Si apre a Bose il quindicesimo convegno liturgico internazionale. Abitare celebrare trasformare

L’Osservatore Romano

-La saggezza della comunità (Dario Vitali)

-L’arte di accogliere le famiglie nel lutto (Louis-Marie Chauvet)

Abitare celebrare trasformare. Dall’1 al 3 giugno si terrà presso il monastero di Bose (Magnano, in provincia di Biella) il quindicesimo convegno liturgico internazionale. Organizzato dal monastero e dall’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza episcopale italiana, in collaborazione con il Consiglio nazionale degli architetti, avrà per tema «Abitare, celebrare, trasformare. Processi partecipativi tra liturgia e architettura».
Il convegno — di cui anticipiamo stralci di due interventi — è un appuntamento annuale in cui studiosi ed esperti di diversi paesi si confrontano su temi relativi al rapporto tra liturgia, architettura e arte, offrendo al vasto pubblico presente — composto da architetti, teologi, artisti, responsabili di uffici diocesani di liturgia, dei Beni culturali ecclesiastici, dell’edilizia per il culto, docenti e studenti delle facoltà di architettura e di teologia — un luogo di riflessione comune, animata dalla volontà di riconoscere appieno il valore dello spazio liturgico e dell’arte cristiana. La sinergia fra ricerca architettonica e prassi liturgica necessita oggi di una grammatica per pensare e vivere la Chiesa attraverso i suoi spazi e le sue architetture, valorizzando la dimensione partecipativa dell’esperienza ecclesiale e architettonica, nel movimento virtuoso fra committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante. Si delineano così nuovi processi partecipativi, in un linguaggio che coniughi il verbo fare nella prospettiva ecclesiologica del fare Chiesa e del fare chiese in senso architettonico. Alle origini di un edificio c’è sempre una comunità sinodale su scala locale, che deve confrontarsi con il desiderio, la sfida e la necessità di costruire, trasformare e abitare un edificio-chiesa. Un altro verbo da declinare è abitare, visto sotto l’angolo antropologico e filosofico del prendere dimora in uno spazio costruito. Se «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra» (Heidegger) allora questa modalità deve essere pensata e assunta, in un dato intreccio e contesto sociale, nell’epoca dei non-luoghi. Costruire implica porre un nuovo elemento all’interno di un paesaggio. In senso architettonico e teologico, la Chiesa è costruttrice del tempo e dello spazio, sapendo che costruire è quell’autentico abitare, che — mentre erige costruzioni — si prende cura di ciò che cresce. Celebrare, invece, in chiave teologica, implica assumere e abitare la ritualità e la spiritualità in un luogo. Oggi in modo evidente, celebrare implica accogliere la domanda di riti per avviare itinerari di fede e di umanizzazione. Il celebrare è lo scopo del costruire ed è pienezza dell’abitare. Trasformare può essere tradotto con “dare nuova vita ai luoghi”. Ogni spazio costruito dall’uomo è un organismo vivo e per questo in continua trasformazione, autentica metamorfosi di finalità, usi e forme. Semper reformanda è la Chiesa, anche nelle sue architetture. Il convegno è stato preceduto dal Cli/Lab, un laboratorio interdisciplinare tra architettura e liturgia che si è tenuto presso il monastero di Bose dal 24 al 26 febbraio scorso: venti giovani partecipanti selezionati tra studiosi e professionisti di varie discipline si sono confrontati declinando i verbi abitare, costruire, celebrare, trasformare in tutte le loro possibili combinazioni architettoniche e liturgiche. Alcuni di essi presenteranno le ricerche nate dal laboratorio, come fonte di dibattito tra i partecipanti al convegno.

La saggezza della comunità

di Dario Vitali

La Lumen gentium afferma la precedenza del popolo di Dio sulla gerarchia, della vita teologale sulle funzioni ministeriali e gli stati di vita, in ragione della precedenza dell’essere sul fare. La rivoluzione copernicana del concilio trova il suo fondamento nel rapporto costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, che «differiscono per essenza e non tanto per grado», e che per questo «partecipano ambedue, ciascuno a suo proprio modo, all’unico sacerdozio di Cristo» (Lumen gentium, 10). Si tratta dell’unica differenza essenziale nella Chiesa, che abilita qualcuno — in forza della configurazione sacramentale a Cristo-capo — ad agere in persona Christi in favore della comunità sacerdotale. Tutte le altre differenze sono espressione della grazia battesimale.
Non si tratta perciò di negare la gerarchia per innalzare i laici, di cancellare le funzioni per affermare un potere concorrente del popolo di Dio; si tratta piuttosto di tornare ai giusti processi ecclesiali, in grado di garantire la crescita della Chiesa come «comunità di fede, speranza e carità» (Lumen gentium 8), e perciò di ogni suo membro nella vita teologale, attraverso la circolarità continua tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra la comunità sacerdotale e i suoi pastori.
Lumen gentium aveva descritto il sensus fidei come partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione del Santo (cfr. Giovanni 2, 20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Con il senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero al quale fedelmente si conforma, accoglie non già una parola di uomini, ma realmente la Parola di Dio; aderisce indefettibilmente “alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi”, vi penetra più a fondo con retto giudizio e più pienamente la applica alla vita» (Lumen gentium 12).
L’ecclesiologia conciliare conferisce al sensus fidei il suo giusto posto e rilievo: la rivoluzione copernicana in ecclesiologia permette di recuperare effettivamente la funzione attiva del popolo di Dio non solo nel campo ristretto dello sviluppo dogmatico, ma in tutti i processi della vita ecclesiale, compreso l’ambito dell’architettura e dell’arte sacra. Se si tratta, infatti, di una forma peculiare di esercizio del sacerdozio comune — la partecipazione alla funzione profetica di Cristo da parte della totalità dei battezzati — il suo esercizio avviene nella circolarità continua con il munus docendi dei Pastori della Chiesa. La difficile recezione di una dottrina.
Basterebbero queste affermazioni per tentare un collegamento del sensus fidei con il processo — immaginato dal presente convegno — di «fare, abitare, costruire, celebrare, trasformare», in una relazione armonica di «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante». Sarebbe, però, una scorciatoia, o un cortocircuito, dal momento che la teologia post-conciliare, una volta affermata enfaticamente la novità delsensus fidei, ha di fatto trascurato questa dottrina, come pure la dottrina del sacerdozio comune; anzi, l’uso polemico che è stato fatto di questi temi, mettendo in competizione il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale, e opponendo l’autorità dottrinale dei fedeli al Magistero della Chiesa, ha spinto quest’ultimo a inquadrare la teologia del popolo di Dio e, in particolare, il sensus fidei nel fenomeno del dissenso. Se così fosse, come immaginare un contributo al «fare Chiesa» di un soggetto — il popolo di Dio — che rivendica in termini polemici una funzione alternativa alla gerarchia?
In realtà, a essere polemica non è stata la universitas fidelium — alla quale difficilmente viene concessa la parola — ma quanti si erano eletti a suoi interpreti qualificati: soprattutto teologi che hanno assunto il sensus fidei come istanza democratica nella Chiesa, opponendo carisma a istituzione, libertà a verità, popolo di Dio a gerarchia, in uno schema ideologico che ha molto compromesso e frenato il processo di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano II. A causa di tale deriva il sensus fidei non ha conosciuto la dovuta attenzione nel processo di recezione del concilio, con la conseguenza di disattendere le enormi possibilità di applicazione che il quadro ecclesiologico disegnato da Lumen gentium offriva al suo esercizio. Di fatto, nel Magistero post-conciliare si è preferito glissare sul tema, passando a una più comoda teologia del laicato, costruita sul rapporto di collaborazione con la gerarchia piuttosto che sul primato del popolo di Dio.
Il sensus fidei — contestuale con il tema del popolo di Dio — è tornato al centro dell’attenzione con Papa Francesco.
Sulla base di questa dottrina, il Papa fonda e giustifica la sua idea che, «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario», per cui «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il suo grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati, in cui il popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium 120). Criterio, questo, che sembra calzare in termini esemplari al campo dell’edilizia di culto e dell’arte sacra, appannaggio dei committenti, degli architetti e degli artisti, senza alcuna partecipazione attiva del popolo di Dio al processo. Al di là di una richiesta di aiuto economico per la costruzione della chiesa, null’altro si chiede alla comunità cristiana.
D’altronde, cosa potrebbe mai dire o fare il popolo di Dio in un’azione che richiede competenze precise, sia in fase di progettazione che di esecuzione? Come potrebbe incidere su un progetto architettonico, o su un’opera o un ciclo di arte sacra, se manca di strumenti che ne rendano se non necessaria, quantomeno utile la richiesta di un parere? Erano, su altro registro, le stesse domande che si poneva Melchor Cano nel XVIsecolo, quando, pur riconoscendo la universitas fidelium come voce della Tradizione, e perciò una delle autorità che il teologo poteva interrogare per comprovare la verità cattolica, lo privava di qualsiasi valore chiedendosi che cosa mai i fedeli potessero dire che già i pastores ac doctores non avessero già detto, molto meglio e con più profondità e pertinenza. Stando a questo criterio, che cosa possono chiedere alla gente il vescovo, il liturgista, il teologo, l’architetto, l’artista che loro già non sappiano? Ma in tal modo si finirebbe nella stessa logica degli «attori qualificati», che priverebbero il popolo di Dio di qualsiasi capacità attiva nel processo di costruzione di una chiesa.
Sfuggendo a questa logica, Papa Francesco, nel discorso in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ha spiegato che è stato il riferimento alsensus fidei a «guidarmi quando ho auspicato che il popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno alle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire».
Quel discorso — che non è fuori luogo qualificare come storico — ha ripreso e sviluppato l’ecclesiologia conciliare in chiave sinodale, offrendo un quadro assai utile per sussumere il quadro delle relazioni tra «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana».
Il punto primo e decisivo è che, analogicamente al processo avviato dal Papa per i due sinodi, bisognerebbe ascoltare ciò che la comunità cristiana ha da dire sulla propria casa, quella che già abita o quella che andrà ad abitare. La scelta decisiva non è quella di inviare un questionario, che il più delle volte sembra destinato ai “cestini” di varia natura, ma di consultare, cioè dare voce e ascoltare la comunità cristiana in quello che ha da dire. Si tratta di andare oltre l’idea del «popolo bue», ignorante per definizione, e conferirgli dignità di soggetto, anche se il suo contributo si riducesse a balbettii: prima di liquidare l’irrilevanza di una parola incerta e debole, bisognerebbe stigmatizzare la responsabilità di quanti avrebbero potuto o dovuto, ma non hanno istruito il popolo di Dio nella grammatica della fede.
Si tratta di fare propria la logica sinodale, che elegge l’ascolto non solo come condizione, ma come primo atto dell’intero processo sinodale. Per Francesco, «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Giovanni 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Apocalisse 2, 7)». Nel caso del sensus fidei, è un ascolto fondato sulla convinzione che «voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti sapete. (…) la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce» (1 Giovanni 2, 20.27).
Se anche nell’atto di avviare la costruzione di una chiesa il processo inizia dall’ascolto, chi si dovrebbe ascoltare? Che cosa si dovrebbe domandare? In che termini? Va da sé che un’indagine di tipo discrezionale, scegliendo a campione tra i membri della comunità, scadrebbe nelle dinamiche dell’opinione pubblica, contraddicendo grossolanamente il sensus fidei e la sua funzione ecclesiale, data piuttosto dall’azione dello Spirito santo che muove la Chiesa verso il consenso. Né basta dire che bisogna consultare o far parlare tutti, perché il consenso come effetto dell’esercizio del sensus fidei non è la somma delle opinioni di tutti, ma la manifestazione della fede della Chiesa in quanto tale. Questo è evidente nel campo dello sviluppo dogmatico, ma rimane vero in ogni ambito del vissuto ecclesiale: soggetto delsensus fidei non è tanto il singolo, quanto la Chiesa come totalità dei battezzati.
Questo particolare profilo ecclesiale del sensus fidei lascia intendere anche i termini in cui si debba intendere l’ascolto del Popolo di Dio da parte di chi, committente, architetto, artista, ha la responsabilità di costruire la «casa» della comunità: «ascoltare è più che sentire», ma è anche più che far parlare, in quanto nella parola — come pure nel silenzio — dell’altro chi interroga è chiamato a cogliere la voce dello Spirito che guida la Chiesa a tutta intera la verità. Non si tratta perciò di fare sondaggi e di verificare le percentuali della maggioranza, ma di porsi in ascolto di una voce — non l’unica, certo — della Tradizione, sapendo che questa «cresce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo» (Dei Verbum 8).
Ma come ascoltare questa peculiare voce della Tradizione, se il soggetto del sensus fidei è la totalità dei battezzati? Come interrogare un soggetto tanto grande da risultare anonimo? Non a caso, la teologia preconciliare parlava di un’infallibilità passiva, attribuendo al Magistero la funzione attiva di verificare il consenso dei fedeli. D’altra parte, così si erano regolati i Papi nel caso dei dogmi mariani, quando avevano consultato i vescovi per sapere della fede loro e dei loro fedeli circa l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria in cielo. Ma questa idea si è imposta — come si è visto — con la Riforma gregoriana: nel primo millennio non si parlava di «singularis Antistitum et fidelium conspiratio», intendendo due autorità nella Chiesa — il Magistero e la universitas fidelium — che attestano la stessa verità, ma di «singularis christianorum populorum concordissima fidei conspiratio», dove «i popoli cristiani altro non sono che le diverse Chiese diffuse su tutta la terra, in comunione tra loro proprio per la condivisone della medesima fede apostolica».
Le due formule rispondono a modelli ecclesiologici diversi: la Chiesa come communio Ecclesiarum del i millennio e la Chiesa universale del ii millennio. Il Vaticano II, senza negare le acquisizioni dell’ecclesiologia giuridica del ii millennio, centrata soprattutto nella difesa delle prerogative del Papa, anzi inserendole in un quadro più ampio e organico, ha recuperato l’orizzonte dei Padri, spiegando la compagine ecclesiale come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (Lumen gentium 23). La forza di questo principio, che nel post-concilio si è tentato di stemperare, risiede nella capacità di tradurre in termini di circolarità feconda la cattolicità della Chiesa. In effetti, il concilio, proprio nel quadro del capitolo sul popolo di Dio, aveva già affermato la «mutua interiorità» di universale e particolare, asserendo la legittima esistenza delle Chiese particolari, le quali «godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13).
Qualcuno potrebbe chiedersi perché tanta insistenza sul registro ecclesiologico. Il motivo è semplice e decisivo insieme: dato che «il deposito della Parola di Dio» è stato «affidato alla Chiesa» (Dei Verbum 10), un diverso modello di Chiesa reclama un diverso modello di trasmissione del deposito rivelato. Quando, cioè, si concepisca la Chiesa nella «mutua interiorità» di Chiesa universale e Chiese particolari, anche il dinamismo della Tradizione va ripensato secondo il profilo di tale soggetto, che non è più la Chiesa universale genericamente intesa, ma il «corpo delle Chiese» in comunione tra loro, con il successore di Pietro come principio e fondamento dell’unità di tutti i battezzati, di tutte le Chiese, di tutti i vescovi.
Il concilio, disegnando in senso dinamico il progresso — meglio sarebbe dire: il cammino — della Tradizione, ha recuperato anzitutto la funzione del popolo di Dio. Quando Dei Verbumafferma, infatti, che «la perceptio, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia per la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Luca, 2, 19.51), sia per la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza, sia per la predicazione di coloro che hanno ricevuto un carisma sicuro di verità» (Dei Verbum 8), prima della predicazione dei vescovi sottolinea la capacità dei credenti diintus-legere il mistero cristiano. Il testo non richiama esplicitamente il sensus fidei, che, tuttavia, è evocato dalla contemplazione di chi, sull’esempio di Maria, medita nel proprio cuore, e soprattutto dall’intelligenza profonda (intima) delle cose spirituali che scaturisce dall’esperienza cristiana.
Due le conseguenze più immediate: che non si può comprendere la Tradizione limitandosi all’ascolto dei pastori, in quanto dotati del «carisma sicuro di verità», senza considerare il popolo santo di Dio, voce della Tradizione e quindi soggetto di diritto della sua trasmissione; inoltre, che bisogna ascoltare il popolo di Dio addirittura prima dei pastori. Questo non per ribaltare la piramide, nel tentativo di esautorare o comunque indebolire la funzione del Magistero: la logica del testo risponde piuttosto all’idea di Rivelazione come incontro e dialogo di Dio con l’uomo. Se, infatti, «Dio parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2), la risposta a Dio nel dialogo è di questi uomini che «per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina» (Dei Verbum 2), cioè del popolo di Dio, costituito tale in forza della rigenerazione in Cristo, che non risponde anzitutto con illustrazioni dottrinali, ma con la confessione della fede, con la parola e soprattutto con la testimonianza della vita.

L’arte di accogliere le famiglie nel lutto

di Louis-Marie Chauvet

Prima di essere la casa di Dio (i templi pagani erano la casa del dio e contenevano la statua che lo rappresentava), una chiesa è la casa della Chiesa, cioè del popolo di Dio. Popolo di Dio: ecco una delle immagini che è riemersa nel concilio Vaticano II per designare la Chiesa, immagine che, a differenza di quella paolina di «corpo di Cristo» è largamente estensibile: di un corpo o si è membra o non lo si è, non c’è via di mezzo; parlare di un popolo permette di abbracciare una realtà più ampia.
Ora, questo popolo di Dio è per l’appunto molto diversificato: diverso non solo per cultura e lingua, ma per il suo posizionamento nella fede. Ciascuno, di conseguenza, deve poter trovare il proprio posto nell’edificio-chiesa, sentirsi accolto e anche, in certo modo, avere la sensazione di essere atteso per il semplice fatto che il Dio del vangelo attende e accoglie ciascuno così com’è, quale che sia il punto in cui si trova, come ama sottolineare così frequentemente Papa Francesco. Nel “corpo di umanità” di Cristo, che sia attuale (i cristiani) o semplicemente virtuale (l’insieme dell’umanità), ciascuno deve poter trovare il suo posto. Questo deve evidentemente ripercuotersi sulla qualità della celebrazione dei funerali. Ora, questa qualità dipende innanzitutto dalla qualità dell’accoglienza e dell’accompagnamento delle persone che richiedono tale cerimonia.
Vorrei parlarvi a partire dalla mia pratica pastorale in una parrocchia di ventiduemila abitanti nella periferia parigina in cui si celebrano circa settantacinque funerali l’anno. Nella nostra équipe di accompagnamento delle famiglie in lutto siamo quattro, tre laici e io, che sono presbitero. Poiché la messa propriamente detta è celebrata raramente in questa occasione per il fatto che la stragrande maggioranza dei defunti non erano o non erano più praticanti, e spesso da molto tempo, e che il rapporto della loro famiglia con la fede cristiana è diventato spesso molto debole, il più delle volte potrei anche non mettermi in gioco in quanto prete, e questo tanto più per il fatto che le tre persone che assicurano questo compito lo fanno con tutta la cura che ci si potrebbe augurare da un punto di vista pastorale e spirituale.
Eppure, almeno tre volte su quattro sono presente accanto a una di loro. C’è un motivo pastorale: fa parte essenziale dello sforzo che abbiamo intrapreso da qualche anno per «andare nelle periferie», come domanda Papa Francesco. Le cosiddette periferie, in questo caso, non abbiamo bisogno di andarle a cercare, vengono da noi in quest’occasione e, oserei dire, vengono da molto lontano rispetto alla fede cristiana.
La maggioranza di queste persone non hanno altro elemento di identità cristiana che qualche vago ricordo del catechismo imparato durante l’infanzia; i loro figli, oggi adulti, molto spesso non sono battezzati o, comunque, non hanno ricevuto una catechesi. A mio avviso, sarebbe un peccato (come fa purtroppo la maggior parte dei preti oggi in Francia) non approfittare di questa opportunità col pretesto che, poiché dei laici possono svolgere questo incarico, i preti non devono più occuparsene. Personalmente, e questo costituisce, al di là della motivazione personale, la ragione propriamente teologica del mio atteggiamento, io rifiuto questo aspetto concorrenziale. È un pensiero tipicamente clericale, centrato sul potere: «Se lo possono fare loro, allora non c’è bisogno che entri in gioco anch’io».
Questo non corrisponde affatto a ciò che padre Yves Congar chiamava non molti anni orsono la «corresponsabilità differenziata» tra ministeri ordinati (preti e diaconi) e ministeri dei laici! Una corresponsabilità suppone che non si sostituisca un termine all’altro ma che, al contrario, si cooperi ciascuno in nome della sua missione (questo si chiama partenariato). Del resto, se si restringe il campo di esercizio del ministero presbiterale nell’ambito di ciò che è sacramento nel senso stretto del termine, non si finisce per sostenere una già inquietante “sovra-sacerdotalizzazione”? La “consolazione” (paráklisis, 2Corinzi 1, 4-5) non costituisce una delle dimensioni del ministero presbiterale?
Affinché la celebrazione nell’edificio-chiesa sia vissuta come evangelicamente buona da parte di partecipanti che, come ho già ricordato, si trovano alla periferia in rapporto alla Chiesa, occorre innanzitutto offrire loro una buona accoglienza. E offrire loro una buona accoglienza non significa soltanto accettarli umanamente così come sono, ma posare su di loro un riflesso dello sguardo di Cristo, e dunque accogliere la particella di Regno che può giungerci attraverso di loro, perché anch’essi sono amati da Dio, anche per loro Cristo ha dato la sua vita, anche in loro opera lo Spirito. Ricordiamo su questo tema le stupende affermazioni del Vaticano II: il mistero pasquale «vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).
Evidentemente questo richiede una conversione dello sguardo sulle persone. Ma tale conversione permette aperture sperimentate centinaia di volte. La postura di chi è accolto si lascia chiaramente modellare in qualche modo da quella di chi accoglie. L’apertura risponde all’apertura. A una “contrazione” di chi accoglie corrisponde una “contrazione” di chi è accolto. E quando si adotta una postura che, pur rimanendo gentile, è fondamentalmente contratta, quando dunque questo genere di incontri risultano poco felici, non si può fare un buon lavoro pastorale. Come potrebbero le persone accogliere qualcosa della buona novella quando la relazione è così tesa? Del resto, dov’è la qualità evangelica di questo comportamento? Non riflette piuttosto il desiderio di potere di chi accoglie invece del riflesso dello sguardo benevolo del Dio del vangelo: il padre del figlio prodigo, il pastore alla ricerca della pecora perduta, il padrone che ricompensa gli ultimi arrivati tanto quanto gli operai della prima ora?
Beninteso, se anzitutto occorre saper accogliere, bisogna anche offrire la possibilità di progredire. La benevolenza umana e cristiana dell’accoglienza non significa che ci si dovrebbe sottomettere al desiderio delle persone accolte, le quali, animate da rappresentazioni di Dio spesso poco cristiane, e incapaci o diventati incapaci di padroneggiare la grammatica elementare dei riti liturgici, hanno bisogno di essere guidate. Tutto sta nel guidarle in maniera evangelica. Così come c’è un’arte di celebrare, c’è un’arte di accompagnare, che è altrettanto complessa, se non ancora di più, rispetto alla prima.
La cosa più importante in tale questione sta nella qualità della relazione: il contenuto teologico di quello che sono indotto a dire nel corso della relazione in quanto prete è meno importante del modo in cui lo dico. Il teologo che io sono, tuttavia, non è affatto indotto a minimizzare la qualità di questo contenuto ma lo subordina alla qualità dell’incontro. In altre parole, è la teologia della sua pastorale che è qui in gioco.
In genere passo la prima ora dell’incontro insieme con un laico dell’équipe ad ascoltare, innanzitutto, il racconto della vita del defunto fatto dai suoi parenti. Inutile dire che questo momento è importantissimo perché è in questo ascolto che si costruisce la relazione che permetterà di dire qualche cosa della Buona Notizia. Sia ben chiaro, sto parlando della buona notizia del vangelo e non di idee teologiche o regole morali. La mia missione, in questa circostanza, non è quella di correggere storture teologiche o di impartire lezioni di morale, ma è quella di essere un testimone che permette alle persone di attingere alla fonte dell’«acqua viva». O, per utilizzare un’altra immagine giovannea, la mia missione è quella di permettere alle persone di gustare qualche cosa del vino nuovo e inebriante di Cana, non un vino che, con il pretesto di adattarsi alle persone, è tagliato con acqua a tal punto da diventare una bevanda insapore; come potrebbe una bevanda simile generare in quelle persone il desiderio del vangelo?
Certamente l’adattamento alle persone accolte è una necessità pastorale e occorre che questo adattamento sia fatto con intelligenza. Non si tratta assolutamente di neutralizzare in un modo o nell’altro la straordinaria novità del Dio del vangelo, cioè un Dio che ha perduto la sua “autoritaria” superbia perché è Amore (cfr. 1 Giovanni 4), amore per ciascuno fino a perdere la vita (croce); amore per ciascuno perché è in se stesso amore (relazioni trinitarie). In compenso, occorre vigilare sulla quantità di questa novità inaudita che le persone possono assorbire; una quantità eccessiva farebbe girar loro la testa o li farebbe ammalare! Sono personalmente convinto della pertinenza delle parole di Papa Francesco a questo proposito: «Quando si va all’essenziale, tutto si semplifica». E a questo essenziale è piuttosto facile andare quando ci si fonda semplicemente su alcuni riti fondamentali dei funerali: il canto d’addio, i riti così semplici e belli della luce, l’incenso, l’acqua battesimale… Insomma, io faccio una breve “mistagogia” prima della celebrazione.
In seguito lascio la famiglia con un membro dell’équipe per una seconda ora, e a volte di più, per preparare nel dettaglio la celebrazione: scelta delle letture, intenzioni della preghiera universale e così via. È l’occasione per ulteriori confidenze. Molti testimoniano che il fatto di non trovarsi più con un prete, in quanto rappresentante ufficiale della Chiesa e anche, certamente, di trovarsi con un laico, soprattutto forse quando si tratta di una donna, costituisce un plusvalore nella relazione e questo favorisce grandemente il clima della celebrazione liturgica qualche giorno più tardi.
La pastorale è innanzitutto una questione di relazioni. Riprendendo le ben note categorie di John Langshaw Austin sull’atto del parlare si può dire che essa non è tanto d’ordine “locutorio” (il contenuto di ciò che viene detto) ma piuttosto d’ordine “perlocutorio” (l’effetto morale o spirituale che produce sulle persone) e soprattutto d’ordine “illocutorio”: «Chi sono io per voi, signora, signore» e «chi siete voi per me». Ciò che è più determinante è questo rapporto tra le posizioni di chi accoglie e di chi è accolto; un rapporto di stima e di rispetto per le persone che si manifesta nella qualità dell’ascolto, un ascolto cordiale del racconto della vita che vi viene raccontata, spesso a frammenti. Storia spesso complessa; non siamo tutti «invischiati in storie», come dice il bellissimo titolo dell’opera di Wilhem Schapp? Quando, grazie a questo tipo di relazioni, le persone si sentono veramente accolte, possono accogliere a loro volta qualche cosa del vangelo come Parola di un amore che salva. Si potrebbero rileggere ovviamente alcuni famosi incontri di Gesù come quello della samaritana (cfr. Giovanni 4); è la qualità di questo incontro che nella donna trasforma un “bisogno” di qualcosa in “domanda” di qualcuno: il bisogno immediato di acqua (la donna «lasciò la sua anfora») trasformato in domanda dell’“acqua viva” che è Gesù stesso in quanto “Salvatore”. E alla fine è dentro di lei che zampilla la fonte di quest’acqua viva. L’accoglienza pastorale delle persone che chiedono un rito di passaggio come i funerali deve poter permettere, anche se il tempo è poco, di far loro gustare qualcosa di questa trasformazione che fa vivere!
Ho parlato dei funerali in chiesa. Avrei potuto evocare altri riti di passaggio, quali il battesimo dei bambini o il matrimonio. In ciascuna di tali circostanze è possibile, ne sono convinto tanto a motivo della frequente pratica pastorale quanto sulla base della teoria teologica, aprire una domanda di rito su un itinerario di senso: senso cristiano, certamente, e credo che la mia insistenza precedente su questo tema l’abbia dimostrato, ma anche senso umano. Non si può celebrare nella liturgia l’umanità del Dio divino rivelato in Gesù senza crescere noi stessi in umanità. Vi è motivo di pensare, guardando all’uscita dalla chiesa i volti delle persone che vi hanno celebrato un rito di passaggio o ascoltando le poche parole che accompagnano il loro sorriso, che esse escano da questo luogo più umane di come sono entrate, e anche più cristiane! Non per questo ricominceranno a partecipare all’eucaristia domenicale o alla vita della comunità parrocchiale, ma anche se il pastore se lo augura, non è questo che ha di mira.
Il pastore punta su quel passo verso il Dio del vangelo che l’evento religioso ha permesso loro di fare. Per il resto, si ricorda di non essere altro che un servo che non ha fatto se non quello che doveva fare (cfr. Luca 17, 10), atteggiamento evangelico di spossesso di sé che lo libera e gli permette di vivere nel rendimento di grazie.
L’Osservatore Romano, 31 maggio – 1° giugno 2017