Musei ecclesiastici, patrimonio rimosso
«Sono tre le parole chiave per capire la realtà dei musei ecclesiastici – spiega monsignor Giancarlo Santi, presidente dell’Amei – Innanzitutto sono giovani: il Museo Diocesano di Milano, ad esempio, ha soltanto 11 anni. La maggior parte è nata negli anni ’70, i più antichi hanno poco più di un secolo. Poi sono numerosi. E infine sono piccoli, quando non piccolissimi. E questo fa sì che la loro visibilità sia scarsa a da lontano, mentre a livello locale sono ben conosciuti perché ne costituiscono il volto. Ed è infatti la presenza sul territorio uno dei punti di forza di questi musei. L’altro dei punti è invece il personale, in gran parte giovane, dinamico e motivato, con una formazione qualificata nelle università italiane». Questa crisi però potrebbe abbattersi come una scure su realtà economicamente fragili… «Solo se non si riuscirà a vincere la sfida del lavoro in rete. Questa crisi può essere davvero l’occasione per un salto di qualità di questi musei. Da soli si cade. Ma se ne esce più forti se si riescono a condividere competenze, professionalità, risorse, idee, progetti. Costruire una rete è difficile, dobbiamo vincere le resistenze di una cultura individualistica, anche a livello ecclesiale, che chiude e indebolisce. La spinta della giornata nazionale è proprio questo, aprirsi a tutti: anche tra colleghi…»
Le difficoltà però sono molte, come sottolinea Paolo Biscottini, direttore del Museo diocesano di Milano. «Oggi vediamo disattenzione da parte dello Stato nei confronti di quei beni culturali che si definiscono ecclesiastici per via della proprietà ma che sono parte a tutti gli effetti del patrimonio nazionale. Così come “pubblici” sono i nostri musei: perché il patrimonio privato della Chiesa è in realtà della comunità. Però non hanno il sostegno di Governo ed enti locali, e il privato, che fin qui ci ha sostenuto, si sta ritraendo per via della crisi. Siamo soli. E siamo consapevoli della scarsa attenzione anche all’interno della Chiesa. Se nella Cei l’attenzione è forte, non si può nascondere che in un ambito più ampio la consapevolezza dell’importanza del patrimonio è scarsa e altalenante, perché dipende dall’interesse delle singole persone».
Rete è la parola chiave del mondo dei musei ecclesiastici. Ne è certo anche monsignor Stefano Russo, direttore Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Cei: «Sviluppare il lavoro in rete consente di crescere in numero e qualità, valorizzando la passione di chi ci lavora nonostante la scarsità di mezzi. Anche per questo la Cei in questi anni ha sostenuto con decisione la realtà dei musei diocesani grazie ai fondi dell’8×1000. Dal 1996 l’ufficio riserva una quota di contributi ai musei diocesani per accompagnarne l’attività ordinaria come catalogazione, laboratori didattici, allestimenti, restauri… Fino al 2011 sono stati erogati oltre 28,5 milioni di euro, nel solo 2011 sono stati ben 141 i musei che hanno avuto accesso ai contributi, per un totale di 1,8 milioni di euro».
Il plauso all’iniziativa arriva anche da Roberto Cecchi, sottosegretario del ministero per i Beni e le Attività Culturali: «Rappresenta un momento di vitalità. Ma il problema della rimozione è più ampio rispetto ai soli musei ecclesiastici. Questo è un momento davvero particolare, in cui si sta preparando un assetto prossimo venturo diverso dal passato, in cui il rischio che la proposta, sentita formulare nei mesi scorsi, di concentrare l’attenzione attorno ad alcuni poli di attrazione culturale, diventi realtà.
Ma l’idea di scegliere e scartare è esattamente l’opposto di ciò che è il nostro patrimonio artistico. I musei italiani sono quasi 5000, sparsi sul territorio italiano. Gli ecclesiastici ne sono un campione rappresentativo perfetto. Un patrimonio culturale immenso e tutto sommato ben conservato. Un’ infrastruttura del nostro paese che però attende ancora di essere usata. Perché? Ogni elemento resta a sé, mancano i collegamenti. Il problema allora non è la selezione del patrimonio ma l’integrazione tra sistemi. Questa iniziativa dei musei ecclesiastici ha il merito di rendere chiara la direzione da prendere, perché c’è in gioco la possibilità dello sviluppo economico del nostro Paese. I piani per i fondi strutturali europei per il 2014-2020 stanno lavorando sui beni culturali come un settore non più a bassa produttività né semplicemente nell’ottica del turismo ma come motore capace di generare creatività e innovazione.
Se l’economia si interessa a noi non è certo per rimorso del disinteresse passato. Gli analisti si sono accorti che nella globalizzazione vincono i territori caratterizzati. Ecco perché la nostra identità e la nostra forza stanno proprio in questi piccoli musei di periferia».