Dopo un anno di lavori si è concluso il restauro della cripta nel cuore di Milano, dove san Carlo Borromeo si recava spesso a pregare.

La cripta del Santo Sepolcro a Milano (Maurizio Montagna)

La cripta del Santo Sepolcro a Milano (Maurizio Montagna)

avvenire

Un cielo stellato nel cuore della Milano romana. Un intero ciclo decorativo tardo-medievale è tornato alla luce dopo oltre un anno di restauri nella chiesa ipogea di San Sepolcro. Un luogo di pace dietro il complesso dell’Ambrosiana, a due passi dal traffico di piazza Cordusio. Ed è proprio qui che si trova l’“ombelico” della città, come lo definì san Carlo Borromeo, che si recava a pregare in questa chiesa due volte alla settimana; circa un secolo prima Leonardo da Vinci disegnò una mappa della città, tracciando al centro un quadrato nero dove indicava la chiesa come il “vero mezzo”, ossia il cuore di Milano.

L’isolato di San Sepolcro ricopre d’altronde la zona centrale diMediolanum, all’incrocio tra cardo e decumano, dove sorgevano il foro romano, la zecca (piazza Affari, non a caso, è a due passi da qui) e i principali edifici pubblici come la Curia, la Basilica e il Capitoliumdedicato alla triade capitolina di Giove, Giunone e Minerva, oltre alle tantetabernae, negozi e botteghe artigiane. E nel piano interrato di Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa, si conservano i resti di quello che, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere il teatro romano. Strana città, Milano, che nel corso dei secoli ha seppellito il suo passato, senza perderne però la memoria. Lo stesso arcivescovo Mario Delpini, intervenuto ieri a benedire il luogo, ha ricordato la «metropoli frenetica che esibisce i suoi grattacieli, e la città nascosta che conserva luoghi come questo. C’è chi le potrebbe contrapporre, ma invece siamo invitati a provare simpatia e gratitudine per il passato e la memoria».

Il capoluogo lombardo, ha aggiunto, è «una città esibita, produttiva e nascosta. Oggi siamo qui a scoprire ciò che è nascosto, a ritrovare la fiducia, la stima di sé che caratterizza i milanesi in un luogo dove si ricorda che il sepolcro non è la definitiva scomparsa della vita, ma piuttosto una culla della speranza», ricordando le tante volte in cui san Carlo vi si raccoglieva in preghiera. Curiosamente, nel corso dei secoli il polo religioso si è spostato lentamente a est, dove sorsero la basiliche di Santa Tecla e Santa Maria Maggiore, sulle quali venne poi eretta la cattedrale dedicata alla Natività della Beata Vergine Maria. In quanto al foro, ormai decaduto, vi venne costruita sopra una chiesa dedicata alla Santissima Trinità, che intorno al 1100 venne dedicata al Santo Sepolcro, in occasione della prima Crociata, dall’allora arcivescovo Anselmo da Bovisio; la forma venne adattata sul modello del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Se la chiesa superiore che vediamo oggi ha subìto varie traversie – rifatta in stile barocco nella prima metà del ’700, venne riportata esternamente all’originario aspetto romanico a fine ’800 –, quella inferiore ha mantenuto l’aspetto romanico, con le colonne di spoglio provenienti da qualche tempio pagano che sorgeva qui.

Riaperta da una decina d’anni, la chiesa ipogea, o cripta, soffriva di numerosi problemi climatici, come l’umidità che si era estesa su tutte le pareti. I lavori, iniziati nel 2018, sono stati condotti dalla Soprintendenza di Milano grazie al finanziamento di un milione di euro del ministero per i Beni culturali. Oltre al rinnovo dell’impiantistica per assicura- re all’ambiente condizioni ambientali stabili e alla nuova illuminazione, sono state rimosse le tinteggiature che nei secoli scorsi avevano ricoperto le volte: circa duecento metri quadrati di affreschi medioevali sono tornati così alla luce. Un ciclo ornamentale pressoché integro con stelle ed elementi vegetali che corrono sulle volte del presbiterio, databili alla fine del Duecento. «Stelle fitomorfiche con palmette e raggi a fiamma di candela che si espandono lungo le volte, mentre in altre parti si estendono in modo più regolare a tappeto», ha spiegato la soprintendente Antonella Ranaldi. Una vera sorpresa, ha aggiunto, è stata la comparsa di un angelo accanto al sacello centrale, all’interno di un tondo a monocromo rosso: forse l’arcangelo Michele che annuncia la Resurrezione, un’immagine legata ai riti dell’accensione del cero nelle veglie pasquali e nelle processioni che partivano da qui per dirigersi in Duomo. Un emozionato Marco Ballarini, prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, ha mostrato invece gli altri frammenti di affreschi restaurati, tra cui unaCrocifissione di sapore bizantineggiante e, a poca distanza, un lacerto con tre figure in piedi – Giovanni Battista con ai lati la Maddalena e una santache potrebbe essere Elena, la madre di Costantino (per il legame con la Terrasanta) – mentre è ancora da studiare la paternità di una cinquecentesca Madonna col Bambino e Santi Rocco e Giovanni Battista,che rimanda alla scuola di Bernardino Luini. E ancora, una Cena in casa di Simone e una Madonna di Loreto, in un vero e proprio sovrapporsi di affreschi e decorazioni di varie epoche – gli stucchi dell’abside con gli strumenti della Passione, come la statua di san Carlo in preghiera, in terracotta policroma, arrivano al ’600 –, che saranno pubblicati e analizzati in un volume di prossima uscita per Silvana editoriale, a cura della soprintendente Ranaldi. 

Le volte stellate catturano l’attenzione, è vero; ma se si abbassa lo sguardo, si nota che anche la pavimentazione è rimasta pressoché intatta, con le lastre marmoree di epoca augustea, provenienti dal foro romano che si trova pochi centimetri più sotto. «Le pietre del pavimento sono quelle calpestate da sant’Ambrogio e sant’Agostino – ha spiegato Ballarini –. Qui la Confraternita della Sacra Corona allestì uno dei primi centri per malati poveri con distribuzione gratuita di medicinali; qui fu aperta la cosiddetta Scuola della Dottrina Cristiana, una delle prime esperienze di catechesi che diventava anche occasione di alfabetizzazione. Non a caso, il cardinale Federico fece costruire l’Ambrosiana accanto alla chiesa di San Sepolcro, istituendo così un ideale collegamento con il deposito culturale e religioso di cui essa era portatrice. Questo è il patrimonio che ci è stato affidato, con il difficile compito che l’accompagna: tramandarlo senza tradirlo»