La riflessione. Io, prete, e i social: i miei post che seminano speranza

“Poni, Signore, una custodia alla mia bocca”, implora il salmista. “Serrami le labbra quando la parola offende, mi si paralizzi la lingua al palato” se dovesse procurare sofferenza ai miei fratelli. Perché parlo? Perché scrivo? Che cosa mi spinge a intervenire in un dibattito, perché ci tengo ad esprimere un pensiero? “Grida a squarciagola”, dice a sua volta il Profeta. “Ciò che avete ascoltato nel segreto proclamatelo dai tetti” è, invece, il monito di Gesù. Andate in tutto il mondo a dire, ridire, annunciare, cantare la notizia buona, la notizia bella, la notizia che salva.

Non sempre è facile stabilire quando è bene chiudere la bocca e quando invece occorre spalancarla. Non è facile ma è possibile. Un prete è un prete, sempre, anche quando usa i social. Se, durante le omelie, invita le persone a non perdere la speranza, lo farà anche sulla sua “parrocchia online”. Senza cedere alla tentazione di rispondere per le rime a chi magari insulta lui, la Chiesa, il Papa.

In questi ultimi anni ho imparato a scrivere piccole storielle per veicolare un messaggio per me importante. So bene, per esempio, quanta sofferenza c’è intorno alla storia di una mamma mancata. So bene che abortire non è una passeggiata per nessuno. So anche che dopo un intervento abortivo, quasi nessuno si farà carico di aiutare quella donna distrutta. In parrocchia ci siamo attrezzati per andare incontro a chi vive una gravidanza drammatica. I bambini nati grazie ai nostri meravigliosi volontari sono tanti. Tantissimi. Una mattina mi sono ritrovato a scrivere su Facebook: «Credimi, Antonella, non ho mai visto una donna che aveva deciso di abortire e non lo fece, pentirsi di aver messo al mondo quel figlio. Al contrario, ho incontrato tante mamme mancate che fin sul letto di morte hanno rimpianto quel figlio che non fecero nascere. A tutto c’è rimedio. Il Signore non ti abbandonerà. Abbi fiducia. Tutto si aggiusterà. Questo mondo è tanto grande per ospitare anche il tuo bambino. Pensaci bene perché indietro non si torna. Se siamo nati noi è giusto che anche lui venga accolto tra le tue braccia. Le braccia della sua mamma. Auguri, Antonella. Dio ti benedica».

Arrivano centinaia di condivisioni, decine di commenti. Qualcuno addiritura si dice disposta a offrire ad Antonella tutto ciò che le serve per l’arrivo del bambino. Antonella naturalmente non esiste, è un nome inventato che racchiude la storia di tante donne impaurite che vedono nell’aborto l unica soluzione per uscire da un problema. In privato una donna – la chiameremo Mena – chiede di incontrami. Viene da un’altra regione. Ci incontriamo in un convento qualche giorno dopo. Tra un fiume di lacrime mi racconta la sua storia. Lei, purtroppo, “quella cosa” l’ha fatta. Quel tormento l’ha vissuto. E da quel giorno non vive più. Sono passati tanti anni, ma è come se fosse ieri.

Mena non si è mai perdonata. Si sente come paralizzata. Le è passata la voglia di ridere, scherzare, lavorare. Tutto le appare senza senso. Una mattina si imbatte in quello scritto. Le sembra che quel prete che non conosce stia parlando a lei. Decide, scrive, viene. Si confessa. La confessione: sacramento stupendo di cui mai comprenderemo la portata. La Misericordia che abbraccia la miseria. Il cuore di Cristo che stringe l’uomo peccatore. Mena accoglie il perdono con umiltà. Risollevata, rigenerata, rinata, fa ritorno a casa, riprende a vivere. “Se ti ha perdonato Dio hai l’obbligo di perdonarti anche tu”, le ho detto sorridendo. Ci ha creduto. lo ha fatto.

Poche parole scritte una mattina su facebook hanno portato a un incontro vero, tra persone vere, per ridonare una speranza vera. Per celebrare una confessione vera, accogliere un perdono vero. Poni, Signore,una custodia alla mia bocca, quando è il momento di tacere. Ma donami il coraggio di gridare a squarciagola parole di speranza per rimettere in piedi le sorelle e i fratelli che sono inciampati nel cammino della vita.
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