Senza muri né paura. La sfida buona del Papa in 10 parole

Sono parole emozionanti quelle pronunciate ieri dal Papa nel videomessaggio inteso a fondare un nuovo patto educativo, non solo in quanto annunciano lo specifico evento previsto a Roma il 14 maggio 2020, in Vaticano nell’aula Paolo VI, a conclusione di una lunga serie di iniziative che coinvolgeranno il maggior numero di persone, ma perché toccano alcuni punti decisivi rispetto ai quali nessuno di noi dovrebbe sentirsi estraneo. Osservando papa Francesco, reduce dal faticoso viaggio in Mozambico, Madagascar e Mauritius, ho provato a sintetizzarne dieci cercando, nel mio piccolo, di riflettere su ciascuno di essi.

Numero uno. Cosa significa questo patto se non l’impegno a costruire una vita consapevole? Non casuale, bensì mirata al raggiungimento di uno scopo. Come sapeva Pascal, le domande sono più importanti delle risposte.

Numero due. Dobbiamo superare la frammentazione: culturale, ideologica, istintiva, etica, personale, mettendoci in testa che siamo tutti connessi, in forma ben superiore alla mera dimensione informatica. Per riuscire a vivere tale asserto teorico, è fondamentale che si componga un mosaico tenuto insieme da un disegno complessivo basato su valori condivisi: pare essere questo il compito più difficile da svolgere, ma ineludibile.

Numero tre. Il concetto di casa comune è la matrice di ogni discorso ambientale: i ghiacci che si staccano dai poli e gli incendi che divampano nelle foreste stanno alterando la temperatura del nostro pianeta. Ma in fondo si tratta di una condizione umana. Come sosteneva Thomas Merton: nessun uomo è un’isola.

Numero quattro. L’educazione è sempre un cammino, a volte esaltante, a volte travagliato; chi pensa alle stazioni finali non coglie la natura complessa dell’insegnamento, la cui essenza si percepisce non tanto dalla misurazione del risultato, quanto dalla scintilla che accende la passione conoscitiva degli alunni.

Numero cinque. Bisogna puntare tutto sulla qualità dell’incontro umano. Ciò comporta un rischio che, lo dissero don Lorenzo Milani e don Luigi Giussani, da posizioni apparentemente contrapposte, dobbiamo accettare di correre.

Numero sei. Essere protagonisti della trasformazione di un bambino in un adolescente vuol dire saper scegliere e quindi portare con letizia francescana il peso della rinuncia, evitando di tenere aperte tutte le strade. A un certo punto per diventare adulti è necessario dire a sé stessi: io sono questo e non quest’altro.

Numero sette. I figli non dovrebbero essere soltanto dei genitori: fosse così, ognuno si sentirebbe coinvolto nei processi pedagogici. Il villaggio intero, per riprendere il proverbio africano citato da papa Bergoglio, parteciperebbe alla formazione dei più piccoli.

Numero otto. Nel discorso di Abu Dhabi, esplicitamente richiamato ieri, papa Francesco, rivolto al grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, coniò un’espressione molto bella augurandosi che le religioni, dopo aver superato le lacerazioni del passato, potessero essere «sentinelle di fraternità». Così diventerebbero luminose avanguardie dei codici.

Numero nove. Strettamente collegato al punto precedente è il concetto di giustizia: da intendere, prima ancora che nella sua dimensione giuridica, in chiave di fratellanza. Questo per un cristiano è il gheriglio dentro la noce: il cuore stesso della vita. Ma è stato Dietrich Bonhoeffer a farci intuire, se non comprendere, la risonanza antropologica universale di tale auspicio evangelico.

Numero dieci. Dovremmo concepire la scuola, non quale spazio separato, distante e specialistico, bensì come luogo della vita intensa. Il giorno prima del Papa, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso per i 150 anni dell’Associazione Italiana degli Editori, aveva espresso un proposito simile, sostenendo che non ci può essere futuro in mancanza d’istruzione. La vera libertà si raggiunge con il dialogo. Senza muri, né paura. Da una parte all’altra del Tevere la convinzione, anche se espressa su piani diversi, è sembrata la stessa.

Avvenire