Spazio ristretto tempo dilatato, Santa Chiara e il carisma francescano

da Osservatore Romano

San Damiano in Assisi, 11 agosto 1253. Una donna riconsegna a Dio il suo ultimo respiro: Chiara d’Assisi: il compimento di una restituzione di se stessa di cui ha fatto la sua vita. La sua vicenda umana, evangelica, francescana non ha bisogno di molte parole. Tratteggiata dalle fonti biografiche secondo i canoni di santità propri del movimento femminile del XIII secolo — propositum di verginità, pratica dell’elemosina, preghiera e penitenza — la vita di Chiara conosce nell’incontro con Francesco e la sua fraternitas, l’evento decisivo, il nodo che strinse tutto di lei, il prima e il dopo, perché fu per lei l’incontro decisivo con l’Evangelo. Non una parola scritta, ma una Persona vivente, il Cristo povero. Una follia evangelica quella che aveva visto possibile e viva attraverso Francesco e i suoi, che da nobili ne aveva fatto dei minores in una scelta di povertà radicale, di umiltà, di semplicità, di servizio, di carità lieta; quella misericordia usata verso i lebbrosi che aveva fatto di Francesco, sino ad allora universo a se stesso, frater Franciscus, un fratello. E Chiara vi si era totalmente rispecchiata, ritrovandosi definita. La vendita dell’eredità paterna, segno forte di rottura con il suo status sociale di nobile, insieme alla tonsura che la annoverava nello stato dei “penitenti” distaccandola dalla famiglia e la fuga, nella notte della Domenica delle palme del 1211/1212, senz’altro concordata e approvata dal vescovo Guido, fino all’approdo a San Damiano, sono il nuovo ma in certo modo anche il punto di arrivo della sua “conversione a Cristo”.

Helena Bonham Carter (al centro) interpreta Chiara nel film «Francesco» di Liliana Cavani (1989)

Questo Chiara aveva colto in Francesco: “convertirsi a Cristo”. Ma che poteva significare per questa giovane donna dal cammino esteriore e interiore così lineare? Scegliere Cristo senza ritorno, perché da Lui scelta. Seguire Lui, Via vivente e in questo rovesciare totalmente i criteri mondani su cui impostare la vita. Quella notte della Domenica delle palme non aveva posto fine a un tempo di discernimento ancora incerto, e aveva portato Chiara dapprima alla abbazia benedettina di San Paolo delle Abbadesse, poi a Sant’Angelo di Panzo, probabilmente uno degli insediamenti di donne che, riunite insieme senza una regola precisa, vivevano una vita povera fatta di lavoro manuale, mendicità e spesso di servizio in un ospedale o lebbrosario. Ma «il suo spirito non trovava piena pace» dice il suo biografo. Un percorso geografico, ma anche spirituale ed evocativo di una ricerca che ha conosciuto e attraversato tutte le forme di vita religiosa femminile del tempo per approdare infine a San Damiano, un piccolo luogo fuori le mura di Assisi, marginale, silenzioso ma eloquente testimone per quarantadue anni di una vita che si è consumata come brace sempre ardente, nella condivisione con le sorelle della medesima povertà, in quella vasta gamma che Chiara ha dovuto declinare con molti termini per poterla esprimere: “povertà, fatica, tribolazione, umiliazione e disprezzo del mondo”, e nella comunione fraterna. “Povertà altissima”, “santa unità” in una separazione dal mondo che rende più stringenti l’una e l’altra: sono i due tratti che per Chiara, alla scuola di Francesco, descrivono qualcosa del mistero santo di Dio rivelato e partecipato a noi nell’Incarnazione redentrice di Cristo. Sono le due gemme incastonate in semplicità in quello scorrere dei giorni sotto lo sguardo di Dio e non degli uomini: è l’opera dello Spirito Santo che si fa visibile e che di un cuore che crede e ama fa una impronta della Vergine Maria. Clara, Dei matris vestigium, espressione pregnante con cui il biografo sintetizza l’opera di Dio in Chiara. È questo che lei consegna nella sua Regola, la prima scritta da una donna; “forma di vita”, perché plasma una vita, perché ha nel cuore vivo del Vangelo la sua sorgente, perché la vita giorno dopo giorno prende la forma di Cristo, la sua bellezza e la sua trasparenza filiale. Una forma che ha conosciuto un lungo travaglio, durato quanto la vita di Chiara, perché il suo carisma, in fedeltà all’intuizione di Francesco, venisse riconosciuto e confermato dalla Chiesa.

Il 9 agosto Chiara riceve tra le mani la bolla di approvazione della sua Regola e la bacia. Tutto è davvero compiuto: in quel bacio Chiara consegna se stessa, il suo spirito, il suo respiro, affermando così che quel testo contiene e può trasmettere ad altre il dono ricevuto. Quell’esperienza di sequela mariana e contemplativa, di custodia della profondità dell’ideale di Francesco, fatto carne nella specificità femminile della sua forma di vita, distinta ma proprio per questo complementare e reciproca a quella di Francesco, non è venuta meno dopo ottocento anni. San Damiano evoca come prima cosa una casa; e la metafora della casa evoca a sua volta vita, nella sua totalità e nelle sue molteplici sfaccettature, la vita nelle sue fasi, dall’inizio della sequela alla fine, come ultimo gesto della propria consegna a Cristo. San Damiano, come tutti i luoghi francescani, è uno scrigno piccolo, bello, prezioso. Un luogo che come ogni monastero di sorelle povere anche oggi custodisce nella sua forma claustrale un rapporto autentico con lo spazio e con il tempo. Non uno spazio infinitamente dilatato e un tempo concentrato, il cui frutto è una grande superficialità, un incalzare frenetico, un’ansia persino patologica per far fronte a ciò che si propone o meglio si impone di volta in volta come urgenza e costrizione a rispondere sempre e comunque, immediatamente. Ma un’altra è la misura dell’umano. La logica è altra e riporta l’uomo alla sua verità: uno spazio concentrato, come è lo spazio di una clausura, e un tempo dilatato. Questo ha un valore sacramentale: da un lato del mistero dell’Incarnazione, evento e metodo della rivelazione, mistero del Verbum abbreviatum, del contrarsi estremo dell’infinito nel finito, del tutto nel frammento. Tale lo spazio piccolissimo del grembo di Maria. Papa Francesco fa spesso riferimento a questo, citando il motto «Non essere limitato da ciò che è il più grande, ma essere contenuto nel più piccolo, è divino». Dall’altro del fatto che Dio ha tempo per l’uomo: il tempo per una relazione di intimità, sintetizzata nella Genesi, lì dove Dio si intrattiene familiarmente con l’uomo nel giardino e che si distende nella pazienza dei giorni che sono la storia della salvezza. Una storia ancora in atto. In San Damiano per quarantadue anni Chiara visse nello spazio ristretto, angusto per cinquanta donne, della clausura. Quanto ha bisogno il nostro tempo di lasciarsi interpellare da questa dimensione che rimanda all’abitare! Per un uomo senza patria, senza dimora, senza riferimenti, in esilio o in fuga da se stesso, incalzato dalla compulsività della vita, preda della fatica e della sfiducia nei confronti di un impegno definitivo e della perseveranza, spesso revocata in tutti gli stati di vita, quanto parla la forma della stabilità, che è insieme permanere in uno spazio fisico e relazionale e permanere nel tempo, nella memoria di una storia abitata da Dio e della coerenza di un disegno cui aderire e che conferisce identità. San Damiano, come i nostri monasteri, hanno un parlatorio, spazi riservati a quella dimensione così rara oggi e così indispensabile, quale è l’ascolto dell’altro, il fargli spazio, il dargli tempo, l’assumersi materno dei suoi problemi, dei suoi drammi, delle sue domande. All’individualismo indifferente Chiara risponde, e lo vuole e può fare oggi attraverso di noi.

Nel dilagare della mentalità consumista, il luogo povero di San Damiano parla di conversione alla sobrietà e alla povertà scelte e amate, non subite, nel loro aspetto esteriore come espressione ultima dell’assunzione di quella minorità che include scelte concrete di povertà, ma senza cui la povertà materiale potrebbe essere solo presuntuosa ostentazione o scelta sociologica, lì dove Cristo povero è la ragione delle scelte di Francesco e Chiara. La dimensione claustrale non è che una forma estrema di questa povertà. San Damiano ha un cuore: l’infermeria e il dormitorio, vere cattedre del magistero di Chiara, inferma per quasi trent’anni. Alla tendenza a esorcizzare il limite negandolo, il nostro carisma francescano clariano risponde assumendo il limite e il negativo nella logica dell’Incarnazione e della Pasqua di Cristo che lo ha assunto e consumato nel suo amore crocifisso. E proprio qui due ultimi insegnamenti raccogliamo da Chiara come lo ricevettero le compagne presenti con lei alla soglia del suo passaggio a Dio. La consapevolezza grata che siamo volute, interpellate, vocate e con-vocate e perciò rese responsabili di quel dono, da restituire moltiplicato, secondo la parabola dei talenti. Una parola che evangelizza l’uomo che si percepisce senza vocazione e perciò profondamente de-responsabilizzato davanti alla vita, alle scelte e agli impegni. E l’esperienza del morire come consegna di sé a Dio di una creatura contenta di essere creatura e piccola nelle mani di un Signore così grande. Così Chiara e il suo carisma sono presenti oggi e dialogano con il nostro tempo: il massimo della presenza nel massimo di una apparente assenza e non visibilità.

delle Clarisse del Monastero Santa Lucia di Foligno