Il progetto. Caccamo: “Diamo la parola ai giovani del mondo sul futuro”

Il cantautore ha presentato all’Onu la versione internazionale del “Manifesto per il cambiamento” che raccoglie le idee dei ragazzi dalle università di Usa, Giappone, Brasile, Messico ed Europa”

Caccamo: "Diamo la parola ai giovani del mondo sul futuro"

Marco Anelli © 2022 IG: @marco_anelli_studio WEB: www.marcoanelli.com

Le parole dei giovani possono cambiare il mondo. Ne è convinto Giovanni Caccamo, cantautore raffinato con la vocazione dell’operatore culturale, che ha visto crescere il suo progetto Parola ai giovani tanto da esportarlo oggi in tutto il mondo. L’artista ha stato presentato il 5 aprile al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, presso l’Economic and Social Council, il Manifesto for change – Youth and future, la declinazione internazionale del progetto Parola ai giovani, insieme a padre Antonio Spadaro, Jesse Paris Smith, Rebecca Foon, Alessia Zanelli e con una speciale video performance di Patti Smith. Si tratta di un concorso di idee, rivolto ai giovani di tutto il mondo, di ogni religione, identità di genere ed estrazione sociale, per creare insieme un manifesto culturale di cambiamento in occasione del forum internazionale dei giovani “Change the World Model Un” in collaborazione con Diplomatic Ong.

«Presentare questo progetto nato in Italia all’Onu di fronte a 5000 giovani provenienti da 142 paesi è stato incredibile» racconta ad Avvenire Giovanni Caccamo. «Sono appena rientrato da un giro di tavole rotonde con gli studenti delle più prestigiose università americane, Yale University, Harvard University, Berklee College of Music, Wellesley College negli Stati Uniti; poi a settembre sarò presso UNAM in Messico, UANIL in Brasile, Università di Tokyo in Giappone e la Sorbonne Université a Parigi».

“Cosa cambieresti della società in cui vivi e in che modo? Qual è la tua parola di cambiamento?”. Queste le due domande poste da Caccamo a cui i ragazzi sono chiamati a rispondere per iscritto. «I migliori testi selezionati tra quelli ricevuti, saranno raccolti, come accaduto in Italia, in un libro intitolato Manifesto for change. Il volume sarà impreziosito da un dialogo intergenerazionale con alcune delle figure culturali di riferimento più ispirate al mondo» aggiunge il cantautore. Una piccola selezione di testi sarà stampata su fogli di carta cotone con caratteri tipografici in piombo e consegnata ad alcuni dei più importanti artisti internazionali contemporanei che ne trarranno ispirazione per un’inedita opera d’arte, come già successo in l’Italia con artisti come Maurizio Cattelan, Michelangelo Pistoletto, Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino. Il ricavato della vendita del libro e delle opere sarà devoluto alla Andrea Bocelli Foundation a sostegno di progetti rivolti alla formazione e alla valorizzazione delle nuove generazioni e a Pathway to Paris, a supporto di soluzioni innovative per combattere il cambiamento climatico globale.

Anche di questo parlerà oggi Caccamo in piazza San Pietro di fronte ai 70mila giovani attesi per “A braccia aperte”, l’Incontro nazionale dell’Azione Cattolica con Papa Francesco (diretta su Rai1 a partire dalle 9.30 circa). «Verso mezzogiorno per una mezz’ora canterò alcuni brani e parlerò dell’impegno dei giovani per il futuro» aggiunge. Un’ulteriore occasione di confronto con il cantautore su questi temi sarà il 2 luglio a Grado (Gorizia) dove Caccamo sarà protagonista dell’incontro pubblico “Le parole che ci cambiano” nell’ambito della Festa di Avvenire (ore 21.00 in Campo Patriarca Elia, la piazza antistante la Basilica di Sant’Eufemia). Inoltre il 16 maggio Giovanni Caccamo al Duomo di Milano presterà la voce alla Messa Arcaica per soli, coro e orchestra di Franco Battiato (suo mentore) a trent’anni dalla sua prima pubblicazione discografica. Ad eseguirla il Coro da Camera di Torino diretto dal maestro Dario Tabbia e l’Orchestra da Camera Canova sotto la guida del maestro Antonio Ballista, con Lorna Windsor, mezzosoprano, e Giovanni Caccamo nel ruolo che fu dello stesso Battiato. «Sarà un grande momento di preghiera e meditazione collettiva».

«Con Youth and future vorrei farmi portavoce della mia generazione – aggiunge l’artista 34enne -, consapevole del dovere dei giovani di creare un nuovo orizzonte in questo momento storico di grave crisi, conflitti e disgregazione». Il progetto è realizzato con il supporto di Banca Ifis, Pulsee Luce e Gas e la filantropa Alessia Zanelli. Lanciato originariamente in Italia nel 2022 con grande successo e pubblicato lo scorso 13 maggio da Treccani, con una straordinaria prefazione di Papa Francesco, il Manifesto per il cambiamento, nasce dal desiderio di Caccamo di contrastare il nichilismoche minaccia la società odierna. «Tutto nasce dal mio ultimo disco Parola che rilancia l’appello di Andrea Camilleri ai giovani di rimettere al centro delle nostre vite l’importanza della “Parola” e provare a far sorgere una piccola luce di un nuovo umanesimo – aggiunge Caccamo -. Per il disco ispirato ad alcune pagine della letteratura italiana, ho avuto la fortuna di avere compagni di viaggio come Patty Smith, Liliana Segre, Willem Dafoe. Ho pensato poi che servisse la risposta di migliaia di giovani, così ho lanciato un concorso di idee rivolto a tutti ragazzi italiani under 35, raccogliendo attraverso tavole rotonde nelle università, nelle carceri e nei centri di accoglienza italiani i testi che hanno dato vita al primo libro. Il Papa è stato straordinario nello scrivere una lettera indirizzata a tutti dove ha detto “Siate giovani in grado di cambiare il modo di cambiare”».

Cosa ha detto Caccamo all’Onu per convincere i ragazzi? «Troppo spesso ci arrendiamo di fronte alle nostre fragilità, sopraffatti da un mondo virtuale che mette in onda vite perfette facendoci sentire inadeguati e mai all’altezza, ho detto nel mio discorso – spiega -. Bach scrisse la sua “Toccata e Fuga in Re Minore” a 20 anni. Michelangelo scolpì la Pietà a 23 anni e iniziò a dipingere la volta della Cappella Sistina a 33. È nostro dovere rimboccarci le maniche e chiederci quali possano essere i cambiamenti più urgenti e necessari nel nostro presente”. Come agire? “Ogni sera, prima di addormentarci, sforziamoci di trovare almeno una decina di piccole, grandi cose che hanno reso la nostra giornata speciale e per cui imparare a dire “grazie”. Credere nella pace, ad esempio, significa imparare a sciogliere i conflitti della nostra vita; sforzarci di perdonare e chiedere scusa mettendo in circolo nuove dosi d’amore e gentilezza».

avvenire.it

Il caso. I medici inglesi stavolta cedono: neonato verso il “Bambino Gesù”

Nato in Inghilterra da padre italiano e madre nigeriana, gravemente malato, si vedeva negata l’operazione per la quale a Roma invece era tutto pronto. L’intervento del governo e dell’Aeronautica

L'ambulanza sale sul C-130 dell'Aeronautica italiana

L’ambulanza sale sul C-130 dell’Aeronautica italiana – –

avvenire.it

Poteva diventare una vicenda come quelle di Charlie Gard, Alfie Evans e Indi Gregory, morti per il distacco dei supporti vitali su richiesta dei medici e per ordine della magistratura. Invece stavolta è finita bene grazie all’ormai consueta disponibilità dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma e alla mobilitazione efficace di una rete diplomatica che ha prevenuto l’insabbiarsi della vicenda nelle aule giudiziarie. I dati di cronaca, emersi a cose fatte, parlano di un neonato di un mese – sono note solo le iniziali: D.M. – venuto alla luce in Inghilterra da padre italiano e madre nigeriana, affetto da «una gravissima malformazione cardiaca», come informa l’ospedale romano, e ricoverato al Bristol Royal Hospital for Children.

«Il piccolo aveva bisogno di un intervento chirurgico ma i protocolli locali rischiavano di escluderlo – spiega l’avvocato Simone Pillon, che si è preso cura giuridica del caso come già di Indi –. Allora il padre si è rivolto alle realtà italiane dedite alla cura dei minori e al mio studio legale». Famiglia e ospedale erano prossimi a dar vita a un nuovo braccio di ferro giudiziario attorno al capezzale del neonato, cittadino inglese e italiano. Con la prima udienza già fissata per lunedì alla Family Court di Londra, è però arrivata la proposta italiana di un protocollo di trasferimento: un’équipe pronta al Bambino Gesù per tentare subito un delicatissimo intervento chirurgico che l’ospedale inglese non sembrava intenzionato a eseguire e la disponibilità di un C-130 della 46esima Brigata aerea della nostra Aeronautica militare attrezzato per trasporti sanitari di emergenza.

L’ospedale di Bristol ha deciso di rinunciare alle vie legali, dando il via libera alla partenza del neonato a bordo di un’ambulanza caricata nella pancia dell’aereo militare, operazione curata dalle nostre autorità diplomatiche in Inghilterra e seguita dalla Presidenza del Consiglio. Dopo l’atterraggio a Ciampino il ricovero al Bambino Gesù presso l’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione con «un primo intervento combinato di cardiologia interventistica e cardiochirurgia – fa sapere l’ospedale – per aumentare le chance di sopravvivenza del bambino e migliorare la sua qualità di vita».

L'aero militare italiano in partenza dall'Inghilterra

L’aero militare italiano in partenza dall’Inghilterra – –

«Sia mia moglie che io abbiamo il cuore che trabocca di gioia per quanto sta accadendo», dice il papà, che ringrazia Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano, la nostra diplomazia, l’Aeronautica militare. E anche i medici inglesi, «per aver seguito nostro figlio e aver autorizzato il trasferimento senza frapporre ostacoli». È solo la prima parte della battaglia di D.M.: ma pare quasi un miracolo.

Domenica a Milano. Una terna arbitrale di sole donne per Inter-Torino

È la prima volta in Serie A. Direttrice di gara sarà Maria Sole Ferrieri Caputi, coadiuvata da Francesca Di Monte e Tiziana Trasciatti. Dopo la partita la festa scudetto nerazzurra

Maria Sole Ferrieri Caputi

Maria Sole Ferrieri Caputi – Reuters

Domenica prossima San Siro non ospiterà solo la festa dell’Inter che celebra il suo freschissimo scudetto ma anche un inno al calcio vissuto interamente al femminile. Inter-Torino in programma alle 12.30 sarà infatti la prima partita della serie A diretta da una terna arbitrale composta da sole donne. A dirigere la gara è stata chiamata infatti Maria Sole Ferrieri Caputi coadiuvata dalle giudici di linea Francesca Di Monte e Tiziana Trasciatti. Ferrieri Caputi, 33enne livornese di origini pugliesi, dopo la laurea triennale in scienze politiche a Pisa, ha conseguito la magistrale in sociologia a Firenze. Attualmente lavora in un centro privato come ricercatrice di studi internazionali sul lavoro. In una recente intervista, parlando di come combatte la tensione pre partita Ferrieri Caputi aveva detto che si impegna a non lasciare nulla al caso, «studiando le squadre, la loro tattica, le caratteristiche dei giocatori» pur nella consapevolezza che l’errore prima o poi potrà verificarsi e confidando dunque nel suppporto psicologico del Var (strumentazione elettronica che permette di dipanare molti dubbi). Ha diretto la sua prima partita di Serie A il 2 ottobre 2022: un Sassuolo-Salernitana finita 5 a 0 per i padroni di casa, assegnando un calcio di rigore e comminando due ammonizioni, una per parte. Tra i suoi record anche l’aver diretto una partita maschile tra nazionali, per la precisione il 25 marzo 2023 l’amichevole Germania-Perù.

Due mesi prima, il 17 gennaio Ferrieri Caputi aveva guidato una terna tutta femminile nella partita valida per gli ottavi di Coppa Italia: Napoli-Cremonese. Con lei Francesca Di Monte e Tiziana Trasciatti cioè le stesse collaboratrici di domenica prossima. In particolare, Di Monte, 40enne abruzzese è laureata in Giurisprudenza e lavora come consulente aziendale. Trasciatti, 38 anni, umbra di Foligno, svolge invece la professione di avvocata.

Sarà dunque il triplice fischio finale di Ferrieri Caputi domenica a far scattare la festa interista che poi, con i giocatori a bordo di un pullman scoperto, colorerà di nerazzurro le vie del centro di Milano.

avvenire.it

Mafia. Pino contro i boss in Calabria: «Sogno una terra libera dalla paura»

L’imprenditore, che ha aperto una ristorante dove lavorano disabili e migranti a Martone, racconta la sua resistenza contro la ‘ndrangheta

Pino Trimboli nelle cucine del suo ristorante a Martone, in Calabria

Pino Trimboli nelle cucine del suo ristorante a Martone, in Calabria – .

avvenire.it

Il 18 aprile è iniziato il processo agli estorsori di Pino Trimboli, ristoratore e imprenditore agricolo di Martone, piccolo paese dell’interno della Locride di appena 500 abitanti (erano più di duemila 70 anni fa). Gli avevano chiesto 50mila euro minacciandolo: «Se non paghi sei morto. Ti bruciamo il ristorante, i figli e tutti i tuoi». «Ma io non ho avuto esitazione, ho denunciato – racconta con convinzione –. Ho capito che dovevo chiudere la mia attività oppure chiedere la loro protezione e diventare schiavo. Non mi sono arreso. Certo ho avuto paura, ma non si deve essere sovrastati da questa paura. Io avrei più paura a piegare la testa davanti a chi ci vuole togliere la libertà. Ho scelto e continuo a scegliere di lavorare nella mia terra, che amo, mentre la ‘ndrangheta la odia la Calabria». E la gente ha capito. Pino ha detto a tutti delle minacce, tutta Martone è andata a presidiare il ristorante. Addirittura la processione della festa patronale ha fatto sosta lì, quando in passato (purtroppo non poche volte) le processioni si erano fermate davanti alle case dei mafiosi, per il famoso “inchino”. Ma ora tutto è cambiato, perché Pino resiste.

La sua è davvero una vita di resistenza. Alla malattia, alla povertà, alle lusinghe giovanili, alla violenza mafiosa. Fin dalla nascita. Oggi ha 49 anni, sposato con Lucia accanto a lui anche nel lavoro, con quattro figli. Ma la storia comincia più lontano, in una famiglia poverissima, il papà emigrato, Pino che alla nascita rischia di morire, salvandosi con una gravissima malformazione al nervo ottico che lo mette a rischio cecità. Per un anno tenta anche lui la fortuna in America. Quando torna il padre gli dice «“se vuoi restare devi lavorare”. Lo faceva per tenermi lontano da cattive amicizie». Così il lavoro fa resistere Pino dal prendere brutte strade. Va a fare il cameriere in un albergo sulla costa. E lì capisce che è la cucina la sua passione: nel 1998 apre il ristorante “La collinetta”, «dove si mangia come a casa mia». E infatti a lungo in cucina c’è la mamma Rosa. Prodotti della sua azienda agricola biologica o di altre garantite, piatti della tradizione calabrese ma con qualche sperimentazione, una stupenda cantina. È un successo. Dal 2000 è nella guida delle migliori trattorie di Slow Food, ottenendo anche la “Chiocciola d’oro” che rappresenta il top.

La trattoria è sempre piena, tante famiglie e giovani. Dà lavoro a 13 persone, tra i quali immigrati e disabili. Ovviamente la ‘ndrangheta si fa avanti. Prima con proprie imprese. «Si offrivano per fare lavori. Era “pizzo” indiretto». Pino rifiuta, resiste e fa altre scelte molto nette. Nel 2007 aderisce al Consorzio Goel, la rete di cooperative sociali nata col vescovo Giancarlo Bregantini, che promuove economia pulita, occupazione, legalità, solidarietà contrastando proprio il potere della ‘ndrangheta. E le cosche stavolta reagiscono: «Vediamo se ti minacciamo, chi ti protegge». Lui alza le spalle e ricorda sempre quando da ragazzo stava sulla piazza a una bancarella con un amico: «Passa il boss e gli chiede “A chi hai dato conto per la bancarella?”. Il mio amico risponde: “Sono andato al Comune e ho pagato la tassa. Volete qualcosa?”. “Non mi piace niente”. “Allora andate via, sta uscendo il Santo dalla chiesa”». Il mafioso sputa per terra e se ne va, l’amico dice a Pino: «Se hai paura sei già morto, si muore una volta sola». Quelle stesse parole Pino le sente dire da Borsellino anni dopo e capisce che la libertà non ha prezzo. Così lui non si ferma: collabora con la Caritas per inserire nel lavoro persone svantaggiate, con l’associazione “I Girasoli” di Martone per sostenere sempre col lavoro le famiglie con disabili. E poi i due progetti “Frutto della nostra terra” e “Terra dei primi”, nei quali gli anziani insegnano ai disabili a lavorare la terra e producono erbe aromatiche e officinali, che finiscono poi nei piatti del ristorante. Pino, e tanti suoi amici, resistono alla ‘ndrangheta e cambiano la Calabria.

Povertà. Il doposcuola di Kenza a Torino: «Qui nessuno resta ai margini»»

La giovane educatrice di origini marocchine è l’anima e il braccio del Circolo Banfo in Barriera Milano, dove ragazzi e bambini in difficoltà trovano uno spazio sicuro per crescere

Kenza parla con due bimbi della scuola d'infanzia di Torino

Kenza parla con due bimbi della scuola d’infanzia di Torino – .

C’è un’altra resistenza, o una resistenza nuova. La portano avanti donne e uomini sconosciuti, tra le mille difficoltà del quotidiano, in un’Italia liberata dalla guerra e dal fascismo ma non dai nemici della convivenza civile e della democrazia: le mafie e l’illegalità, il razzismo e il pregiudizio verso il diverso, l’abbandono e il degrado delle periferie e degli ultimi, la violenza sulle donne e la cancellazione dei diritti. Polemiche e scontri politici offuscanoil significato di una data che è simbolo di lotta e riscatto dal male. Il Paese, alle prese con tanti problemi, esprime ancora queste forze. Avvenire in occasione del 25 aprile ha deciso di raccontare tre storie di “resistenti”: quella di Kenza che leggete qui sotto, quella di Pino col suo ristorante e la sua cooperativa sociale più forti delle minacce e delle intimidazioni e quella di Massimo Baroni, il padre della giovanissima Alba Chiara uccisa nel 2017 in Trentino dal suo ex fidanzato, impegnato in prima linea accanto alle donne nella lotta contro la violenza e per la parità.

avvenire.it

Fede e famiglia. «Pregare in coppia, ecco cosa abbiamo imparato in 25 anni»

Il sociologo Pietro Boffi rievoca la storia delle “Settimane nazionali di studi sulla spiritualità coniugale e familiare”, una svolta fondamentale per la pastorale della famiglia

La "Settimana di spiritualità coniugale e familiare" dell'Ufficio famiglia Cei in corso a Palermo

La “Settimana di spiritualità coniugale e familiare” dell’Ufficio famiglia Cei in corso a Palermo

Venticinque anni di storia della pastorale familiare in Italia sono passati attraverso un appuntamento particolare, le Settimane di spiritualità coniugale e familiare. Era la primavera del 1997 quando l’allora direttore dell’Ufficio famiglia, don Renzo Bonetti, affiancato dal presidente della commissione episcopale per la famiglia e la vita, il vescovo di Aosta, Giuseppe Anfossi, organizzò la prima edizione a Rocca di Papa, nella grande casa per esercizi spirituali di “Mondo Migliore” affacciata sul lago di Albano, proprio di fronte a Castel Gandolfo. C’erano molte incertezze sulla risposta delle diocesi. Da qualche anno non venivano organizzati convegni nazionali di pastorale familiare e l’idea di ripartire proprio dalla spiritualità non convinceva tutti. Qualcuno pensava che la proposta finisse per essere considerata un po’ estrema. Quasi che coltivare lo spirito fosse attività da lasciare ai consacrati e ai mistici, inadatta alla concretezza laicale delle famiglie. “Invece l’esperimento riuscì e 25 anni dopo siamo ancora qui, lungo il solco tracciato da quei pionieri della pastorale che evidentemente avevano colto nel segno”. Lo racconta il sociologo Pietro Boffi, padre e nonno, membro della Consulta Cei di pastorale familiare e collaboratore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia). Boffi non solo ha partecipato a tutte le 25 edizioni, ma con il teologo don Giancarlo Grandis, ha curato per una decina d’anni la preparazione delle schede emerse dai laboratori delle “Settimane”.

Chi lanciò la proposta di organizzare una Settimana di spiritualità per la coppia e per la famiglia?

Tra i promotori, il più convinto era don Gianfranco Fregni, allora direttore dell’Ufficio famiglia di Bologna. Un precursore della pastorale familiare. Era stato tra i fondatori del Centro di documentazione e promozione familiare «G.P. Dore», sempre a Bologna, e aveva fondato la rivista CLeF (Chiesa Locale e Famiglia), oltre ad aver scritto vari volumi e sussidi sulla spiritualità familiare. Don Renzo Bonetti, che da pochi mesi era stato nominato direttore dell’Ufficio nazionale, accolse con entusiasmo la proposta e riuscì a coinvolgere, oltre alle diocesi, tanti movimenti e associazioni familiari. Anche perché tutta la Chiesa lavorava in vista del grande Giubileo dell’Anno Duemila e don Bonetti ebbe la bella idea di proporre una trilogia di riflessione su Padre, Figlio e Spirito Santo in riferimento alla spiritualità coniugale e familiare. Fu un successo. Alla prima edizione del ’97 arrivarono a Rocca di Papa oltre mille persone, tra famiglie con bambini e studiosi.

Quale fu la formula vincente delle “Settimane”?

Quella di mettere a confronto per sette giorni famiglie impegnate nella pastorale familiare ed esperti. Non era soltanto un convegno – e neppure oggi lo è – ma era anche un’occasione per uno scambio culturale e umano che, a partire dalle relazioni, proseguiva poi per tutta la giornata. C’erano teologi, sociologi, psicologi ed altri esperti. E tantissime coppie con figli. I piccoli seguivano percorsi adatti alle diverse età, secondo un progetto organizzato. Non solo animazione ma proposte mirate e intelligenti. Il cosiddetto “Animatema di famiglia”. Anche questo fu un elemento decisivo per incentivare la presenza delle famiglie.

Come è cambiata la partecipazione delle famiglie in questi 25 anni?

Insieme alle varie coppie responsabili a livello regionale e diocesano, c’erano tante coppie provenienti dai movimenti di spiritualità coniugale. Presenze importanti dell’Equipe Notre Dame, di Incontro matrimoniale, del Rinnovamento nello Spirito, dei Focolari, del movimento Pro Familia, dell’Azione cattolica, che aveva allora un vivace settore famiglia, e di tante altre realtà. Con il tempo queste presenze sono un po’ venute meno. Forse perché i movimenti sono un po’ in crisi, forse perché si è deciso di puntare con maggior decisione sulla partecipazione delle famiglie legate alle varie diocesi

Cosa lasciano queste “Settimane” alle famiglie, a livello di crescita culturale e pastorale?

Fanno crescere certamente la consapevolezza sul ruolo della coppia e della famiglia nella Chiesa. E regalano profondi spunti teologici e pastorali. D’altra parte, lasciano anche una certa frustrazione perché si vede come il rinnovamento pastorale di base, parlo delle nostre parrocchie, va raramente di pari passo con gli stimoli che arrivano da questi incontri nazionali. È come se ci fosse uno scollamento tra la teoria teologica e pastorale, sempre molto coinvolgente, e le proposte di base. Credo che il marcato clericalismo e una certa impostazione tutta focalizzata sulla preparazione ai sacramenti abbia finito per rendere difficile l’apertura verso nuovi sbocchi. Qualche parliamo di “ministerialità della coppia” poi è sempre difficile capire come tradurre questo concetto nella pastorale ordinaria delle parrocchie.

Non è che le “Settimane” hanno offerto tanta teologia d’avanguardia e pochi spunti per la prassi pastorale?

Ma no, all’interno dei vari convegni c’è sempre stata la preoccupazione di fornire indicazioni pastorali concrete. Dopo le relazioni non sono mai mancati i gruppi di lavoro. E dai gruppi sono sempre uscite schede pensate proprio per far funzionare meglio la pastorale ordinaria. Un lavoro “pronto all’uso” che, certo, poi dev’essere portato nelle parrocchie e accettato.

In venticinque anni le “Settimane” hanno affrontato tanti temi importanti per la vita di fede delle coppie e delle famiglie. Oggi, parlando di pastorale familiare, qual è l’argomento che andrebbe approfondito con urgenza?

Credo la trasmissione della fede. Anche tra le famiglie “belle e buone” – una battuta, naturalmente, non esiste la famiglia ideale – che si occupano di pastorale familiare e frequentano, per esempio, la “Settimana” Cei e altri appuntamenti nazionali, ci sono molti casi complicati. Figli che non seguono i genitori, che rifiutano l’idea del matrimonio, che preferiscono attese infinite o che scelgono la convivenza. Se questo succede con “famiglie doc” è facile pensare che il problema sia avvertito in modo ancora più palpabile nel resto dei nuclei familiari. E sono questioni che ci interrogano e ci sollecitano a tentare nuovi percorsi.

avvenire.it

 

All’Istituto comprensivo 10 di Vicenza nessuno è straniero

L'articolo 34 della Costituzione, "La scuola è aperta a tutti" stampato sul banco

L’articolo 34 della Costituzione, “La scuola è aperta a tutti” stampato sul banco

All’Istituto comprensivo 10 di Vicenza, gli alunni sono 636; il 48 per cento è straniero. «Anche se “straniero” è una categoria generica» sottolinea la dirigente Maria Chiara Porretti. «Il 90%, infatti, è nato a Vicenza. Bisogna distinguere tra gli alunni “con cognome straniero” e i NAI, ovvero gli appena arrivati in Italia che in tutto l’istituto sono una ventina. Ne arrivano due al mese: loro sono gli unici veri stranieri perché non parlano italiano».

Che, poi, a ben vedere questa necessità di entrare nei particolari linguistici della vicenda si è posta solo dopo che il vicepremier Matteo Salvini, alla luce della chiusura della scuola di Pioltello il 10 aprile scorso per permettere ai ragazzi di partecipare alla festa di fine Ramadan, ha chiesto di mettere un tetto del 20 per cento di alunni stranieri nelle classi. Seguito a poca distanza dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Validatara che ha twittato così: “Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali iscritti nella Costituzione ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani”.

Ebbene, nell’IC 10 vicentino quello della Costituzione non è uno studio, «la Costituzione» ci spiega la vicaria Laura Trentin, «vive tra i banchi, è stampata sui banchi. Abbiamo scelto più di 20 articoli che sono sempre sotto gli occhi dei nostri alunni, vengono discussi, approfonditi e argomentati con i docenti. Valori che non studiamo in astratto, ma che cerchiamo di mettere in pratica». Oltre a tante altre scelte di responsabilizzazione che hanno fatto: «in primis quella delle aule disciplinari. Ogni classe non ha la sua aula, ma alla secondaria di primo grado – le vecchie medie per capirci – lavoriamo sugli ambienti di apprendimento. I ragazzi, così, sono responsabili delle ore che frequentano e imparano, mettendola in pratica, l’educazione civica. Già dalla secondaria di primo grado, poi, abbiamo introdotto i rappresentanti di classe. Ogni mese c’è un’assemblea di classe. Un modo per responsabilizzarli e dar loro fiducia».

All’esterno dell’istituto, sarà un caso o forse no, campeggia un murales dedicato ad Antenore, esule da un altro Paese, a cui è intitolata la scuola: «ecco perché abbiamo implementato il progetto musicale di alfabetizzazione per superare le differenze linguistiche. Ma, poi, diciamolo i problemi li creiamo noi adulti. Per i nostri alunni i compagni sono compagni e basta, italiani e stranieri che siano. Ed ecco perché il discorso di un tetto massimo non esiste: che fai l’alunno del palazzo a fianco lo mandi in un’altra scuola? Oltretutto è proprio grazie ai pari che nel giro di poco imparano l’italiano».

Certo una realtà così internazionale comporta un’organizzazione ferrea e delle risorse dedicate che nelle ristrettezze fanno i conti con lo scenario. «Per esempio i fondi del Pnrr per il potenziamento linguistico li dividiamo a metà tra l’inglese e potenziamento della lingua italiana». E un maggior lavoro dei docenti: «ma il viceversa di questo discorso è che il corpo insegnante è stabile. Perché chi è qui lo sceglie. È una realtà molto stimolante».

Famiglia Cristiana

Dietro la violenza online noia e apatia

Nell’ultimo periodo torna prepotentemente il tema delle challenge estreme, quelle che viaggiano sul social e nelle chat, da uno smartphone all’altro. Quelle che sembrano scherzi e bravate, ma che mettono a rischio la salute e l’incolumità dei più giovani.

Ed ecco tutti a puntare il dito contro la rete brutta e cattiva, ma quella rete la abitiamo noi, come un bosco fitto da attraversare dove lasciare i nostri figli. Qualche volta gli diciamo di stare attenti, senza neppure sapere bene a cosa.

La verità è che la sofferenza dei ragazzi è diventata un fatto di cui parlare, senza entrare nel merito e affrontare i tanti perché di questa rete impalpabile, ma che diventa un muro contro il quale sbattiamo con tutta la nostra ignoranza. A furia di sbattere forse capiremo di dover accogliere, non solo commentare, la sofferenza di questi ragazzi. Di capirla, accettare, di dare loro punti di riferimento, ascolto e presenza. Anticorpi fondamentali per qualsiasi virus presente nel web. Il loro conforto è il web, con le chat, i social e la possibilità di trovare sempre qualcuno. Non importa chi o perché, basta non sentirsi soli, in preda alla noia. Un limbo dentro il quale vivono migliaia di ragazzi, che si rifugiano nel presente perché spaventati dal futuro.

Propria la noia, assieme alla solitudine, è una delle cause più frequenti alla base del cyberbullismo e della violenza online. Un fenomeno che oggi condiziona tre adolescenti su quattro, più o meno coinvolti in episodi legati all’utilizzo scorretto o inconsapevole del web. Un dato superiore al trend fotografato dal Censis prima della pandemia.

Di virtuale, però, non c’è nulla nella sofferenza, soprattutto online. Perché in Rete il disagio cresce e si amplifica: una foto o un video possono diventare virali in pochissimo tempo. Ballare, viaggiare, vivere pienamente la vita e gli affetti aiutando a scongiurare quel malessere che spinge tanti ragazzi, in buona parte sotto i 14 anni, ad abitare il mondo digitale in maniera distorta. Servono regole condivise e presenza educativa, prerogativa indispensabile per consentire alle giovani generazioni di spiegare le ali e tornare a sognare.
Famiglia Cristiana