Noi crediamo ciò che celebriamo – L’assemblea dei fedeli Muti ed estranei spettatori?

Proprio per evitare l’atteggiamento individuale e interioristico durante le celebrazioni, la riforma liturgica e il Concilio raccomandano la “partecipazione attiva”. Capito il modello di riferimento, sono da evitare alcuni pregiudizi e da favorire una nuova pedagogia.

Il testo della costituzione Sacrosanctum Concilium ha introdotto una nuova definizione di “partecipazione”, attraverso la quale è profondamente mutato il modo di concepire e di vivere l’azione rituale. Negando che i fedeli possano essere «muti ed estranei spettatori» (SC 48), il testo conciliare non invita al protagonismo, né abilita forme antiche di “attivismo”. Proviamo a riscoprire il carattere innovativo di questa comprensione, in vista di una sua rilettura pastorale.

La Chiesa cattolica ha riscoperto la "partecipazione attiva" come criterio fondamentale della propria esperienza liturgica. Una festa come quella delle Palme lo dimostra praticamente.

La Chiesa cattolica ha riscoperto la “partecipazione attiva” come criterio fondamentale della propria esperienza liturgica. Una festa come quella delle Palme lo dimostra praticamente.

Pregiudizi da superare

Bisogna confermare un primo dato: la partecipazione attiva non è affatto un semplice strumento pedagogico per rendere più “vivace” la celebrazione e tanto meno una forma di attivismo a oltranza. È invece il modo privilegiato attraverso il quale il popolo di Dio entra nel mistero di Dio e viene reso partecipe della sua missione sacerdotale, profetica e regale. È immagine della struttura e dell’agire della Chiesa che si fa simbolo per fare un’esperienza più profonda di sé. Proviamo a soffermarci su ognuno dei pregiudizi da rimuovere.

1 Non è semplicemente uno “strumento pedagogico” per vivacizzare la celebrazione. Perché mai si è sviluppata questa idea? Forse perché l’esperienza liturgica è rimasta catturata da una rigida divisione tra “interno” ed “esterno”. Il discorso sulla partecipazione attiva si è ridotto a una serie di “accorgimenti esterni” che diano espressione al contenuto spirituale e dogmatico della liturgia. Questa via, cionondimeno, non permette di capire che cosa ci sia di veramente importante in tutto questo, confermando un primato dell’interiore sull’esteriore che non permette alcuna valorizzazione reale dell’azione rituale del culto.

2 Non è neppure una forma di “attivismo a oltranza”. In questo caso il modello distorto precedente viene confermato, anche se viene capovolto. Ossia conta solo un’esteriorità bene organizzata, nella quale ciascuno ha qualcosa da fare. Diventare attivi esteriormente diventa così l’unica garanzia per una “vera liturgia”. Ma in questo caso, come è evidente, ci si disperde nella cura cerimoniale di un’esteriorità che diventa autonoma e pericolosamente autoreferenziale.

Le due deviazioni nell’interpretazione della partecipazione derivano dall’inerzia con cui il “modello classico” del partecipare ha interferito sulla nuova comprensione. Quel modello era rigorosamente interiore e prevedeva che ognuno, singolarmente, facesse durante la cerimonia sacra un’esperienza di devozione profonda. I “muti spettatori” erano, contemporaneamente, oranti e adoranti. Nel contesto pubblico della cerimonia esercitavano l’azione privata della preghiera. Tutto era risucchiato da questa comprensione, rigorosamente individuale e interiore. Persino la comunione era, normalmente, un atto di devozione privata in occasione (quasi sempre alla fine) di una cerimonia di celebrazione del sacrificio eucaristico. Non stupisce, quindi, che questo modello, che per secoli ha profondamente influito sulla spiritualità cattolica, abbia fatto sentire il suo influsso anche in questi ultimi 50 anni, ostacolando un’adeguata comprensione dello “stile” della actuosa participatio, e così determinando la duplice riduzione della partecipazione attiva al cerimonialismo e all’attivismo.

La riscoperta del corpo

È evidente, allora, che per venire a capo della questione dobbiamo tornare all’intenzione originaria che ha determinato la Chiesa cattolica a riscoprire la “partecipazione attiva” come criterio fondamentale della propria esperienza liturgica. Va detto, infatti, che tutto il cammino, prima del movimento liturgico e poi della riforma liturgica (fin da Pio XII), è cominciato proprio in vista di questa fondamentale riscoperta. Riscoperta della natura “popolare” della liturgia, ossia del fatto che ogni celebrazione liturgica è anzitutto un atto “di Cristo e della Chiesa”, nella loro inseparabile distinzione. Ciò che il concilio Vaticano II ha riscoperto è precisamente questa natura cristologica, pneumatologica ed ecclesiologica dell’azione simbolicorituale. Per questo essa viene riconosciuta come un’azione che viene compiuta, nello stesso tempo, da Dio e dal suo popolo, da Cristo e dalla sua Chiesa. Se l’azione è comune a tutti, che la celebrano ognuno a titolo diverso, ma nella comune celebrazione, allora il fatto di “non poter essere passivi e muti spettatori” non riguarda una preoccupazione pedagogica o attivistica, ma concerne la natura stessa dell’atto in questione. Quando si celebra l’eucaristia, i riti e le preghiere sono il linguaggio comune a tutta l’assemblea. Questo è il fondamento – l’unico vero fondamento – della riforma liturgica. La quale prende il suo significato dal riconoscersi come lo strumento che può rendere possibile e promuovere questo diverso modo di concepire e di vivere la liturgia della Chiesa. I riti e le preghiere (il famoso per ritus et preces di SC 48) diventano la scuola – per tutti – alla quale la Chiesa intera attinge per scoprire sempre meglio la propria vocazione e missione.

Una nuova “pedagogia spirituale”

È chiaro come questo modo di comprendere la “partecipazione” introduca nell’esperienza ecclesiale una serie di novità che riguardano certamente l’esperienza liturgica, ma che toccano anche profondamente il profilo ecclesiale, pastorale e spirituale della fede cristiana.

1 La liturgia non è anzitutto l’atto del ministro ordinato, ma è l’atto che, presieduto dal ministro ordinato, viene compiuto da Cristo e dalla Chiesa, che sono riconosciuti come i “veri soggetti” della celebrazione. Tutti gli altri, rispetto a questi due soggetti “invisibili”, sono le forme di visibilizzazione ministeriali. Un solo presidente, i lettori, gli accoliti, coloro che presentano i doni, che servono intorno all’altare, che guidano il canto, che rispondono dal banco, tutti sono ministri dell’azione liturgica, in forza del loro battesimo e della loro esperienza dello Spirito del Cristo. L’assemblea celebrante si riscopre ora come parte del mistero celebrato.

2 L’organizzazione della liturgia esprime e dà profondità di esperienza all’organizzazione pastorale. Dalla celebrazione scaturisce il modo di lasciarsi abitare dal mistero, il modo di porgere ascolto alla parola, il modo di professare la fede, il modo di pregare con Cristo, il modo di diventare quel che si riceve, il modo di lasciarsi riconciliare dalla grazia di Dio, il modo di tornare all’esistenza secolare. E, viceversa, l’esercizio quotidiano di queste modalità di rapporto con Dio e con il prossimo, trova nella liturgia la sua forma di espressione più alta e più intensa. Questo è il senso della scoperta della liturgia come fons e come culmen, come sorgente e come vetta della azione ecclesiale. 3 Partecipare attivamente significa, infine, scoprire una spiritualità elementare, custodita da delicate modalità con cui il corpo predispone l’anima e con cui l’anima richiede un corpo duttile ed elastico. Nell’azione rituale la comunità scopre la sua spiritualità primaria, senza bisogno d’introdurre opposizioni tra interno/ esterno, tra privato/pubblico, tra soggettivo/oggettivo.

La liturgia conduce a un’esperienza di fede che si colloca “al di qua” di quelle distinzioni. Per questo il suo linguaggio primario è quello simbolico, nel quale si realizza la simbiosi profonda tra espressione e contenuto, la quale rappresenta non semplicemente uno strumento di comunicazione, ma il contenuto più prezioso da comunicare: l’unione tra Dio e l’uomo, l’ammirevole rapporto, che richiede non anzitutto un pensiero vero e coerente, ma una forma di vita efficace e potente. Questa “pedagogia spirituale” è rientrata nella Chiesa mediante il concetto sorprendente di actuosa participatio: tutti partecipano a una stessa azione e, in tal modo, fanno esperienza di una comunione mediata non da un concetto, ma da un’azione che ha come soggetti, allo stesso tempo, Dio e l’uomo, Cristo e la Chiesa, l’eterno e il tempo.

Andrea Grillo

vita pastorale Marzo 2013