Come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia incontrabile da tutti?

vinonuovo.it

Chi è caccia di «eresie» mira a perseguire un’uniformità che non è mai esistita nella storia della Chiesa. Mentre la domanda vera dovrebbe essere: come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia incontrabile da tutti?

Oggi comincia un Sinodo che nel suo Instrumentum Laboris contiene la bellezza di «quattro tesi eretiche». Lo dicono fonti ben informate: i soliti specializzati nella matita rossa e blu su questa Chiesa cattolica alla deriva. Secondo loro questo Sinodo è tutto un «complotto» (ti pareva…): si utilizzano i poveri indios dell’Amazzonia per far passare le tesi di quei circoli progressisti che hanno la loro casa madre in Germania (e dove altro se no?); gli stessi che con i loro conciliaboli a San Gallo hanno portato all’elezione di un Papa come Francesco.

Basta scorrerle le presunte «tesi eretiche» per accorgersi che il giochetto è quello di sempre: prendere il pensiero dell’altro e trasformarlo in una caricatura. Così magari qualcuno ci crede davvero che tra i 184 Padri sinodali che da oggi discuteranno sui «Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale» una buona parte non sia affatto interessata all’incontro con Gesù Cristo e sia lì solo per cedere alle mode del momento: l’ecologismo e i preti sposati, se non addirittura – massimo dello scandalo – l’ordinazione delle donne.

E le comunità che in Amazzonia vivono in villaggi isolati nella foresta dove il prete può arrivare solo due o tre volte l’anno a dire la Messa, ma alle quali continuiamo a raccontare che l’Eucaristia è il cuore della loro vita cristiana? O quelle che aspettano ancora chi arrivi a tradurre nella loro lingua e nelle categorie della propria cultura la Parola di Dio? E quei cristiani che anche in Amazzonia vengono uccisi semplicemente per aver provato a difendere i più deboli contro interessi legati il più delle volte a grandi potentati economici? Sono tutte questioni secondarie. Noi (standocene comodamente seduti sul nostro divano) dobbiamo fare i conti con le «eresie» che dilagano nella Chiesa di Papa Francesco.

È lo spirito dei tempi, ok. Però a me – che in quella foresta ci sono stato e non ho né visto né sentito proprio nulla che metta in pericolo la mia fede – una domanda resta lo stesso: da dove viene tutta questa paura per il Sinodo per l’Amazzonia?

Mi sono dato due risposte. La prima: a far paura è proprio la missione. L’avete notato? Tra tutti quelli che ce l’hanno con questo Sinodo non ce n’è uno che ricordi che Papa Francesco l’ha voluto al centro del Mese missionario straordinario che (almeno in teoria) nelle nostre comunità dovremmo celebrare in queste settimane. Si tratta di un Sinodo per dire che il Vangelo di Gesù parla anche ai luoghi più sperduti del mondo di oggi. Un Sinodo che chiederebbe di riscoprire l’espressione “partire”, un verbo che a furia di dire che “la missione è anche qui” abbiamo del tutto addomesticato («evangelizziamoli a casa loro», chissà perché, è uno slogan che non va tanto di moda…). Chiusi come siamo nei nostri schemi, non c’è posto per il mondo. L’idea che in Amazzonia la gente possa incontrare Cristo, sì, ci piace: quelli là hanno proprio bisogno di Gesù Cristo, mica dei loro amuleti e pendagli con le piume. Ma se questo implica alzarmi dalla mia poltrona, avventurarmi in mare aperto, provare a capire chi sono davvero queste persone, dove vivono, quale storia hanno alle spalle, in che cosa il Vangelo può rendere più piena la loro vita…, beh, allora possono aspettare. Non c’è tempo, abbiamo ben altro a cui pensare. Non lo vedete che qui sta crollando tutto?

Ancora più di questa generica paura ad avventurarci oltre i nostri confini di casa, però, c’è una seconda idea che spaventa in questo Sinodo: va bene tutto, ma non vorrete mica dirci che in Amazzonia Dio ci è arrivato prima e (magari) pure senza di noi?

Scorrete le tesi che vengono definite «eretiche»: capirete subito che il nodo di fondo non è affatto la presunta deriva ecologista di questo Sinodo. No, quella va bene giusto per qualche sfottò. La questione seria nel mirino è l’inculturazione della fede; cioè l’idea che la spiritualità e i riti religiosi attraverso cui questi popoli hanno espresso nella loro tradizione il rapporto con Dio valgano qualcosa; l’idea che portino in sé dei «semi di verità» (come li chiamava il Concilio Vaticano II riprendendo alcuni Padri della Chiesa) che – riletti alla luce del mistero della Pasqua – possono parlare loro in maniera più efficace di Gesù rispetto alle forme e ai linguaggi della nostra tradizione.

È evidente che si tratta di un nodo delicato. Ma la storia della Chiesa dei primi secoli è piena di questo tipo di incontri. Noi stessi – tanto per fare un esempio – celebriamo il Natale nel giorno che in antichità era la festa di una divinità romana; una festa pagana che non abbiamo abolito; gli abbiamo dato un significato nuovo alla luce di Gesù. Perché, allora, questo tipo di operazione dovrebbe essere un inaccettabile cedimento al relativismo se lo fa qualche popolo dell’Amazzonia? Semplicemente perché i loro riti (che peraltro non conosciamo) sono colorati e ci fanno sorridere?

Chi grida all’«eresia» mira a perseguire un’uniformità che non è mai esistita nella storia della Chiesa (pensiamo anche solo alla quantità di riti che la Chiesa cattolica riconosce). Il punto dovrebbe essere piuttosto un altro. Domandiamoci: come far sì che il cuore della nostra fede – il mistero di Gesù Cristo morto, risorto e presente in mezzo a noi nell’Eucaristia – sia davvero incontrabile da tutti i popoli del mondo?

Sì, Dio è arrivato prima di noi in Amazzonia. Basta percorrere i suoi fiumi per accorgersene. E se oggi attraverso questo Sinodo ci stesse aspettando proprio lì, per aiutarci a capire la differenza tra ciò che è nostro e ciò che è davvero Suo?

P.S.: La foto che accompagna quest’articolo è stata scattata l’altro giorno nei Giardini vaticani dal servizio fotografico dell’Osservatore Romano. Quello che sta parlando col Papa è Honorato, una catechista dell’etnia Satere Mawé felice di aver appena consegnato a Francesco la collana che ha realizzato per lui con il legno dell’Amazzonia. Leggete a questo link la sua testimonianza e giudicate voi se intorno a questo Sinodo è più importante parlare delle presunte «eresie» o della testimonianza evangelica che la gente dell’Amazzonia è in grado di donarci