Il banco, dolci ricordi dura attualità scolastica

Banco è una parola stupenda, e dispiace immensamente che negli ultimi tempi sia stata al centro di aspre tenzoni politiche, quasi che attorno al banco siano in gioco i destini della Pubblica istruzione, della democrazia, della Repubblica tutta.
Banco è parola dolce perché rievoca i tempi della scuola. La scuola è fatta di giornate luminose e buie, felici e malinconiche, di piccoli dolci trionfi e dolorosi naufragi – un sette e mezzo in greco, un quattro e mezzo in latino – ma banco è sempre associato a qualcosa di allegro e positivo, al contrario ad esempio di cattedra, che in fondo è soltanto un banco cresciuto troppo, fino a ritenersi chissà chi. C’è chi ha avuto sempre un banco singolo, che poteva essere assemblato come i mattoncini del lego, accoppiato con quello dell’amico preferito o della più carina della classe (rispettare la fila e augurarsi che non abbia il moroso fisso), o distanziato in occasione delle prove scritte. I banchi distanziati richiedevano un ingegno superiore, per l’estrema complessità di un’operazione solo apparentemente banale. Per lanciare il biglietto con la richiesta di aiuto al compagno secchione, occorreva calcolare: peso del biglietto e sua forma più o meno aerodinamica, potenza e direzione del lancio, eventuali correnti d’aria, cogliere il nanosecondo il cui il prof distogliesse lo sguardo, sincerarsi che il secchione fosse pronto alla ricezione, giocasse a baseball e avesse il fegato di rispondere. Copiare era un duro mestiere. Da banco.
Adesso il banco pare essersi rimpicciolito e dotato di rotelle destinate a spanarsi e frantumarsi dopo appena un centinaio di gare in corridoio. Assurdo. Meglio i solidi banchi singoli vintage, con intagli di alunni del passato. La datazione non è semplice, perché richiede una certa competenza rockettara e calcistica: Omar Sivori è anni Sessanta, Giorgio Chinaglia anni Settanta, Cabrini anni Ottanta ed è opera di una femmina; Beatles anni Sessanta, Baglioni anni Settanta (femmina), Spandau Ballet anni Ottanta. I vecchi banchi andrebbero tutelati dalla Soprintendenza.
Banco è parola che non merita di essere al centro di disputa alcuna anche perché tiene famiglia numerosa. Parola pratica, non a caso deriva dal germanico bank, che decliniamo al maschile e al femminile. Del banco di scuola abbiamo detto; alcuni prof particolarmente severi lo vorrebbero come il banco della chiesa, dotato di inginocchiatoio; altri prof decisamente sadici sognano il banco dei rematori delle galere, a cui incatenerebbero quei bricconi posapiano dei loro studenti. Durante le interrogazioni dal posto, ecco il banco degli imputati, che disperati sperano in un suggerimento sottobanco. Chi non è interrogato, intanto, continua a scaldare il banco.
Banco e banca sono parole, e prefissi, che nelle loro applicazioni e derivazioni raccontano di quanto i destini individuali siano talvolta decisi da minimi dettagli. Così, tra banchiere e banconiere una acca, muta ma non sorda, e due letterine spalancano l’abisso. Accomodarsi al banco della presidenza è ben diverso che stare in piedi dietro il banco del pesce. Destino mesto quello di chi, a cena, deve sorbirsi gli inesauribili racconti egolatrici di chi tiene banco; e di chi, dopo duramente lavorato, chiede la giusta mercede e si ritrova allo sportello della “banca dei monchi”, espressione fiorentina per dire: non sarai pagato mai.
Lettere, letterine e letteracce, spostate con sadica sapienza, fan sì che dal banco di scuola si passi al branco di squali, quelli che con l’adozione dei nuovi banchi sicuramente trarranno profitto economico, confermando la regola: il banco vince sempre.

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