria: essa rimarrà, ma credo che sarà ben diversa: forse sarà circoscritta al mondo occidentale, forse saranno quei mondi lontani, nel futuro, a mandare i loro missionari in Occidente (quante parrocchie, già oggi, sono rette in Italia da clero non locale?), forse è davvero, in ogni ambito, il tempo dei laici.

A noi, come sempre, il compito di scrutare i segni dei tempi e chiederci: cosa lo Spirito sta dicendo alla sua Chiesa con questi cambiamenti radicali? Onestamente non saprei rispondere. Per me la missione ha ancora quel sapore che mi deriva dall’infanzia, un po’ naïf, senz’altro. E non più attuabile. Di certo, qualcosa di nuovo è all’orizzonte, perché la fede è per se stessa dinamica e lo Spirito non ama la staticità, gli arroccamenti e le teste sotto la sabbia.

Al via la campagna Unicef contro la malnutrizione

«Ogni anno la malnutrizione è concausa della morte di circa 3 milioni di bambini sotto i 5 anni. Oltre 200 milioni sono i bambini malnutriti in tutto il mondo». Il presidente di Unicef Italia Francesco Samengo presenta, dati alla mano, la campagna di raccolta fondi per «curare e proteggere milioni di bambini malnutriti in tutto il mondo», promossa dall’Unicef. E cita alcuni casi: lo Yemen, anzitutto, dove ogni anno 30mila  bambini sotto ai 5 anni muoiono per malattie che hanno come concausa la malnutrizione, 1,8 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta – «di questi 400mila bambini rischiano la vita» – e un totale di 18,5 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare. Ma anche la Repubblica democratica del Congo, con due milioni di bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave.

In Yemen 2.575 bambini sono stati uccisi, 4.064 feriti, 2.706 bambini – maschi – reclutati nei combattimenti. Ogni 10 minuti un bambino muore per malattie facilmente prevenibili e i tassi di matrimoni infantili sono aumentati di due terzi. In Repubblica democratica del Congo circa 7,9 milioni di bambini hanno bisogno di aiuto e assistenza. Per loro, ma non solo, fino al 2 dicembre è possibile donare 2 euro al numero solidale 45525 con sms da cellulare personale Wind Tre, Tim, Vodafone, Poste Mobile, CoopVoce, Tiscali; 5 euro al 45525 con chiamata da rete fissa Twt, Convergenze, PosteMobile; 5 o 10 euro al 45525 con chiamata da rete fissa Tim, Wind Tre, Fastweb, Vodafone, Tiscali. L’obiettivo: «Raccogliere fondi per curare e proteggere milioni di bambini malnutriti in tutto il mondo», spiega Samengo.

Per combattere la malnutrizione, Unicef garantisce in tutto il mondo interventi semplici e a basso costo come la fornitura di latte e alimenti terapeutici ad alto contenuto proteico, vitamine e sali minerali in grado di restituire peso e forza a neonati e bambini fortemente debilitati. I fondi raccolti nella campagna saranno destinati ai programmi per la nutrizione infantile, con particolare attenzione ai Paesi colpiti da emergenze umanitarie.

romasette

Presentato l’Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children. Un viaggio attraverso le periferie delle grandi città e del Paese, da cui emerge un mancato accesso a istruzione, spazi ricreativi e culturali. 1,2 milioni i minori in povertà assoluta

Oggi 1,2 milioni di bambini e adolescenti vivono in povertà assoluta ma non sono solo le condizioni economiche del nucleo familiare a pesare sul loro futuro: l’ambiente in cui vivono i bambini ha un enorme impatto nel condizionare le loro opportunità di crescita e di futuro. È questo uno degli aspetti più rilevanti emersi dai dati contenuti nel IX Atlante dell’infanzia a rischio “Le periferie dei bambini” di Save the Children, pubblicato da Treccani, e presentato oggi, 13 novembre, in anteprima. Il rapporto si propone di essere una vera e propria mappa dei divari che in termini di risorse economiche e culturali, accessibilità dell’istruzione e dei servizi, qualità degli spazi urbani, verdi, ricreativi espongono maggiormente bambini e adolescenti al rischio di vulnerabilità, ma dimostra al tempo stesso come essi siano la risorsa più vitale e il potenziale più alto su cui puntare per innescare una indispensabile rigenerazione di questi luoghi. Il primo tentativo di cartografare le periferie italiane dal punto di vista dell’infanzia che attinge all’esperienza di Save the Children e di tante altre associazioni impegnate sul campo, alle più recenti ricerche scientifiche e ad una collaborazione straordinaria con Istat, uffici statistici di Miur e Invalsi e ufficio studi della Caritas Italiana.

Spazi pubblici, politica e ricchezza: minori ai margini. Nelle 290 pagine dell’Atlante, emerge come i bambini e gli adolescenti siano sempre più ai margini della popolazione in termini demografici: nel 1987 erano il 23,2% del totale e oggi superano di poco il 16%, a fronte degli over65 che sono cresciuti dal 12,6% al 21,2%8. Minori che si ritrovano anche ai margini dello spazio pubblico, se è vero che 94 bambini su 100 tra i 3 e i 10 anni non hanno modo di giocare in strada, solo 1 su 4 trova ospitalità nei cortili e poco più di 1 su 3 ha la fortuna di avere un parco o un giardino vicino a casa dove poter giocare. Ai margini della politica, per effetto di una spesa pubblica che negli anni della crisi economica, pur crescendo in termini assoluti, ha tagliato la voce istruzione e università dal 4,6% sul PIL del 2009 al 3,9% del 2015-16, mentre altri Paesi europei rispondevano alle difficoltà di budget in maniera diametralmente opposta aumentando questa voce di investimento fino al 5% del PIL. Una forbice in negativo con l’Europa che si riscontra anche sui fondi per “famiglia e minori” fermi in Italia a un esiguo 5,4% della spesa sociale, contro l’11% di Germania, Regno Unito e Svezia e ben al di sotto della media UE attestata all’8,5%11. I minori in Italia sono soprattutto, e sempre di più, ai margini della ricchezza, se si considera che la povertà assoluta riguarda il 12,1% di loro, non fa distinzioni tra bambini e adolescenti (12,4% fino a 3 anni, 11,4% da 4 a 6 anni, 12,3% 7-13 e 11,8%14-17) e pesa sul quotidiano di 702mila famiglie con minori (10,9%). La povertà relativa riguarda 1 minore su 5 e, a conferma di un trend negativo, chi ha oggi meno di 17 anni ha una probabilità di diventare povero cinque volte più alta rispetto ai propri nonni.

Apprendimento scolastico: i numeri del divario. Dai dati Istat 2011 emerge che all’interno di una stessa città, l’acquisizione delle competenze scolastiche da parte dei minori segna un divario sconcertante. A Napoli, i 15-52enni senza diploma di scuola secondaria di primo grado sono il 2% al Vomero e quasi il 20% a Scampia, a Palermo il 2,3% a Malaspina-Palagonia e il 23% a Palazzo Reale-Monte di Pietà, mentre nei quartieri benestanti a nord di Roma i laureati (più del 42%) sono 4 volte quelli delle periferie esterne o prossime al Grande raccordo anulare nelle aree orientali della città (meno del 10%).  Ancora più forte la forbice a Milano, dove a Pagano e Magenta-San Vittore (51,2%) i laureati sono 7 volte quelli di Quarto Oggiaro (7,6%). Differenze sostanziali tra una zona e l’altra riguardano anche i Neet ovvero i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano più, sono senza lavoro e non sono inseriti in alcun circuito di formazione: nel capoluogo lombardo, in zona Tortona, sono il 3,6%, meno di un terzo di quelli di Triulzo Superiore (14,1%), mentre a Genova sono 3,4% a Carignano e 15,9% a Ca Nuova, e a Roma 7,5% Palocco e 13,8% a Ostia Nord. Anche i dati tratti dai test Invalsi testimoniano il divario nell’apprendimento scolastico. A Napoli, ad esempio, una distanza siderale di 25 punti Invalsi divide i bambini dei quartieri più svantaggiati da quelli che abitano a Posillipo, a Palermo sono 21 quelli tra Pallavicino e Libertà, a Roma 17 tra Casal de’ Pazzi e Medaglie d’Oro, e a Milano 15 punti dividono Quarto Oggiaro da Magenta-San Vittore.

Infine, allargando lo sguardo alle altre risorse educative essenziali per lo sviluppo dei bambini, scopriamo, ad esempio, che i minori che non hanno l’opportunità di navigare su internet nel Mezzogiorno si concentrano nei capoluoghi delle grandi aree metropolitane (36,6%), e vivono spesso nelle famiglie con maggiori difficoltà economiche (38,8%), così come, nelle stesse zone, i bambini e adolescenti che non svolgono attività ricreative e culturali raggiungono il 77,1%4. Sono quasi 3,6 milioni i bambini e adolescenti che vivono nelle 14 principali aree metropolitane del Paese (2 su 5 del totale in Italia), e crescono spesso in zone o quartieri sensibili che possiamo definire “periferie” da tanti punti di vista differenti, non solo rispetto alle distanza dal centro città, ma in base ai diversi deficit urbanistici, funzionali o sociali dei territori. Sono ad esempio “periferie funzionali” i quartieri dormitorio, “svuotati” di giorno per effetto dei grandi flussi pendolari verso i luoghi di lavoro, privi di opportunità e povere di relazioni sociali. Secondo questo criterio, a Roma e Genova vivono in aree “periferiche” il 70% dei bambini al di sotto dei 15 anni, e a Napoli e Palermo il 60%, un numero che scende al 43% a Milano e al 35% a Cagliari. Più in generale, quando bambini e adolescenti delle città più densamente popolate si guardano intorno, 259.000 (l’11,8%) vedono strade scarsamente illuminate e piene di sporcizia, non respirano aria pulita e percepiscono un elevato rischio di criminalità.

Redattore Sociale

La riforma della Curia e il volto della Chiesa missionaria

La riforma della Curia romana è un processo «delicato» che va ben oltre le trasformazioni strutturali o l’emanazione di nuove leggi e normative; riguarda il volto della Chiesa missionaria di cui Papa Francesco parla già nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”. Una riforma che non vuole «stravolgere» le tradizioni ma conservarle e accompagnarle a una sorta di «manutenzione». Nella sua  lectio magistralis sulla bozza della nuova costituzione apostolica della curia romana, il cui titolo provvisorio è “Praedicate evangelium” (Predicate il Vangelo), il vescovo di Albano Marcello Semeraro, segretario del Consiglio dei cardinali (C9) ha fatto il punto sullo stato attuale della proposta fortemente voluta da Bergoglio. Il documento sostituirà la vigente Pastor bonus del 1988. Secondo il vescovo dovrebbe essere approvato nel 2019 al termine di un nuovo giro di consultazioni che inizierà a breve.

Il prelato ha tenuto la prolusione in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Università Lateranense svoltasi questa mattina, lunedì 12 novembre, nell’aula magna dell’ateneo, nella quale è stato presentato anche il nuovo percorso formativo in Scienze della Pace. È stato istituito per volontà del Papa, il quale in un messaggio letto dal Sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato Edgar Peña Parra mette in evidenza che il desiderio di pace nel mondo presuppone «uno sforzo educativo all’ascolto e alla comprensione ma anche alla conoscenza e allo studio del patrimonio di valori, delle nozioni e degli strumenti capaci di abbattere tendenze all’isolamento, alla chiusura e a logiche di potenza che sono portatrici di violenza e distruzioni». Il mondo universitario, scrive Bergoglio, ha un ruolo predominante nell’azione che la Chiesa conduce «per superare i conflitti con i mezzi pacifici e la mediazione, la promozione e il rispetto dei diritti umani fondamentali, lo sviluppo integrale di popoli e Paesi». I 1.416 studenti e i 146 docenti dell’università, che vanta 4 facoltà e due istituti, devono sentirsi chiamati ad evangelizzare senza temere «di rischiare e di sognare la pace per tutte le persone e tutte le nazioni». Il nuovo ciclo di studi conferirà i gradi accademici di baccellierato e di licenza a conclusione, rispettivamente, di un primo ciclo triennale e di un biennio di specializzazione.

Per quel che riguarda la nuova costituzione apostolica, composta da 25 punti, Semeraro ha ricordato che è già stata consegnata al Papa. Francesco comunicò l’avvio di una riforma della Curia Romana il 13 aprile 2013 in concomitanza con l’annuncio della costituzione di un Consiglio di Cardinali per affiancarlo nel governo della Chiesa universale. Il documento è destinato a una revisione stilistica e una rilettura canonistica. Per Semeraro, per comprendere il testo «è indispensabile» tenere ben presente Evangelii gaudium, pubblicata nella fase iniziale dei lavori del C9. Per spiegare la trasformazione missionaria della pastorale il vescovo ha citato le parole pronunciate da Bergoglio il 28 luglio 2013 durante il viaggio a Rio de Janeiro per la 28° Giornata mondiale della gioventù. «Il Papa aveva distinto due dimensioni della missione – ha affermato Semeraro -: una programmatica e l’altra paradigmatica».

Tra i dodici principi-guida della proposta di riforma richiamati da Francesco, il vescovo si è soffermato sul principio della sussidiarietà, della decentralizzazione, della gradualità che come ha spiegato il Papa «è il frutto dell’indispensabile discernimento che implica processo storico, scansione di tempi e di tappe, verifica, correzioni, sperimentazione, approvazioni ad experimentum». Il vescovo di Albano non ha escluso che questo criterio «importante per conservare alla Curia romana il suo carattere di “servizio” rimanga pure a promulgazione avvenuta». Il principio della tradizione si è rivelato fondamentale per il lavoro del C9. «È proprio secondo questo principio che sarebbe fuorviante pensare a una riforma che stravolga l’intero impianto curiale – ha rimarcato Semeraro – Nella Curia infatti ci sono dicasteri che riguardano azioni fondamentali dell’agire ecclesiale, quali l’annuncio del Vangelo, la tutela della fede e la custodia dei costumi, la vita liturgica, il servizio della communio e della carità. Altri dicasteri riguardano poi le persone e gli stati di vita nella Chiesa. Tutto ciò deve necessariamente essere conservato anche se, come per ogni struttura di servizio, ha sempre bisogno di una permanente sorta di “manutenzione”».

Nella foto, il rettore della Pontificia Università Lateranense Vincenzo Buonomo

Parlando del principiodell’innovazione, il vescovo ha ricordato il dicastero per la comunicazione istituito da Bergoglio nel 2015 e la scelta di farlo guidare da un laico, Paolo Ruffini. Scelta “innovativa” anche quella di nominare un laico, Vincenzo Buonomo, rettore della Lateranense. Per illustrare il “processo” di riforma il vescovo ha ripreso il discorso pronunciato da Francesco il 22 dicembre 2016 in occasione degli auguri natalizi alla Curia Romana. Il Papa metteva in risalto che la riforma «è un delicato processo» che tra l’altro deve essere vissuto «con fedeltà all’essenziale, continuo discernimento, evangelico coraggio, ecclesiale saggezza, attento ascolto, tenace azione, profonda umiltà, determinata volontà, vivace vitalità». Per Bergoglio la riforma è quindi «ben più di un qualunque mutamento strutturale – ha concluso Semeraro -; si tratta, invece, di ciò che è necessario perché nel fluire del tempo e nel cambiamento delle situazioni la Chiesa conservi la sua “sacramentalità”, ossia la sua trasparenza nei riguardi di Dio che la fa esistere e in essa dimora.  E questo vale anche per la Curia. Ciò che si chiama “riforma” è intimamente connesso al volto di Chiesa in uscita missionaria, come si legge in Evangelii gaudium».

Ad aprire il 246° anno accademico della lateranense il cardinale vicario Angelo De Donatis, gran cancelliere dell’ateneo. Il porporato ha evidenziato che il lavoro del C9 interesserà anche l’università perché la riforma «delinea una ristrutturazione degli organismi della Santa Sede», tra cui l’ateneo, e riguarderà anche gli studi giuridici. Ma la «destinazione ultima» dell’organizzazione e del lavoro della Curia è l’evangelizzazione, processo al quale l’università potrà dare il suo contributo quando la costituzione sarà promulgata. Il cardinale ha invitato studenti e accademici a fare proprio il cammino della Chiesa di Roma appellandosi «all’intelligenza della fede», per essere «cooperatori della Verità nella carità». Questo è un lavoro al quale «ognuno è invitato: nessuno pensi che riguardi soltanto gli altri. Una comunità cristiana come questa università aspira a essere può trovare in un cammino di guarigione del genere un’occasione insperata per fare esperienza della presenza e della misericordia del Signore».

Il rettore ha infine rimarcato che il ruolo dell’ateneo è quello di «partecipare al dibattito della cultura del ventesimo secolo per dare risposte». Ha invitato personale e studenti a non cedere alla «tentazione del lateranocentrismo per concretizzare l’invito di Papa Francesco a essere in uscita per far sperimentare a diversi popoli il dono di Dio secondo la propria cultura». Gli impegni futuri e i criteri essenziali sui quali l’università deve insistere richiamano alla «sobrietà e alla trasparenza. Dobbiamo cercare di compiere il nostro dovere sempre al meglio».

Avvento-Natale 2018: pubblicato il sussidio della Cei

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È stato pubblicato il Sussidio Avvento-Natale 2018 sul tema “Verrà il Signore in tutta la sua gloria: ogni uomo vedrà il Salvatore”. Il sussidio si compone di due parti: una dedicata al tempo di Avvento e una al tempo di Natale. Offre per ciascuna Domenica/Solennità/Festa i commenti alla Liturgia della Parola, le indicazioni liturgiche, i formulari per la preghiera dei fedeli, i suggerimenti musicali. Una particolare attenzione è rivolta ai ministranti. Il sussidio si apre con la presentazione di monsignor Stefano Russo, segretario generale della Cei.

«Questo tempo di salvezza – scrive monsignor Russo nella prefazione – permea l’esistenza del singolo credente e della Chiesa tutta. Entrambi desiderano affrancarsi dalle pesantezze della vita quotidiana, entrambi anelano a recuperare una serenità di fondo che sembra dissolta dalla diffusa precarietà sociale. Tuttavia, le nebbie dell’autunno dell’anima non manifestano soltanto opacità e confusione. Esse annunciano, pur velatamente, l’avvicinarsi del Sole invitto, Cristo Gesù, che a Natale rinasce nel cuore di ciascuna persona pronta ad aderire alla volontà del Padre»

«È trascorso ormai un anno durante il quale molti hanno attraversato prati ridenti e paesaggi incantevoli. Il panorama non è stato però sempre idilliaco. Sentieri impervi ci hanno messo in difficoltà, ci hanno costretto a prendere coscienza dei nostri limiti. I successi non sempre bilanciano i fallimenti, i dolori talora insidiano la gioia e il piacere di vivere. Immersi e quasi schiacciati da una folla anonima – prosegue -, rischiamo di non trovare il porto della pace nell’ambito familiare e nel contesto del lavoro quotidiano. Non c’è, tuttavia, condizione di vita che sia destinata a durare per sempre. Solo Cristo è stato ieri, è oggi e sarà domani. È il nostro Salvatore, la via da percorrere, la verità da assorbire totalmente, la vita da riscoprire ogni giorno e condividere nello splendore della gloria perché in Lui anche noi siamo figli di Dio».