«Torneranno, prof?» La Pasqua, la vita e la morte. E «una canzone sulla speranza assoluta» cantata dai Negramaro

 

Pasqua è da sempre tempo di vita, di battesimi: due, solo quest’anno. Lara e Tommaso. La primogenita di mia cognata, il quarto figlio di mia sorella. Sorrento e Roma. Da chi andare? Privi del dono d’ubiquità, la scelta è caduta sulla primogenita.

Non lo sapevamo, ma in realtà questo momento di gioia si sarebbe rivelato come l’occasione per salutare un’ultima volta Carmela, la mitica nonna di mia moglie. A ricordarci, nel caso ve ne fosse bisogno, la repentinità del passaggio dalla vita alla morte – e viceversa.

L’aggravarsi improvviso di una condizione già dolorosa, la (saggia) decisione di non andare in ospedale, l’arrivo dei cari intorno al letto, l’attesa dell’unzione degli infermi e di quell’ultima eucaristia mangiata la quale è serenamente spirata.

Dopo un battesimo nel sabato di Pasqua, dunque, un funerale in quello successivo – laddove nonna Carmela è stata ritratta in un modo straordinariamente sentito dal parroco don Franco che ben la conosceva.

Donna dal carattere forte – a tratti duro – che però si scioglieva spesso in dolci sorrisi e sagaci battute. Litigammo – se così si può dire – una volta soltanto, a causa della fetta centrale di una buonissima torta al limone che una sera avevo nascosto nel forno per poterla mangiare a colazione, ma che lei trafugò – divorandosela tutta – di notte. Non potrò mai dimenticare il sorrisetto dietro cui negava assolutamente di essere stata lei a prenderla. Ma la sua golosità era la mia. E la compresi…

Sempre legato al mangiare, d’altronde, fu il motivo che spinse la nonna, donna dal giudizio morale netto e dalla religiosità devotissima, a cambiare la prima opinione su Papa Francesco: “Sergio, lo sai che questo nuovo Papa mi augura sempre buon appetito per il pranzo della Domenica? Credo che lo ascolterò meglio anche sul resto…”.

Questo aneddoto, arricchito da altre sue considerazioni sul colore della pelle o della fede delle badanti che nell’ultimo periodo si susseguivano nell’aiutarla, finì diritto in una lezione del primo anno di liceo sul rapporto tra saluto, salute e salvezza. Lasciando il segno nei ragazzi. Che alla notizia della sua morte – mi è sembrato giusto condividerla! – si sono sinceramente commossi. E hanno spalancato le emozioni dei ricordi sui loro nonni, presenti o ormai assenti.

Fin quando è giunta la fatidica domanda: “Torneranno, prof.?”. “Chi? – ho risposto. “I nostri nonni, gli altri morti… O almeno i bei momenti vissuti con loro…”. Negli anni ho imparato che a queste domande si risponde con un fermo ma delicato sì, incanalando poi il turbinio di emozioni susseguenti in una bella pagina letteraria, oppure, più semplicemente, in una canzone – come è avvenuto questa volta grazie ai Negramaro.

 

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“Una canzone sulla speranza assoluta, vista e cantata con più consapevolezza” – rivela il cantante Giuliano, perché “abbiamo immaginato uno scenario post apocalittico e davanti a questo scenario così nero, così grigio e così pieno di niente abbiamo immaginato che dalle montagne potesse tornare tutta la bellezza nascosta”.

Dunque , nonostante il male (Ricoeur), “torneranno i vecchi tempi / con le loro camicie fiammanti” – inizialmente irriconoscibili (Lc 24,15-16.36-37) – e “sfideranno le correnti” della nostra tristezza e disperazione (Lc 24,17-21.38), affinché possiamo “perdere il nome dei giorni / spesi male per contare / solo quelli finiti bene” (Lc 24,25-26.44.46), e invece “pensare / a nient’altro se non al mare” (Lc 24,33-35).

D’altronde già il precedente album era nato dal nero più nero che è la morte” e, nello specifico – confessa Giuliano – dalla “morte di mio padre”. Per poi prendere forma e proporsi come un disco “pieno di vita”, con canzoni caratterizzate da “una profondità tale che alla fine sono paradossalmente diventate leggere”, proprio perché “dopo tutta la sofferenza, un giorno mi sono svegliato e ho capito che la morte è una parte della vita e quindi bisogna vivere e non sopravvivere, nonostante tutto”.

Qui, però, c’è qualcosa di più. Qui, appunto, c’è quasi la certezza (di fede?) che “tutte le genti / che non hanno voluto parlare / scenderanno giù dai monti” ed allora, come si fa da adulti maturi con i racconti dei nonni e delle persone malate o con le spiegazioni dello stesso Gesù (Lc 24,27.32.45), “staremo a sentire / quelle storie da cortile / che facevano annoiare” – nel pieno delle illusioni giovanili – “ma che adesso sono aria / buona pure da mangiare” (Lc 24,30.41-43).

Addirittura, in una sorta di apocalisse-rivelazione (ancora laica?) del senso della sofferenza subita dal Potere, “torneranno gli innocenti / tutti pieni di compassione / per gli errori dei potenti / fatti senza esitazione / senza lividi sui volti, con un taglio sopra al cuore / prendi un ago e siamo pronti / siamo pronti a ricucire” – siamo pronti a perdonare (LC 24,47).

Infine – e qui si lacrima – “tornerai anche tu in mezzo gli altri / e mi sentirò impazzire”, “tornerai e ti avrò davanti spero solo di non svenire”. E’ l’amore per questa assenza non più tale che spinge il cantante a chiederle di “non voltarsi / che non voglio più svanire / nel ricordo dei miei giorni” e a implorarla “resta fino all’imbrunire” (Lc 24,29).

In realtà ciò non avverrà. Forse, non deve avvenire. Chi torna lo fa per subito sparire (Lc 24,31). Perché chi torna, sin dal mito della caverna di Platone, torna solo per ‘metterci in moto’, per farci partire e viaggiare lontano (Lc 24,28.48-49): “torneranno anche gli uccelli, ci diranno come volare, per raggiungere orizzonti, più lontani al di la del mare”.

Sempre che, come è evocato nel nucleo del video e della canzone, si vogliano capire queste cose da bambini e stringersi al corpo dell’altro “come se non c’è più niente”: affidarsi (Lc 24,39-40) …