Con sensibilità materna. Nella giornata del malato

L’Osservatore Romano

(Peter Kodwo Appiah Turkson) Il messaggio di Papa Francesco per la XXVI Giornata mondiale del malato, inizia con le parole di Gesù sulla Croce, rivolte a Maria e a Giovanni, che ci introducono al reciproco affidamento. È un gesto di amore e di tenerezza che richiama al preoccuparsi e all’occuparsi di qualcuno, a quella relazionalità che ci costituisce, senza la quale non ci sarebbe speranza, ma solo sofferenza e paura.
La reciprocità “figlio-madre” è una prossimità priva di propositi dominativi ed è intimamente rigenerata dalla capacità di ascolto, da una sensibilità capace di lasciarsi coinvolgere, senza stereotipi. Siamo tutti figli, bisognosi sì, ma anche capaci di cura, sull’esempio di quanto nostra Madre, Maria, ha fatto con intelligenza e riservatezza, con una sollecitudine senza confini.
Per questo serve “empatia” che designa prossimità, relazione, solidarietà, altruismo e accoglienza. L’empatia è fondamentale nei processi di condivisione delle emozioni come relazione cognitiva e affettiva: viene invocata negli ospedali, nei luoghi di dolore, lutto e malattia. È chiamata a innervare le strategie di lavoro degli operatori sanitari, dei formatori e degli assistenti sociali. Rimanda a virtù che sono promosse dalla “sensibilità materna”, che non appartiene necessariamente alle madri di fatto, non ha niente di sentimentalista e retorico: è una creatività forte e determinata, è un accesso alla verità veicolata dall’attenzione e dall’amore. Il “cuore di madre” è insieme “intelligenza di madre” cui sono connesse la flessibilità, la capacità di adattamento a situazioni improvvise. È questo tipo di vicinanza intelligente che promuove le diverse forme di sussidiarietà rivolte alla soddisfazione di bisogni cui il soggetto non può far fronte da solo.
Come afferma il Papa nel messaggio, «la vocazione materna di Maria, la vocazione di cura per i suoi figli, passa a Giovanni e a tutta la Chiesa». Questa vocazione materna si esprime sia nell’impegno a curare con competenza ed efficienza, sia nei registri caldi della tenerezza e del prendersi cura. La cura della Chiesa è rivolta alle malattie spirituali e a quelle fisiche, è rivolta a tutti gli uomini e a tutto l’uomo, una cura che non contrappone il curare e il prendersi cura, l’efficacia dei trattamenti e la qualità relazionale.
Nell’impegno di cura della Chiesa è fondamentale la “prossimità responsabile” che significa anche “cura della comunicazione”. Il dovere di dire la verità non può essere disgiunto dalla “condivisione” della verità comunicata; non si tratta solo di trasferire un’informazione, ma di assicurare la disponibilità a prendersi cura dell’altro. La verità autentica è nemica della menzogna ma non della speranza. Il dovere di dire la verità non equivale al diritto di traumatizzare i pazienti attraverso una comunicazione fredda e sbrigativa; equivale invece al dovere di portare il paziente a conoscere le proprie condizioni per poter partecipare, con il medico e con i propri congiunti, ai processi decisionali che lo riguardano, soprattutto nelle fasi conclusive della sua vita.
Seguendo l’invito di Papa Francesco, l’attenzione materna va oltre il linguaggio asciutto delle cose da fare, ma attinge al vocabolario della confidenza e della tenerezza. Quest’ultimo registro si radica nella consapevolezza del limite, una saggezza che previene sia gli accanimenti clinici, sia le richieste di eutanasia, scelte dettate dall’angoscia della finitezza umana.
La relazione di cura implica reciprocità, una relazione in cui tutti si sentono riconosciuti. C’è il rischio che il malato sia trattato frettolosamente e senza l’adeguata competenza, ma c’è anche il rischio che il caregiver diventi un “io trasparente” che vede i bisogni degli altri, senza che vengano riconosciuti i suoi.
Siamo in una fase storica in cui è urgente organizzare la sanità sul territorio, visto il crescere della popolazione anziana con patologie croniche e degenerative. Le cure che il caregiver presta agli altri devono essere compatibili con quelle che riserva a se stesso, in modo da evitare le situazioni di burnout. Invece i tagli economici alla sanità, la cultura dello scarto, causano disumanizzazione, ritmi di lavoro non rispettosi, la gestione continua di situazioni di emergenza.
La Chiesa nel corso dei secoli «ha fortemente avvertito il servizio ai malati e sofferenti come parte integrante della sua missione e non solo ha favorito fra i cristiani il fiorire delle varie opere di misericordia, ma ha pure espresso dal suo seno molte istituzioni religiose con la specifica finalità di promuovere, organizzare, migliorare ed estendere l’assistenza agli infermi» (Dolentium hominum, n.1).
L’impegno continua oggi, sia nei paesi più ricchi che in quelli poveri. Nei primi la salute è interpretata come qualità della vita e benessere. È una nozione ampia e complessa, che, in una cultura edonista e utilitaristica, rischia di essere condizionata da alti standard competitivi, una concezione che può discriminare quanti non possono essere autonomi, efficienti e cooperativi. Qui la Chiesa ricorda la dignità e l’indisponibilità di ogni vita umana, anche quando sia particolarmente vulnerabile.
Nei paesi più poveri la salute è semplicemente “assenza di malattia”, ma rimane spesso un ideale difficilmente raggiungibile, data la povertà e la carenza di organizzazione sanitaria. Qui la Chiesa s’impegna a debellare le malattie che minano la vita fin dall’infanzia, a migliorare le condizioni igienico-sociali che causano le pandemie. Ovunque la Chiesa non smette di curare, anche quando la guarigione non è possibile, affinché «la persona del malato venga rispettata nella sua dignità e mantenuta sempre al centro del processo di cura».
Lo sguardo alla storia della carità della Chiesa a favore dei malati aiuta a progettare il futuro. L’impegno della Chiesa si è espresso a favore dell’umanizzazione della salute, riconoscendo in ogni essere umano una persona e non una cosa.
La pastorale della salute ha come compito la promozione della civiltà cristiana della cura. È un compito vasto, significa incidere su ciò che condiziona la salute: la cultura, i sistemi sanitari, i fattori ambientali, le politiche economiche, del lavoro e della famiglia. L’antropologia sottesa non è quella dell’autosufficienza, ma quella della fragilità, del duplice vincolo — attivo e passivo — dell’aiutare e dell’essere aiutati.
Sempre più il termine cura dovrebbe entrare nel vocabolario della politica, adottando provvedimenti in grado di garantire, a prezzi accessibili, la fornitura di medicinali essenziali per la sopravvivenza delle persone indigenti, senza tralasciare la ricerca e lo sviluppo di trattamenti che, sebbene non siano economicamente rilevanti per il mercato, sono determinanti per salvare vite umane.
Siamo chiamati a essere coscienza critica e orientante, sia di fronte al crescere delle disuguaglianze e discriminazioni sociali, sia di fronte ai rischi ambientali. Il bene salute è un bene relazionale e non può prescindere dal bene comune.
Occorre essere consapevoli della difficoltà che la contemporaneità ha nel trovare un equilibrio tra l’autonomia individuale e la responsabilità pubblica proprio perché è diventata estranea la nozione di bene comune. Con il prevalere della razionalità strumentale e della logica dell’effimero sfumano i confini tra le cose e le persone e tutto diventa utilizzabile e sfruttabile, è urgente rimettere al centro la persona.
Per queste ragioni la pastorale della salute s’inserisce nel più ampio servizio allo sviluppo umano integrale e ha bisogno di competenze che si formano attraverso lo studio rigoroso e la ricerca. Lo studio aiuta a non perdere di vista le radici spirituali ed ecclesiali dell’agire, al fine di non essere attivisti, bensì di muoversi a favore di chi soffre, in modo interiore e inclusivo, senza presunzione, protagonismi e rassegnazione, sapendo riconoscere il volto di Gesù nei chiaroscuri della vita.
L’Osservatore Romano, 10-11 febbraio 2018