Nessuno possiede i colori degli altri. Dialoghi schietti e lunghi silenzi nel film «Al Dio ignoto» di Rodolfo Bisatti

Sul set del film

La morte senza effetti speciali: così potremmo definire l’intento del regista Rodolfo Bisatti di portare in scena una storia sul fine vita. La protagonista del film, distribuito dalla piattaforma Chili, è Lucia (Laura Pellicciari) un’infermiera che lavora presso una clinica per malati terminali di tumore. La donna li assiste nei loro ultimi giorni somministrando cure palliative. Questo servizio si scontra però con le sofferenze dovute alla perdita prematura della figlia Anna, sempre per via di un tumore. L’avvio del film riassume simbolicamente l’accaduto.

Lucia, dopo aver acceso le candeline di una torta posata sul prato di casa, misteriosamente la seppellisce in una piccola buca ricavata nel terreno. È la mesta celebrazione del compleanno della figlia che non c’è più. La morte di Anna ha lasciato vuoti differenti nella famiglia. Se Lucia è rimasta “emozionalmente” bloccata al giorno della scomparsa, il marito non è riuscito a reggere le nuove difficoltà ed è scappato lasciando soli la moglie e il figlio maggiore Gabriel (Francesco Cerutti).

A casa Lucia non riesce a comprendere i disagi del figlio, nonostante la sua grande empatia professionale con i pazienti. Ripreso aspramente per i suoi comportamenti poco responsabili, Gabriel si chiude in una ribellione interiore e si dedica al ciclismo estremo. Questo sport, che a suo dire gli permetterebbe di «elaborare il lutto», agli occhi dello spettatore si svela come una droga che lo stordisce soffocandolo di emozioni. Lucia non riesce a superare il ruolo di madre apprensiva e quando il figlio torna a casa con ferite e dolori dovuti alle cadute dalla bici, per lui non ci sono segni di affetto o vicinanza. L’unica emozione che Lucia riesce a sfogare sono le lacrime sulla tomba della giovane figlia.

La difficoltà di dialogo tra adulti e nuove generazioni continua anche all’ora di religione. La scena è classica: Gabriel e i suoi compagni si distraggono con telefonini e cuffiette, mentre il professore cerca di imbastire un discorso serio che alla fine fa breccia nei cuori dei suoi giovani ascoltatori.

Gabriel, toccato nel profondo, si espone dichiarando che amore e sofferenza non possono essere collegati, e che all’uomo non resta che pensare a se stesso. La pacata risposta dell’insegnante prova invece a convincere sull’esistenza di un «amore massimo» citando il versetto di Apocalisse «faccio nuove tutte le cose», messo in bocca a Gesù che portando la Croce cerca di consolare la Madre in pianto (il riferimento sembra alla famosa scena di The Passion).

La riflessione tra vita e morte continua pure tra gli ospiti della clinica. Tra essi spicca Giulio (Paolo Bonacelli) professore di morale, ma ancor più saggio e poeta che con le sue citazioni esorcizza e (contemporaneamente accetta) l’ultimo nemico. La profezia fatta a Pietro in Giovanni 21, sul cingersi le vesti, viene applicata a se stesso quando Lucia lo aiuta a mettersi la vestaglia come «atto d’ingresso» nell’hospice. È consapevole che con quell’atto inizia il suo martirio, e che sarà condotto dove lui non vuole. E ancora nel mezzo d’una breve partita a scacchi con il «camerata» Mario indeciso sul pezzo da muovere, esclama «l’alternativa alla morte non è la vita, ma la verità».

Per tutto il film si respira lo stile del maestro Olmi. I dialoghi schietti e diretti sono intervallati da lunghi silenzi. Questi accompagnano i primi piani di visi toccati dal dolore o rischiarati da piccole gioie. Parlano anche le contemplazioni della natura, sia del verde assolato, sia dei puntini luminosi notturni, sia dell’abbondanza dell’acqua che viene visto come un elemento purificatore.

Il riferimento al regista bergamasco è presente anche nei dettagli (a prima vista insignificanti) delle storie narrate dai pazienti. L’attenzione alle radici culturali e l’uso dei diversi dialetti, secondo le reciproche provenienze, manifesta l’intento di non censurare nulla di “regionale”.

Per questo l’insicuro Mario non si vergogna di confessarsi davanti al dotto professore Giulio. Lo shock che da piccolo gli tolse «la favella» gli causa ancora difficoltà a esprimersi. Dal canto suo Giulio non disdegna d’ascoltare il suo compagno e di interpretare la sua non meglio tematizzata «voglia di vivere» con forbiti discorsi resi però con semplici parole.

Per Bisatti ognuno è una ricchezza propria che evidenzia colori e riflessi differenti del comune dono del vivere. Nessuno possiede i colori degli altri, eppure tutti traggono vantaggio dalla policromia dell’incontro. È questo il gioco, né cercato né voluto, delle sofferenze condivise (e alleggerite) tra coloro che si ritrovano nell’hospice.

Si rievocano così le originalissime compagnie olmiane, come ne Il villaggio di cartone tra l’anziano prete destituito del suo compito sacrale e i clandestini africani privati dell’accoglienza in terra straniera. Insieme nella sofferenza, vittime d’una società tecnicizzata e disumanizzante, ritrovano pace e speranza in un luogo provvidenziale. Non è dunque difficile accostare la clinica di Bisatti alla chiesa olmiana disadorna delle suppellettili sacre, la cui la fragilità reinterpretava nell’oggi la mangiatoia del Cristo e l’epifania ai Magi venuti dall’Oriente.

Bisatti sottolinea anche l’umanità che si instaura tra i collaboratori della clinica. Questi sono uomini e donne capaci di empatia prima che semplici professionisti. Così nel briefing mattutino oltre a descrivere il decorso clinico di ciascun paziente, ogni operatore racconta lo stato d’animo del suo assistito preferito che smette d’essere un numero perché chiamato per nome.

Bisatti persegue la via che conduce al Dio ignoto, un Dio che si conosce attraverso il Suo nascondersi. Il tentativo, ben riuscito, è quello di chiedersi dove Lui sia proprio nel momento più difficile. Un Dio che non sembra ignaro delle sofferenze dell’uomo, come ricorda il professore di religione che mette al centro dei suoi ragionamenti la passione di Gesù (piuttosto che la sua Risurrezione). Nonostante questo, il Dio cristiano non è una presenza evidente e rassicurante, che fughi ogni dubbio.

La morte rimane un dramma, un fardello personale sotto il quale si rischia d’essere feriti o schiacciati. Sia per chi raggiunge la fine della corsa troppo presto, sia per chi sopravvive alla morte precoce dei suoi cari. I primi devono prepararsi a un «riposo» non desiderato. I secondi ad andare avanti nonostante ogni legittima tristezza.

Una piccola luce trapela dal finale del film: la presenza (e la consolazione) di Dio si attinge nelle relazioni umane, prima fra tutte l’amicizia che si instaura tra Lucia e Giulio. Dio si “rivela” nei nostri compagni di viaggio, viventi e morenti. A questi possiamo esprimere i nostri sentimenti, come loro a noi. Grazie ad essi possiamo accettare la fine come parte essenziale della vita. In definitiva, il problema sul «come varcare il confine tra visibile e invisibile» non si può risolvere che in compagnia.

di Marco Staffolani / Osservatore Romano