Donna appesa a testa in giù e presa a bastonate: le cronache dell’orrore dal lager di Bani Walid, in Libia. Sei morti in due mesi. Spuntano i nomi degli schiavisti: «Ci stuprano e ci uccidono»
Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata
ripetutamente nella “black room”, la sala delle torture presente in
molti centri libici per migranti. Il video choc – di cui riportiamo solo
alcuni fermo immagine – è stato spedito via smartphone ai familiari
della sventurata che devono trovare i soldi per riscattarla e salvarle
la vita.
È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione
informale, in mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali
di detenzione, dove i detenuti sono sotto la “protezione” delle autorità
di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando
con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia
l’Unhcr ha registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei
quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione
ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto,
stima il “Global detention project”, vi sarebbero 33 galere. Vi sono
anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è
impossibile.
La vita della ragazza del Corno d’Africa appesa, lo abbiamo scritto sette giorni fa,
vale 12.500 dollari. Ma nessuno interviene e continuano le cronache
dell’orrore da Bani Walid, unanimente considerato il più crudele luogo
di tortura della Libia. Un altro detenuto eritreo è morto qui negli
ultimi giorni per le torture inferte con bastone, coltello e scariche
elettriche perché non poteva pagare. In tutto fanno sei morti in due
mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le sue generalità e a
dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la connessione con
l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un
messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di
angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la
testa o incolpando addirittura le vittime.
«Mangiamo un pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere d’acqua sporca a testa. Non ci sono bagni», scrive uno di loro in un inglese stentato. «Fate in fretta, aiutateci, siamo allo stremo», prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei che da oltre due mesi è nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60 persone stipate nel gruppo di capannoni che formano il mega centro di detenzione in campagna nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della città della tribù dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti, inaccessibile all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed est (Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia si sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. Lo conferma lo studio sulla politica economica dei centri di detenzione in Libia commissionato dall’Ue e condotto da “Global Initiative against transnational organized crime” con l’unico mezzo per ora disponibile, le testimonianze dei migranti arrivati in Europa.
I sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea democratica contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno comperati dal trafficante eritreo Abuselam “Ferensawi”, il francese, uno dei maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito probabilmente in Qatar per godersi i proventi dei suoi crimini. Bani Walid, in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono separati per nazionalità. Il prezzo del riscatto varia per provenienza e sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno valgono di più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perché alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale. Il pagamento va effettuato via money transfer in Sudan o in Egitto.
Dunque quello che accade in questo bazar di
esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e
all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. Secondo le testimonianze
di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa entrano
in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare
nei campi o nei cantieri come schiavi.
«Le otto ragazze che sono con
noi – prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60
prigionieri eritrei – vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo
per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama
Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il
soprannome: Satana». Da altre testimonianze risulta che il boia sia in
realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe
assassinato molti detenuti.
Ma anche nei centri di detenzione pubblici in Libia, la situazione resta perlomeno difficile. Persino nel centro Gdf di Tripoli dell’Acnur per i migranti in fase di ricollocamento gestito dal Ministero dell’Interno libico e dal partner LibAid dove i migranti lasciati liberi da altri centri per le strade della capitale libica a dicembre hanno provato invano a chiedere cibo e rifugio. Il 31 dicembre l’Associated Press ha denunciato con un’inchiesta che almeno sette milioni di euro stanziati dall’Ue per la sicurezza, sono stati intascati dal capo di una milizia e vice direttore del dipartimento libico per il contrasto all’immigrazione. Si tratta di Mohammed Kachlaf, boss del famigerato Abd Al-Rahman Al-Milad detto Bija, che avrebbe accompagnato in Italia nel viaggio documentato da Nello Scavo su Avvenire. È finito sulla lista nera dei trafficanti del consiglio di sicurezza Onu che in effetti gli ha congelato i conti.
Ma non è servito a nulla. L’agenzia ha scoperto che metà dei dipendenti di LibAid sono prestanome a libro paga delle milizie e dei 50 dinari (35 dollari) al giorno stanziati dall’Unhcr per forniture di cibo a ciascun migrante, ne venivano spesi solamente 2 dinari mentre i pasti cucinati venìvano redistribuiti tra le guardie o immessi nel mercato nero. Secondo l’inchiesta i danari inoltre venivano erogati a società di subappalto libiche gestite dai miliziani con conti correnti in Tunisia, dove venivano cambiati in valuta locale e riciclati. Una email interna dell’agenzia delle Nazioni Unite rivela come tutti ne fossero al corrente, ma non potessero intervenire. L’Acnur ha detto di aver eliminato dal primo gennaio il sistema dei subappalti.
Avvenire