Saluto Operatori Pastorali UP a don Daniele

RADICATI IN CRISTO E AL SERVIZIO DELLA CHIESA

All’annuncio della tuo trasferimento ci siamo sentiti smarriti e inizialmente abbiamo espresso il nostro disappunto. Domenica scorsa, nel salutarti, abbiamo invece lasciato prevalere la gratitudine e i tanti motivi di ringraziamento. … Oggi, come tu ci hai chiesto, vogliamo lasciarti andare, non trattenerti, accompagnarti… E per farlo dobbiamo allargare lo sguardo, spostare lo sguardo dal campanile alla Chiesa tutta: dobbiamo guardare a quella Chiesa che ami e servi, che ci hai insegnato ad amare e servire, alla Chiesa per la quale hai detto, e ora rinnovato, il tuo sì.La presenza questa sera della tua famiglia, della tua comunità di origine, del tuo parroco, del parroco emerito di questa comunità – e li ringraziamo per aver accolto il nostro invito – ci aiutano ad allargare il nostro sguardo a tutta la Chiesa.Anche il nostro essere qui, al di là del rappresentare i diversi impegni e servizi nell’ambito della comunità, vuole essere un momento di Chiesa, la testimonianza di una Chiesa tutta ministeriale. Anche noi dobbiamo chiedere perdono: per tutte le volte che non siamo stati capaci di andare oltre il nostro campanile, oltre il nostro io, oltre le nostre idee, per non aver saputo corrispondere al tuo invito, accogliere il tuo esempio, dire il nostro Sì. Nel giorno del tuo ingresso abbiamo affidato a San Daniele Comboni, un missionario, il tuo ministro presso di noi.Ora che ti attende un nuovo impegno pastorale, per sua intercessione ti affidiamo al Signore, sapendo che in Lui non ti perderemo.

Gli operatori pastorali dell’UP Santi Crisanto e Daria

Vaticano Kraeutler al Sinodo: uomini sposati ordinati e donne diacono

askanews

Mons. Erwin Kraeutler, missionario austriaco nell’Amazzonia brasiliana, prelato emerito di Xingu, torna a parlare del suo incontro con Papa Francesco avvenuto il 4 aprile del 2014, in occasione del briefing quotidiano del Sinodo panamazzonico, e spiega il suo punto di vista sull’annosa questione dell’ordinazione di uomini sposati.”Ritorniamo al 4 aprile 2014: prima della Laudato si’ ho incontrato il Papa quale segretario della commissione episcopale per l’Amazzonia”, ha risposto il presule in risposta alle curiosità dei giornalisti. “Tre punti avevo presentato al Papa: l’Amazzonia la distruzione, le minacce di essere rasa al suolo; i popoli indigeni; e l’eucarisita. Ci sono migliaia e migliaia di comunità in Amazzonia che non hanno l’eucarisita se non una due o tre volte l’anno. Ma l’eucaristia per noi è il cardine

Tradizioni. In Basilicata, tra i paesi del pane

Lo scrittore Raffaele Nigro rievoca i sapori dell’infanzia: «Quel pane raffermo di mamma io lo trovavo squisito come base di un piatto povero quanto la camicia di Gesù, il pancotto con rape e patate»

Fornai che portano la massa nel forno

Fornai che portano la massa nel forno

Avvenire

Uno stralcio del racconto scritto da Raffaele Nigro per “Pantagruel”, la nuova rivista quadrimestrale della Nave di Teseo, fondata da Elisabetta Sgarbi ed Enrico Ghezzi, che ospiterà testi inediti di autori italiani e internaziona-li, in numeri monografici dedicati a temi che intrecciano arti, discipline, saperi, e che sarà distribuita in libreria dal 17 ottobre (pagine 270, euro 19). Il numero zero, a cura di Elisabetta Sgarbi e Vincenzo Santochirico e in collaborazione con la Fondazione Sassi di Matera, è dedicato al pane e alla cultura materiale, a partire dal grano e dal pane, radici della cultura mediterranea.

Il pane dalle mie parti, pur continuando ad avere un sapore speciale non è più il pane dei tempi passati. Perché la materia prima non è più la stessa. Traccerò una storia di questo pane in poche battute, sperando che le mie parole non facciano desistere dal venire a visitare lo sprofondo di Matera, le alture rocciose delle Dolomiti Lucane, l’acqua cristallina di Maratea e del Cilento e la bellezza architettonica del rinascimento normanno- svevo, intorno a Melfi e al Vulture e nelle straordinarie cattedrali romaniche della costiera adriatica. Ricordo che nel 1948, quando da poco mio padre era tornato dalla guerra, dopo sette anni di prigionia tra Bombay, Madras e Liverpool, ci furono scioperi a catena e occupazioni di terre al grido di “Pane e lavoro!”. Da noi si occuparono i latifondi dei Doria e, se papà finì alla sbarra con molti altri braccianti, altrove ci furono morti, tra cui i giornalieri Rocco Girasole e Nunzia Suglia. Tra i ribelli nelle terre dei Berlingieri e dei Sanseverino, c’erano a vario titolo anche Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Eugenio Colorni e Manlio Rossi Doria. Questi ultimi erano stati confinati quaggiù dal fascismo ed erano rimasti affascinati dalla cultura del nostro mondo e colpiti dal ritardo, dalla miseria e dalla distanza del Governo centrale. Perciò tornarono al sud, per aiutarlo a farsi economicamente un po’ più nord. Ricordo quando mio padre Antonio preparava nel magazzino con nonno Raffaele montagne di grano lavandolo col verderame. Poi lo si caricava sul traino e lo si trasportava nelle quote di Facciarsa, di Vaccareccia e di Camarda per la semina. 

Erano pianure che circondavano l’Ofanto, nel tempo della Magna Grecia e della colonizzazione romana avevano ospitato delle ville imponenti, abitate da Quinto Orazio Flac- co e attraversate da Annibale e nell’XI secolo dai Bizantini di Basilio Bojoannes. Non cresceva molto frumento, perché per secoli erano diventati latifondi delle ricche famiglie principesche, tuttavia la Riforma fondiaria, che aveva realizzato tanti poderi e divise le terre tra i reduci della guerra, aveva portato almeno la possibilità di sconfiggere la fame. Mio padre vendeva il grano che coltivava, lui piantava soprattutto il Senatore Cappelli, ma una parte lo portava al mulino e faceva farina per noi e per i nonni. Sentivo di notte mia madre, Teresina del Bambino Gesù, scavare nel sacco della farina e impastare nella madia. Mi restano nella memoria i verbi urlati nottetempo in strada dal fornaio: «Teresì alzati ch’è giorno, spiana, impasta, prepara le pagnotte». Gino il fornaio passava con un lungo asse in spalla sul quale mia madre collocava due forme gigantesche di pane, le chiamavamo vuciulatedd. Sulla parte convessa scriveva una n o una t con un cingolo di farina, Nigro o Teresina, tracciava una croce col coltello, per riconoscerlo tra tanti. Era un pane profumatissimo, che durava mezzo mese, ma che diventava duro negli ultimi giorni. 

Confesso che io preferivo il pane bianco che vendevano le salumerie, sempre morbido e croccante perché fatto col fiore della farina e, quando me ne andai a studiare all’università ed ebbi il primo lavoro, il pane di Roma e di Bari rispose pienamente a quel mio gusto di morbido e aristocratico. Un pane metropolitano. Mia madre sapeva come fosse soggetto quel suo pane a farsi compatto, nonostante il lievito naturale e allora per far sentire in casa la festa della panificazione faceva una focaccia speciale, arrotolata, il cuclos, oppure una sfogliata ricca di pomodoro, acciughe, origano e olio. Una leccornia che non ho trovato mai da nessuna parte del mondo, neppure a Napoli o in Puglia, dove i fornai sono maestri nel preparare focacce con farina di grano, di patate e pomodori. Tuttavia quel pane raffermo di mamma io lo trovavo squisito come base di un piatto povero quanto la camicia di Gesù, il pancotto con rape e patate, un filo d’olio, due peperoni cruschi. Devo anche dire che noi quel pane non lo mettevamo mai a faccia in giù, per rispetto a Cristo, e se eravamo costretti a buttarne qualche pezzo diventato legnoso, lo si baciava e si chiedeva perdono al cielo con un segno di croce.