Le profetiche, amare lettere di Guardini

Italia

Avvenire

(Raffaele Vacca) Novant’ anni fa, nel 1927, fu pubblicato in Germania il volumetto intitolato Lettere dal lago di Como, che raccoglieva le otto Lettere dall’ Italia che Romano Guardini aveva pubblicato nella rivista Die Schildgenossen nel 1923 e la nona che aveva pubblicato nella stessa rivista nel 1925. Iniziava con una “Avvertenza” dell’ autore, scritta a Varenna sul lago di Como nel settembre del 1926. Romano Guardini era diventato noto nel 1918 con la pubblicazione de Lo spirito della Liturgia. Aveva rivolto poi la sua attenzione alla Chiesa, pubblicando nel 1921 Il senso della Chiesa.
Mentre era intento a riflettere sulla formazione liturgica ed a determinare una visione cattolica del mondo, dopo che gli era stata affidata presso l’ Università di Berlino la cattedra di “Katholische Weltanshauung”, un duplice ritorno in Italia gli procurò quello che, nel 1985, l’ allora cardinale Joseph Ratzinger definì lo «choc di fronte all’ invasione della civilizzazione tecnica nel paesaggio del Sud e della sua grande cultura urbana».
Con tristezza comprese che nel Nord Europa il mondo naturale che circondava l’ uomo era stato devastato, e con angoscia si avvide che la devastazione stava penetrando anche nella sua natìa Italia. Per millenni l’ uomo aveva vissuto in armonia con la natura. Ma ora questo mondo era al tramonto. Un mondo artificiale, opera dell’ uomo, che si avvaleva della tecnica, si sostituiva sempre più a quello naturale. Con il Diario e Appunti per un’ autobiografia, pubblicati però postumi, Lettere dal lago di Como è l’ unica opera in cui Romano Guardini parla in prima persona. Si potrebbe dire che, oltre che di pensiero (che nell'”Avvertenza” limita in parte lo stesso autore) sia anche opera di narrativa.
Esprime quello che tanti uomini hanno sentito prima e dopo di lui, nell’ avvedersi come stesse scomparendo un mondo al quale sentivano di appartenere. È anche opera che contiene indimenticabili descrizioni di paesaggi e di autentica poesia espressa in prosa. Inspiegabilmente è stata pubblicata in italiano solo nel 1958, quando si stava disintegrando sempre più il più bel territorio del mondo, tra gli allarmi di pochi, considerati lodatori di un tempo irrimediabilmente passato e nemici del progresso, e l’ indifferenza di moltissimi intellettuali. Solo tra il 1973 ed il 1975, in alcuni articoli poi raccolti inScritti corsari, Pier Paolo Pasolini ripropose il problema della scomparsa del mondo contadino «prenazionale e preindustriale», che considerò non «un cambiamento d’ epoca ma una tragedia».
Scrisse che essa sconvolgeva a tal punto da far venire «la tentazione di andarsene per sempre con i suoi ricordi», e che comunque provocava «un irrimediabile dolore». Anche Romano Guardini, nella prima lettera, aveva scritto che, vedendo scomparire la vita alla quale ci si sentiva di appartenere, restavano «annientate persino le possibilità di vivere». Ma poi si era sforzato di non restare nell’ immedicabile dolore. Nella nona lettera, scritta dopo che tre o quattro gli erano restate nella penna e due già scritte erano state messe da parte, sostenne che non bisognasse irrigidirsi contro il nuovo, «tentando di conservare un bel mondo destinato a sparire». Ma bisognasse aderire alla nuova situazione e creare un nuovo atteggiamento che si adattasse e fosse proporzionato al mondo della tecnica, e fosse capace di dominarne le forze. Ciò sempre ricordando che «il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire».