Disoccupazione e precariato, il dramma silenzioso vissuto da Mirafiori

Là dove la città finisce oltre il muro che separa il quartiere dalla fabbrica, non c’è traccia di elezioni: non è un argomento di dialogo tra i gruppetti di anziani e cinquantenni che stanno davanti ai bar alle 8 del mattino. Giovanni ha già fumato la quarta sigaretta e non sa come arrivare a mezzogiorno. Sta fuori casa perché non vuole far vedere ai figli che «non fa niente nella vita». Con lui anche Mario, Carlo, Pino: una banda di solitudini che non s’incontrano. «Le elezioni non ci interessano». I loro volti sono intellegibili, segnati da rughe che raccontano di notti insonni, i corpi sono piegati in avanti come se avessero preso un pugno in pancia, leggermente ricurvi con una gobba precoce che piega in avanti le spalle. Da dieci anni la loro vita oscilla tra cassaintegrazione, disoccupa- zione, disperazione. «Non voto, tanto non cambia niente per me». Se ne accorgono anche gli osservatori attenti e presenti nel quartiere come Ugo Bolognesi della Fiom. «La gente è in cassa integrazione da 15 anni, ormai è diventato qualcosa di cronico e non si vede un’uscita. È una morte dolce, ma sempre morte… ». «Quando sei disoccupato – racconta Mario – la gente ti schiva, come se fossi affetto da una malattia contagiosa. Non per cattiveria, ma quasi per istinto».

Nelle sue parole c’è il senso di colpa, l’idea di essere sbagliato, fermo mentre gli altri corrono. Manca un collante tra queste solitudini e la società, un luogo di ascolto che sappia portare in alto e invece si lascia prevalere la rassegnazione, le giornate si susseguono una uguale all’altra e lentamente e progressivamente diventano sofferenza psicologica perché smetti di avere una ‘ragione’ per alzarti al mattino e qualche soddisfazione alla sera che ti dice che oggi ai pur fatto qualcosa.

Pino è sempre stato precario. «La mia è una condizione di precarietà permanente, esistenziale. Adesso non ho più neanche il miraggio di un approdo. Sbatto a destra e sinistra come la pallina di un flipper». A 50 anni, racconta invece Carlo, «cercare lavoro è umiliante. Essere sottoposti a continue prove, dover raccontare la tua storia. Ho smesso di cercare, tanto non mi chiamano».

Mario spiega che «a volte mi metto a passeggiare lungo il muro: costeggio tutta la Fiat (per me si chiama sempre così, mi ricorda la busta paga). Quando arrivo alla fine di via Abarth e poi lungo corso Settembrini, osservo il vuoto che c’è nello stabilimento. Penso agli striscioni, alle lotte, agli operai che nel ’40 stavano sotto i bombardamenti; non ho nostalgia, ma penso che lottavano per il lavoro, per i diritti, adesso lotti per diventare precario». Da quando è iniziato il cosiddetto processo di terziarizzazione si sono ridotti sensibilmente i posti di lavoro e, come spiega l’economista Mauro Zangola, «oggi, più che in passato, l’offerta di lavoro è, in larga parte, poco qua-lificata ». «Il terziario – gli fa eco Bolognesi – non sostituisce l’industria e qui siamo a rischio desertificazione produttiva».

Gli amici del bar non protestano, non gridano perché si sentono responsabili della loro condizione. Non sono attratti dai mediocri populismi locali, andranno avanti da soli, ma senza di loro Mirafiori e le sue comunità stanno perdendo qualcosa. Un aggregato di persone diventa quartiere/comunità se c’è qualcuno che ti chiama compagno o fratello: se c’è qualcuno che interrompe il dolore che altrimenti perdura, senza tregua. Per la politica è troppo tardi, la sfiducia è diventata atavica. Cosa vorresti Pino? «A me basterebbe solo abbraccio, una carezza».

© RIPRODUZIONE RISERVATA Gli anziani sempre più soli, i cinquantenni senza prospettive di impiego: nel quartiere simbolo della Torino industriale, le voci di chi si sente escluso e dimenticato dalla politica

Una panoramica di Mirafiori