Commento alle letture Ascensione del Signore

Ascensione del Signore
At 1,1-11; Sal 47 (46); Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

Quest’anno la liturgia ci mostra in maniera esplicita che l’Ascensione costituisce l’anello di congiunzione tra le due grandi scansioni dell’opera lucana: il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Nella chiusa del Vangelo lo staccarsi di Gesù dai discepoli e il suo venir «portato su, in cielo» (Lc 24,51) è preceduto dal comando di restare a Gerusalemme fino a quando si sarà «rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,48), al fine di predicare a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati (Lc 24,47).

Negli Atti le parole sono ripetute in maniera molto simile: «Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Segue l’elevazione verso l’alto. La nube sottrasse Gesù alla vista degli apostoli; tuttavia il loro sguardo restò rivolto all’insù.

Per questo motivo furono rimproverati da due uomini dalle bianche vesti (il primo annuncio della risurrezione fu compiuto da due uomini «in abito sfolgorante», Lc 24,4): «Uomini di Galilea perché state guardando il cielo? Questo Gesù che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Accanto alla promessa dello Spirito e al comando della testimonianza e della predicazione, vi è il preannuncio della seconda venuta. Chi è asceso in alto scenderà di nuovo in terra. La forza dello Spirito, l’annuncio e il perdono dei peccati aprono all’attesa. Anche le parole degli uomini in bianche vesti fanno parte integrale dell’annuncio.

I modi scelti dal Nuovo Testamento per esprimere la dimensione escatologica impiegano (in conformità a quanto avviene nella prima lettura di oggi) soprattutto il linguaggio della discesa e non già quello della salita. Chi è asceso deve di nuovo venire sulla terra. L’intera Bibbia cristiana termina con il preannuncio di una discesa non ancora giunta. Il sigillo che chiuderà la storia umana è costituito dalla venuta in terra di quanto è custodito nei cieli «e vidi (…) la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,1-2). Gesù ascende al cielo a partire dalla Gerusalemme terrestre; la testimonianza della fede preannuncia, dal canto suo, che la Gerusalemme di lassù scenderà. La parola nuova e ultima spetta alla discesa, non all’ascesa.

Soltanto quando si vive «nell’attesa della tua venuta», la diffusione dell’Evangelo diviene parola che si presenta come invito e non già come forma di dominio. Gesù Cristo sale al cielo perché l’Evangelo, attraverso i suoi discepoli, si diffonda sulla terra. Fa parte del «buon annuncio» affermare che Gesù verrà «allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». Il senso della missione è rendere presente nel mondo chi, non essendo in prima persona tra noi, ha promesso di esserlo di nuovo. Per questo motivo l’annuncio dovrebbe essere contraddistinto soltanto dalla forza dello Spirito, vale a dire da una forza radicalmente diversa da tutte le altre (cf. Zc 4,6).

Troppo spesso nella storia cristiana la missione, lungi dall’essere animata dalla mite forza dello Spirito, è stata sorretta dalla potenza. Oggi, forse, non è più così nell’annuncio ad extra; ma cosa avviene ad intra? Nella debolezza che le contraddistingue, le Chiese sono percorse dalla paradossale tentazione di affermare ancora se stesse; in un certo modo, ciò avviene anche quando ci si propone di essere «in uscita», scelta che, sotto varie angolature, appare un tentativo per riaffermare, in modo aggiornato, dialogante e soccorrevole, la propria presenza nel mondo.

Il lascito più stringente collegato all’Ascensione e alla promessa dello Spirito è però quello di essere testimoni di Gesù Cristo venuto, presente ma sempre ancora da venire. La mitezza della testimonianza si regge sulla speranza; a dircelo sono le grandi parole della Prima lettera di Pietro, che ci chiamano a dar ragione della speranza che è in noi. «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza, rispetto e con retta coscienza» (1Pt 3,16).

La speranza è mite perché, per definizione, non si presenta come un fattore identitario. Termine, quest’ultimo, inesorabilmente ideologico tanto all’interno quanto all’esterno della comunità dei credenti in Gesù Cristo.
di Piero Stefano – Il Regno

L'Ascensione del Signore nell'innografia di Romano il Melode

Alziamo lo sguardo e i sensi verso le porte celesti

di MANUEL NIN

L'Ascensione, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione, è una delle grandi feste comuni a tutte le Chiese cristiane. Testimoniata già da Eusebio di Cesarea attorno al 325, nella tradizione bizantina si prolunga per una settimana nella sua ottava. Due tropari del mattutino sono dell'innografo Romano il Melode (+555) e appartengono al lungo kontàkion, inno che Romano compone per la festa e nel quale si snodano i diversi aspetti teologici della celebrazione, che porta nei libri liturgici bizantini il titolo di Ascensione del Signore e Dio e salvatore nostro Gesù Cristo. Romano parte dalla narrazione biblica dell'ascensione nel vangelo di Luca e negli Atti degli apostoli, e la sviluppa lungo le 18 strofe del poema, ognuna delle quali si conclude sempre con lo stesso versetto: "Non mi separo da voi. Io sono con voi e nessuno sarà contro di voi", che riprende tre testi biblici (Aggeo, 1, 8, Matteo, 28, 20 e soprattutto Romani, 8, 31). Tutta l'economia della salvezza portata a termine da Cristo è vista da Romano come la restaurazione della piena comunione tra il cielo e la terra, di cui l'Ascensione diventa il sigillo: "Compiuta l'economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi". L'ascensione del Signore, inoltre, non è un allontanarsi dagli uomini, un lasciarli soli, bensì un pegno del suo amore, della sua consolazione: "Eleviamoci, leviamo in alto occhi e mente, alziamo lo sguardo e i sensi verso le porte celesti, pur essendo mortali; immaginiamo di andare al monte degli Ulivi e di vedere il Redentore portato da una nube: di là, lui che ama donare, ha distribuito doni ai suoi apostoli, consolandoli come un padre, guidandoli come figli e dicendo loro: Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno è contro di voi". Romano si sofferma poi sulla protezione e la cura che il Signore ha avuto e ha dei discepoli e della Chiesa. Con un'immagine presa dal Deuteronomio (32, 11), Cristo sul monte dell'ascensione è paragonato all'aquila che dall'alto sorveglia e protegge la sua nidiata, immagine che la tradizione bizantina poi applica anche alla cura del vescovo verso la sua chiesa: "I discepoli, condotti sul monte degli Ulivi, circondavano il loro benefattore, e lui stendendo le mani come ali, coprì come un'aquila il nido affidato alle sue cure e disse ai suoi uccellini: Vi ho protetti da ogni male: amatevi dunque come io vi ho amati. Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno sarà contro di voi. Come Dio e Creatore dell'universo io stendo sopra di voi le mie mani, quelle legate e inchiodate sul legno. Nel chinare il vostro capo sotto queste mani voi riconoscete quel che faccio: io impongo su voi le mie mani come battezzandovi e vi mando pieni di luce e di saggezza". L'ascensione provoca la tristezza e il lamento degli apostoli che presentano a Cristo l'elenco di ciò che ognuno di essi ha fatto e lasciato, quasi un modello delle condizioni richieste al cristiano: "Abbiamo rinunciato a tutta la nostra vita, siamo diventati stranieri e pellegrini sulla terra. Pietro, il primo tra di noi a farsi tuo seguace, si privò di tutti i suoi averi. Andrea suo fratello abbandonò i suoi beni terreni e si caricò sulle spalle la tua croce. Tu vuoi trascurare e disdegnare l'amore dei figli di Zebedeo? Essi ti anteposero perfino il loro padre. Noi amiamo te più di ogni altro". Romano descrive ancora l'ascensione di Cristo con profusione di dettagli, servendosi di versetti dei Salmi letti in chiave cristologica: "Dio fece segno ai santi angeli che preparassero per i suoi santi piedi la salita, ed essi gridarono a tutti i principati celesti: Sollevate i cancelli e spalancate le gloriose porte celesti per il Signore della gloria! O nubi, distendetevi sotto colui che avanza. Signore, il tuo trono è pronto. Innalzati, vola sulle ali del vento". È da notare ancora il collegamento tra la nube che copre e nasconde Cristo allo sguardo degli apostoli e Maria sua madre: "La nuvola discese ad accogliere colui che è il condottiero delle nubi, lo prese e lo sorresse: o piuttosto fu sorretta, poiché quello stesso che era portato portava colei che lo reggeva, come una volta Maria. La Scrittura allude a Maria chiamandola nuvola [cfr. Isaia 19, 1], ella che fu custodita da lui mentre dimorava in lei". (©L'Osservatore Romano 2 giugno 2011)

L'Ascensione del Signore nell'innografia di Romano il Melode

Alziamo lo sguardo e i sensi verso le porte celesti

di MANUEL NIN

L'Ascensione, celebrata il quarantesimo giorno dopo la Risurrezione, è una delle grandi feste comuni a tutte le Chiese cristiane. Testimoniata già da Eusebio di Cesarea attorno al 325, nella tradizione bizantina si prolunga per una settimana nella sua ottava. Due tropari del mattutino sono dell'innografo Romano il Melode (+555) e appartengono al lungo kontàkion, inno che Romano compone per la festa e nel quale si snodano i diversi aspetti teologici della celebrazione, che porta nei libri liturgici bizantini il titolo di Ascensione del Signore e Dio e salvatore nostro Gesù Cristo. Romano parte dalla narrazione biblica dell'ascensione nel vangelo di Luca e negli Atti degli apostoli, e la sviluppa lungo le 18 strofe del poema, ognuna delle quali si conclude sempre con lo stesso versetto: "Non mi separo da voi. Io sono con voi e nessuno sarà contro di voi", che riprende tre testi biblici (Aggeo, 1, 8, Matteo, 28, 20 e soprattutto Romani, 8, 31). Tutta l'economia della salvezza portata a termine da Cristo è vista da Romano come la restaurazione della piena comunione tra il cielo e la terra, di cui l'Ascensione diventa il sigillo: "Compiuta l'economia a nostro favore, e congiunte a quelle celesti le realtà terrestri, sei asceso nella gloria, o Cristo Dio nostro, senza tuttavia separarti in alcun modo da quelli che ti amano; ma rimanendo inseparabile da loro, dichiari: Io sono con voi, e nessuno è contro di voi". L'ascensione del Signore, inoltre, non è un allontanarsi dagli uomini, un lasciarli soli, bensì un pegno del suo amore, della sua consolazione: "Eleviamoci, leviamo in alto occhi e mente, alziamo lo sguardo e i sensi verso le porte celesti, pur essendo mortali; immaginiamo di andare al monte degli Ulivi e di vedere il Redentore portato da una nube: di là, lui che ama donare, ha distribuito doni ai suoi apostoli, consolandoli come un padre, guidandoli come figli e dicendo loro: Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno è contro di voi". Romano si sofferma poi sulla protezione e la cura che il Signore ha avuto e ha dei discepoli e della Chiesa. Con un'immagine presa dal Deuteronomio (32, 11), Cristo sul monte dell'ascensione è paragonato all'aquila che dall'alto sorveglia e protegge la sua nidiata, immagine che la tradizione bizantina poi applica anche alla cura del vescovo verso la sua chiesa: "I discepoli, condotti sul monte degli Ulivi, circondavano il loro benefattore, e lui stendendo le mani come ali, coprì come un'aquila il nido affidato alle sue cure e disse ai suoi uccellini: Vi ho protetti da ogni male: amatevi dunque come io vi ho amati. Non mi separo da voi: io sono con voi e nessuno sarà contro di voi. Come Dio e Creatore dell'universo io stendo sopra di voi le mie mani, quelle legate e inchiodate sul legno. Nel chinare il vostro capo sotto queste mani voi riconoscete quel che faccio: io impongo su voi le mie mani come battezzandovi e vi mando pieni di luce e di saggezza". L'ascensione provoca la tristezza e il lamento degli apostoli che presentano a Cristo l'elenco di ciò che ognuno di essi ha fatto e lasciato, quasi un modello delle condizioni richieste al cristiano: "Abbiamo rinunciato a tutta la nostra vita, siamo diventati stranieri e pellegrini sulla terra. Pietro, il primo tra di noi a farsi tuo seguace, si privò di tutti i suoi averi. Andrea suo fratello abbandonò i suoi beni terreni e si caricò sulle spalle la tua croce. Tu vuoi trascurare e disdegnare l'amore dei figli di Zebedeo? Essi ti anteposero perfino il loro padre. Noi amiamo te più di ogni altro". Romano descrive ancora l'ascensione di Cristo con profusione di dettagli, servendosi di versetti dei Salmi letti in chiave cristologica: "Dio fece segno ai santi angeli che preparassero per i suoi santi piedi la salita, ed essi gridarono a tutti i principati celesti: Sollevate i cancelli e spalancate le gloriose porte celesti per il Signore della gloria! O nubi, distendetevi sotto colui che avanza. Signore, il tuo trono è pronto. Innalzati, vola sulle ali del vento". È da notare ancora il collegamento tra la nube che copre e nasconde Cristo allo sguardo degli apostoli e Maria sua madre: "La nuvola discese ad accogliere colui che è il condottiero delle nubi, lo prese e lo sorresse: o piuttosto fu sorretta, poiché quello stesso che era portato portava colei che lo reggeva, come una volta Maria. La Scrittura allude a Maria chiamandola nuvola [cfr. Isaia 19, 1], ella che fu custodita da lui mentre dimorava in lei". (©L'Osservatore Romano 2 giugno 2011)