Difendere la Parola

Noi uomini del XXI secolo possiamo rassegnarci a questa superficialità imperante, a questa fuga dalla complessità, a questo fastidio dell’argomentare?

C’è una frase di Raffaele La Capria che mi torna spesso in mente nelle ultime settimane: «governa male chi si esprime male» (Esercizi superficiali).

Viviamo un’estate -soprattutto in ambito politico- verbalmente scadente: il turpiloquio è diventato sistema di comunicazione, il soprannome è reso nome, l’epiteto insultante è divenuto merito, vige l’eclisse del pudore verbale, si esalta l’orgoglio del triviale, si osanna la semplificazione etichettatoria (a scapito sempre dell’argomentare). Il tutto con ampio consenso perché “quel politico parla come me”.

A questo imbruttimento, è noto, non si è arrivati dal nulla: sono anni che il linguaggio della politica e dei media, prima televisivi e poi delle rete, si è fatto sempre più basso, lessicalmente povero, alieno da un minimo tentativo di ragionamento complesso. Nell’epoca della velocità, l’ignoranza è divenuta una virtù, la parolaccia una costante. Nessun moralismo: basterebbe leggere l’epistolario di Leopardi o le liriche latine per rendersi conto di quanto antichi siano insulti e similia. Ma a questo si affiancavano un’enorme ricchezza verbale e un serio pudore politico: chi ha responsabilità nel governo della polis deve evitare almeno due estremi: il parlare retorico e autoreferenziale, la volgarità frequente.

Parlare bene significa ragionare bene e ragionare bene, per chi ha compiti di governo, di amministrazione e di guida, significa governare bene.

C’è una crisi della parola che questo XXI secolo segna come una delle sue emergenze; le parole perdono la loro incandescente profondità, tramonta la fatica dell’apprendere, le sfumature lessicali vanno morendo: è un fenomeno che le scienze sociali, la filosofia e la critica letteraria hanno ampiamente messo in luce (peraltro il nesso tra “le parole e le cose” è in discussione da tempo, tanto che Michel Foucault addirittura leggeva questa deriva a partire dal don Chisciotte, ma in un’ottica di filosofia del linguaggio e di epistemologia). E a questo si lega, nel tempo delle ‘false notizie’ (mi si perdoni l’aver evitato la sigla inglese), l’indifferenza riguardo al legame ‘parola e realtà’. I fatti sono sempre più spesso inventati o piegati nell’interpretazione, che ignora il dato fattuale in favore dell’ideologia. Una frase è usata, fuori contesto, per colpire il nemico (non più l’avversario).

Alle domande non si dà risposta, ma si liquida l’interrogativo con l’esclamativo, con una battuta, con un’alzata annoiata di spalle. I problemi sono sempre ‘altri’… altri problemi che vengono sempre evitati.

Chi ha responsabilità pubblica non può ipocritamente dire tutto e il suo contrario, non può evitare di rendere conto della sue parole, oltre che delle sue azioni. La polis è sempre più avvelenata: un parola cattiva genera azioni cattive.

In una democrazia, nella legittima dialettica politica, nella rispettabilità delle posizioni (che non violino la legge), la parola deve essere un valore, il quale va custodito, difeso, protetto come un bene prezioso.

Se cambiamo le parole, cambiamo i fatti. La forma spesso è sostanza.

Noi uomini del XXI secolo possiamo rassegnarci a questa ‘morte della parola’? A questa superficialità imperante, a questa fuga dalla complessità, a questo fastidio dell’argomentare?

C’è una parola che va difesa: civilmente, laicamente, responsabilmente. Nessuno di noi tollererebbe una parola bugiarda dalla persona amata. Perché la falsità distrugge; siamo fatti per la verità.

No, non dobbiamo rassegnarci; non dobbiamo continuamente abbassare l’asticella del tollerabile. L’aggressività verbale, la violenza verbale diventano sempre più frequentemente aggressività e violenza reali. C’è un senso di impunità verbale che va combattuto; non so se aveva ragione Cesare Pavese: «siamo cose feroci, noi altri immortali». Di certo, non possiamo evitare di porre un argine a questa deriva sguaiata, invereconda, civilmente letale. Non dobbiamo dimenticare che «il più grande reato contro l’umanità è l’uso indebito della parola, il suo svilimento» (Ferruccio Parazzoli).

L’ora è grave, anche se, la storia insegna, passerà. Ma quali macerie lascerà?

Scriveva Amos Oz: «Ci sono certamente momenti nella vita di un uomo e di un popolo in cui il silenzio è fare un uso distorto della lingua».

Dovremmo sentire l’urgenza di un compito particolare, nella consapevolezza che «ognuno ha un pezzetto di responsabilità. Se la disattende qualcun altro, dopo di lui, alla distanza di una o due generazioni, dovrà metterci una pezza. Porre rimedio. Colmare questa lacuna» (Eraldo Affinati).

Soprattutto noi cristiani abbiamo un obbligo in più: non siamo uomini che hanno sperato in una Parola? Che ascoltano una Parola, che credono in una Parola?

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