La beatificazione di Richard Henkes celebrata nel duomo di Limburg nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Non può esistere amore senza sacrificio

Germania 

Sala stampa della Santa Sede 

Pubblichiamo una nostra traduzione dal tedesco dell’omelia pronunciata dal cardinale presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani in occasione della beatificazione — presieduta a Limburg in rappresentanza di Papa Francesco nel pomeriggio di domenica 15 settembre — del pallottino Richard Henkes, martire a Dachau.***
di KURT KOCH
I beati e i santi sono le risposte di Dio alle domande di noi uomini. E sono i migliori esegeti del Vangelo. Infatti, non si sono limitati a leggere e interpretare la Parola di Dio; l’hanno soprattutto testimoniata con la loro vita. Questo vale in modo particolare per il padre pallottino beato Richard Henkes, che durante l’epidemia di tifo, scoppiata nel campo di concentramento di Dachau a cavallo tra gli anni 1944 e 1945, si è fatto rinchiudere volontariamente nel blocco 17, destinato alla quarantena, per curare i detenuti colpiti da quella grave malattia, ha subito il contagio e vi è morto il 22 febbraio 1945. Il dono della vita fino a morire per gli altri di padre Henkes è stato riconosciuto da Papa Francesco come martirio; e il Santo Padre ha deciso che padre Henkes venga proclamato beato. Padre Henkes è dinanzi a noi come martire dell’amore del prossimo, che ha dato la vita in sacrificio per Cristo e in tal modo è diventato partecipe della croce di Gesù Cristo.
La croce di Gesù come testimonianza di amore di Dio
È dunque una coincidenza bella e anche significativa che la beatificazione di padre Henkes venga celebrata nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce, che nella diocesi di Limburg è osservata come festa diocesana particolare. Padre Henkes, di fatto, è un esegeta straordinariamente credibile dei testi che annunciano la festa odierna, la quale ci fa conoscere la croce di Cristo come segno particolare dell’amore di Dio verso noi uomini. L’evangelista Giovanni condensa il mistero della croce di Gesù Cristo nello straordinario verso: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Giovanni 3, 16). La croce è la manifestazione del massimo amore di Dio per noi uomini. Ed è il segno più importante del fatto che Gesù non si accontenta semplicemente di dichiarazioni d’amore verbali nei nostri confronti, ma ha pagato un prezzo molto alto per il suo amore, investendo sulla croce, nell’amore, il sangue del suo cuore per noi uomini, dandoci il dono più prezioso, la vita eterna.
La croce di Gesù non è affatto, come oggi pensano anche molti cristiani, una contraddizione rispetto all’amore di Dio e non è in contrasto con la dignità del Figlio di Dio, ma è la rappresentazione credibile del suo amore verso noi uomini e tutto il suo creato. L’evangelista Giovanni interpreta il racconto veterotestamentario del serpente di rame che Mosè ha innalzato su un’asta come immagine anticipatrice del fatto che anche l’umiliazione di Cristo nella sua passione e morte è di per sé esaltazione: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Giovanni 3, 14-15). La croce di Gesù ci dona uno straordinario messaggio: chi è amato da Gesù Cristo fino alla morte può sentirsi veramente amato e rallegrarsi di questo dono della redenzione. Infatti, nell’amore di Gesù sulla croce veniamo redenti dai nostri peccati: e il suo amore è il flusso di calore della redenzione, ovvero il dono della vita eterna.
La festa odierna dell’Esaltazione della Santa Croce ci invita a scavare ancora più in profondità nel mistero dell’amore sulla croce di Gesù. Tutti noi sappiamo per esperienza diretta che non può esistere amore senza sacrifici e senza sofferenza. Questo vale soprattutto alla luce della fede cristiana, dove il sacrificio, per sua natura intima, non è collegato con il male e il peccato, bensì con l’amore. Perché l’amore non esiste senza sacrificio; l’amore come dono della propria vita per gli altri è sacrificio. Questo sacrificio d’amore Gesù l’ha offerto sulla croce per noi uomini, trasformando la violenza che gli è stata fatta in amore per noi. La passione di Gesù è l’archetipo del martirio e al tempo stesso l’immagine originale del martirio di quanti lo hanno seguito, che hanno partecipato del mistero della croce di Gesù.
Il martirio come atto supremo dell’amore
Questo collegamento è emerso chiaramente nel martirio di padre Henkes. Come Gesù non ha cercato la sofferenza e la croce, ma si è orientato alla volontà di Dio per la vita degli uomini ed è stato ucciso per il suo amore verso di noi, così anche padre Henkes non ha in alcun modo cercato il martirio, ma lo ha preso su di sé liberamente e volontariamente come conseguenza della sua fedeltà alla fede cattolica. In questo consiste l’autenticità della sua testimonianza di fede. Infatti, la tradizione cristiana ha considerato l’anelito di un potenziale martire a essere ucciso addirittura come una messa in discussione del martirio. Il martirio cristiano non è assolutamente caratterizzato dal desiderio di morte e dal disprezzo della vita; piuttosto, il suo tratto decisivo è l’amore. Il martirio cristiano è autentico solo quando si compie come atto supremo dell’amore verso Dio e verso i fratelli e le sorelle, come ha sottolineato il concilio Vaticano II: «Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità» (Lumen gentium, n. 42).
Come Gesù, anche padre Henkes, nella sua fede, sapeva che non può esistere amore senza sacrificio. Tale convinzione ha forgiato la sua spiritualità di sacerdote. Già prima della sua ordinazione aveva scritto: «Voglio soprattutto diventare un sacerdote che fa sacrifici, che porta la croce per altri». Questa convinzione, espressa poco prima dell’ordinazione, nel campo di concentramento di Dachau è diventata dura realtà. Perché anche in quel luogo di disprezzo per l’uomo egli ha messo alla prova la sua convinzione di fede, svolgendo il suo servizio cristiano e sacerdotale presso le persone malate di tifo. La sua vita a Dachau, prima nella piantagione, poi nel servizio postale, quindi al comando disinfezione e infine nel servizio sanitario nel blocco 17, è una testimonianza credibile del dono della vita fino alla morte, dove ha offerto soprattutto un esempio di amore fino al dono totale di sé per i malati che non avevano speranza di sopravvivere.
Il martirio di padre Henkes non può però essere compreso senza il suo profondo radicamento nella fede cattolica. Nella difficile vita del campo di concentramento di Dachau si è lasciato sempre rafforzare nella preghiera personale e soprattutto nella regolare partecipazione alla santa messa. Nell’Eucaristia, dove celebriamo la presenza sacramentale del sacrificio d’amore di Gesù sulla croce e chiediamo a Dio di diventare anche noi “offerta viva in Cristo”, ha preso coscienza del dovere imposto dalla fede di diventare egli stesso sacrificio eucaristico per gli altri e di immolarsi come ostia vivente per gli uomini che hanno bisogno del suo amore.
Il martirio come conseguenza della fede vissuta
La sua testimonianza di fede e il dono della vita fino alla morte possono essere compresi appieno solo sullo sfondo di tutta la vita di padre Henkes. Egli ha compreso molto presto, con gli occhi della fede, che l’ideologia nazionalsocialista è semplicemente inconciliabile con l’immagine cristiana dell’uomo, poiché non sostiene valori umani e cristiani, bensì diffonde idee neopagane. Padre Henkes ha percepito sensibilmente ciò che il ministro della propaganda Goebbels ha impudentemente annotato nel suo diario: «Il Führer è profondamente religioso, anche se completamente anti-cristiano. Vede il cristianesimo come un sintomo di decadenza, un ramo della razza ebraica, un’assurdità alla quale pian piano toglierà il terreno sotto i piedi. Detesta il cristianesimo che ha trasformato l’antico tempio libero e luminoso in un duomo buio, con un Cristo crocifisso stravolto dal dolore». Dinanzi a questa ideologia neopagana padre Henkes ha intuito che ovunque Dio è svilito e cacciato dallo spazio pubblico è svilito anche l’uomo, come abbiamo visto fin troppo lo scorso secolo nelle dittature anticristiane del nazionalsocialismo e del comunismo sovietico. Nella sua fede cristiana, padre Henkes era convinto che solo lì dove Dio viene glorificato da noi uomini, secondo lo straordinario esempio del Magnificat di Maria, l’uomo non viene svilito, ma reso partecipe della grandezza dell’amore di Dio.
Nei suoi diversi impegni di maestro e curatore d’anime, accompagnatore degli esercizi e predicatore dei pellegrinaggi a Vallendar-Schönstatt e in Alta Slesia, padre Henkes è continuamente entrato in conflitto con i rappresentanti del regime nazista e per ben due volte è stato interrogato dalla Gestapo. Quando a Branitz, in una predica contro il programma eugenetico dei nazisti si è espresso concretamente contro la deportazione delle persone malate dagli istituti di cura del luogo, è stato arrestato dalla Gestapo, tenuto per sette settimane in isolamento a Ratibor e da lì condannato alla deportazione a Dachau. In quel campo di concentramento ha vissuto sulla propria pelle l’ideologia neopagana dei nazisti. Poiché il suo arresto e la deportazione al lager di Dachau sono stati motivati dalla sua testimonianza di fede e dal suo agire sacerdotale, sono evidenti le circostanze del suo martirio in odio alla fede (in odium fidei).
Beatificazione e adorazione di Cristo
La fama di martirio di padre Henkes è iniziata sin dalla sua morte. Alcuni confratelli sacerdoti, corrompendo il custode del crematorio, riuscirono a ottenere che il corpo di padre Henkes venisse bruciato a parte, e questo permise di recuperare le sue ceneri. In seguito furono portate a Limburg, dove sono custodite nel cimitero dei pallottini. Se le sue reliquie oggi sono state innalzate durante la messa, è per noi l’espressione della nostra fede che Dio, nella sua carità, è talmente fedele agli uomini, da professarsi in tutta la nostra umanità e quindi anche nella nostra corporeità. 
L’odierna beatificazione è senz’altro un giorno di gioia, anzitutto per la comunità dei pallottini e la diocesi di Limburg, in particolare per la sua parrocchia natale di Ruppach nel Westerwald, e anche per i cattolici nella Repubblica Ceca, dove padre Henkes ha prestato il suo servizio. È un giorno di gioia per tutta la Chiesa in Germania, poiché questa celebrazione vuole farci comprendere che i veri riformatori della Chiesa sono i beati e i santi. Di fatto, dal punto di vista strutturale possiamo fare solo le cose esterne, anche se siamo disposti a fare, nella fede, quelle più interiori, come ha ricordato Papa Francesco nella sua Lettera al popolo di Dio che è in cammino in Germania. Ed è un giorno di gioia per la Chiesa universale. Perché in padre Henkes abbiamo un testimone autentico della fede, che nella sua fiducia in Dio e la disponibilità al sacrificio ha difeso l’idea cristiana dell’uomo contro l’ideologia sprezzante dell’uomo dei nazisti e si è impegnato per la dignità dell’uomo con quel grande coraggio che gli è costato la vita. 
Padre Henkes è un martire dell’amore del prossimo, profondamente legato a Cristo. Potremo celebrare la festa odierna nel suo spirito solo se la celebreremo come adorazione di Gesù Cristo. Il martire cristiano, infatti, non muore semplicemente per un’idea, fosse anche l’idea più alta della dignità umana. Piuttosto, viene «crocifisso con Cristo» e muore «insieme a colui che è già morto prima per lui» (cfr. H.U. von Balthasar, “Martyrium und Mission”, in ibid. Neue Klarstellungen [Einsiedeln, 1979], 158-173, cit. 162). In questo collegamento tra la morte sulla croce di Gesù e la testimonianza di fede del martirio emerge con chiarezza il senso profondo del poter celebrare la beatificazione di padre Richard Henkes nella festa dell’Esaltazione della Croce, che inizia con l’antifona: «Di null’altro mai ci glorieremo se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione; per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati».
L’Osservatore Romano, 16-17 settembre 2019