L’amore in perdita, senza calcoli, della vedova povera. Commento al Vangelo Domenica 11 Novembre 2018

XXXII Domenica
Tempo Ordinario
Anno B

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Il brano è costruito come una contrapposizione tra gli scribi, i teologi ufficiali potenti e temuti, e una donna senza nome, vedova e povera, senza difese e senza parole, che però detta la melodia del vivere, maestra di fede. Donna nel bisogno, e per questo porta di Dio, breccia per il suo intervento. Nella Bibbia, vedove, orfani e stranieri, compongono la triade dei senza difesa. E allora è Dio che interviene prendendo le loro difese, entrando negli interstizi del dolore.
Gesù ha sempre mostrato una predilezione particolare per le donne sole. Al tempio, questa maestra senza parole, che non ha titolo per insegnare, che ha solo la fede e la sapienza del vivere che sa di pane e di lacrime, raccolta tra le pieghe dolenti della vita, scalza dal pulpito i sacerdoti, dalla cattedra i teologi, per una lezione fondamentale: abitare il mondo non secondo il criterio della quantità, ma del cuore.
Venuta una vedova, povera, gettò in offerta due spiccioli. Gesù se n’è accorto, unico; osserva e nota i due centesimi: sono due, è importante notarlo, poteva tenersene uno e dare l’altro. Gesù vede che la donna dà tutto, osserva il suo gesto totale. Allora chiama a sé i discepoli, per un insegnamento non morale ma rivelativo. Accade qualcosa d’importante: Questa povera vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Lo stupore per quel gesto nasce dall’aver intuito un di più, uno scialo, uno sciupìo di cuore, un eccesso che esce dal calcolo e dalla logica.
Lo stupore scombina il circolo della polemica, suggerendo che c’è anche dell’altro da guardare, molto altro oltre le ricche offerte dei ricchi. Lo sguardo di Gesù mette a fuoco i dettagli: il divino si cela in un gesto di donna, l’annuncio si nasconde nel dettaglio di due centesimi. Piccole cose che non annullano il duro scontro in atto, ma indicano la possibilità, la strada di una religione dove non tutto sia calcolo, che suggeriscono una possibilità: si può amare senza misura, amare per primi, amare in perdita, amare senza contraccambio. Il Vangelo ama l’economia della piccolezza: non è la quantità che conta, ma l’investimento di vita che metti in ciò che fai. Le parole originarie di Marco qui sono bellissime: gettò intera la sua vita. Che risultati concreti portano i due centesimi della vedova? Nessun risultato, nessun effetto per le belle pietre e le grandi costruzioni del tempio. Ma quella donna ha messo in circuito nelle vene del mondo molto cuore e molta vita.
La santità? Piccoli gesti pieni di cuore. Ed è così, perché ogni gesto umano compiuto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio. Ogni atto umano “totale” contiene in sé e consegna qualcosa di divino.
(Letture: 1 Re 17,10-16; Salmo 145; Ebrei 9,24-28; Marco 12, 38-44).

di Ermes Ronchi – Avvenire

Attuando il concetto della Chiesa in uscita anche il pensiero cristiano deve rimodularsi per non tradire l’eredità preziosa della Rivelazione ed evitare di trasformarsi in qualcosa di irrilevante

La teologia in uscita, missione della modernità

Nella costituzione apostolica Veritatis gaudium (2018), Papa Francesco sottolinea che gli studi ecclesiastici, nello spirito di una «Chiesa in uscita», sono chiamati oggi ad approfondire il dialogo con le scienze (n. 5). L’esortazione non è certamente nuova, se solo pensiamo che il Concilio Vaticano II ha incoraggiato la teologia a dialogare coi vari ambiti del sapere ( Gaudium et spes, 62; Optatam totius, 15). Francesco, tuttavia, va ben al di là di una semplice raccomandazione o di una dichiarazione di principio: invita a coinvolgere il lavoro teologico nello stesso dinamismo trasformante dell’evangelizzazione, per renderlo espressione di servizio e di comunione con l’altro.

Le periferie alle quali la Chiesa in uscita deve dirigersi, infatti, sono anche gli ambiti del sapere ove la Parola non è ancora risuonata, oppure vi è risuonata ma non ha ancora preso su di sé la carne delle nuove conoscenze, non è ancora divenuta forma di sintesi convincenti. La Chiesa oggi necessita di una ‘teologia in uscita’ in grado d’intessere relazioni significative col mondo della vita e della cultura, a servizio dell’intelligibilità di una Parola che a tutti è destinata. Secondo Papa Francesco gli studi ecclesiastici, in forma peculiare, «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo» ( Veritatis gaudium, 3). Essi, anzi, sono chiamati a incentivare tale specifico ruolo. E ciò per una triplice convergente ragione: il cambiamento d’epoca segnato da una complessiva crisi antropologica e socio-ambientale; la necessità di un «radicale cambio di paradigma» se non in fin dei conti di «una coraggiosa rivoluzione culturale », tesa a un pertinente ed efficace affronto di tale situazione; il comune impegno a «costruire leadership che indichino strade».

Si può dire che la posta in gioco a motivo del «cambiamento d’epoca » oggi in atto impone in primis alla teologia, ma insieme a tutte le discipline previste negli studi ecclesiastici, una decisa e per molti versi ancora in fieri assunzione della forma e dello stile di configurazione e d’esercizio propiziati dal Vaticano II e dall’onda profonda del processo da esso innescato. Papa Francesco descrive tale compito in questi termini: «Si fa oggi sempre più evidente che c’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ra- gione e di fede. (…) Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo» (ibid.).

Di qui il criterio epistemologicamente ed accademicamente forse più esigente che egli propone nella Veritatis gaudium per raggiungere tale obiettivo. In un tempo che, con la crisi della modernità anche a livello di coscienza epistemologica e con la conseguente tentazione pendolare di consegnarsi o alla resa (spesso tutt’altro che tollerante) della post-verità o alla resistenza (anch’essa violenta, perché disperata) del fondamentalismo, occorre ribadire la possibilità, come già indicava Giovani Paolo II nella Fides et ratio, anzi la necessità vitale di «giungere a una visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo [ormai l’attuale] millennio cristiano» (n. 85).

Il compito è senz’altro arduo, ma epocalmente decisivo. E sottrarvisi significherebbe non solo non onorare l’eredità preziosa e incalzante della Rivelazione, ma, di fatto, rendere la performance del sistema degli studi ecclesiastici di più in più irrilevante. La stimolante e orientatrice indicazione che la Veritatis gaudium offre in proposito è quella che indirizza l’interpretazione e la gestione del principio di interdisciplinarietà non alla sua «forma ‘debole’ di semplice multidisciplinarietà » in prospettiva per così dire orizzontale, quanto piuttosto alla sua «forma ‘forte’ di transdisciplinarietà, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio», in prospettiva per così dire verticale, aperta e fondata cioè nel farsi presente della trascendenza di Dio alla storia dell’uomo in Cristo (4c).

Come una ‘teologia in uscita’, che si faccia responsabilmente carico di questa urgente e impegnativa missione, possa operare e servire non è sempre facile da individuare e ancor più da realizzare. Per questo vanno seguite con interesse quelle proposte che cercano di presentare la teologia come un corpo di conoscenze che si lasciano provocare dall’uomo contemporaneo, adoperandosi per offrire risposte sensate e credibili alle domande che egli pone. Da vari decenni, la teologia fondamentale sviluppata nelle opere di don Giuseppe Tanzella-Nitti rappresenta uno di questi riusciti tentativi, in particolare a partire dalla pubblicazione del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede (2002). Il progetto di una Teologia fondamentale in contesto scientifico, che vede ora edito il suo terzo volume: Religione e Rivelazione, non intende semplicemente aggiungere nuovi saggi al tema del dialogo fra teologia e scienze su specifici argomenti di frontiera, già presenti nella produzione di altri filosofi o teologi. Siamo piuttosto di fronte, in felice sintonia con quanto chiede la Veritatis gaudium, al programma architettonicamente costruito di sviluppare un intero trattato teologico avendo come interlocutore l’uomo di scienza, ovvero gli uomini e le donne del nostro tempo il cui modo di pensare – di fatto – è forgiato dalla cultura scientifica. A essi una ‘Chiesa in uscita’ dirige oggi l’annuncio del Vangelo.

Foglietto Letture e Salmo XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Grado della Celebrazione: DOMENICA Colore liturgico: Verde

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Gesù contrappone qui due tipi di comportamento religioso. Il primo è quello degli scribi pretenziosi che si pavoneggiano ed usano la religione per farsi valere. Gesù riprende questo atteggiamento e lo condanna senza alcuna pietà. Il secondo comportamento è invece quello della vedova povera che, agli occhi degli uomini, compie un gesto irrisorio, ma, per lei, carico di conseguenze, in quanto si priva di ciò di cui ha assolutamente bisogno. Gesù loda questo atteggiamento e lo indica come esempio ai suoi discepoli per la sua impressionante autenticità. Non è quanto gli uomini notano che ha valore agli occhi di Dio, perché Dio non giudica dall’apparenza, ma guarda il cuore (1Sam 16,7). Gesù vuole che guardiamo in noi stessi. La salvezza non è una questione di successo, e ancor meno di parvenze. La salvezza esige che l’uomo conformi le azioni alle sue convinzioni. In tutto ciò che fa, specialmente nella sua vita religiosa, l’uomo dovrebbe sempre stare attento a non prendersi gioco di Dio. Scrive san Paolo: “Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato” (Gal 6,7).
Il Signore chiede che si abbia un cuore puro, una fede autentica, una fiducia totale. Questa donna non ha nulla. È vedova, e dunque senza appoggio e senza risorse. È povera, senza entrate e senza garanzie. Eppure dà quello che le sarebbe necessario per vivere, affidandosi a Dio per non morire. Quando la fede arriva a tal punto, il cuore di Cristo si commuove, poiché sa che Dio è amato, e amato per se stesso. L’avvenire della Chiesa, il nostro avvenire, per i quali le apparenze contano tanto, è nelle mani di questi veri credenti.

La comunione al calice

settimananews

In un frammento a commento di 1Cor 2,13: πνευματικοῖς πνευματικὰ συγκρίνειν, accostare cose spirituali a cose spirituali, Origene di Alessandria (prima metà del III secolo) così spiegava l’espressione paolina: «Come si venga istruiti dallo Spirito lo si deve capire dalle parole di Paolo:accostando cose spirituali a cose spirituali. A forza di esaminare una parola con un’altra e di riunire i passi simili, si svela il senso della Scrittura. Così infatti comprendo le cose di Dio e divengo istruito dallo Spirito».

Il passo di Paolo diventava così per lui un principio ermeneutico affine, oltretutto, alla regola giudaica detta gezārah šhawāh, un principio a cui il maestro alessandrino si sarebbe richiamato di continuo al momento di interpretare singole parole o segmenti di testo, al fine di giustificare il ricorso a numerosi altri passi scritturistici mediante la cui orchestrazione diventava possibile ricavare quella inesauribile pluralità di significati che rende così ricco e, al tempo stesso, filologicamente rigoroso il suo lavoro interpretativo.[1]

Tutta la grande tradizione patristica ha fatto propria questa regola, che postula di interpretare la Scrittura con la Scrittura. Applicandola alle parole pronunciate da Gesù per benedire il calice nel contesto dell’ultima cena, non è di poco valore ciò che si può ricavare.

Quando Gesù ha benedetto il vino ha usato un’espressione assai articolata, ovviamente differente da quella usata per benedire il pane, certo consapevole di avere di fronte due realtà diverse, per nulla sovrapponibili.

Penetrando nel significato di ognuno dei termini presenti nella formula divenuta nella chiesa consacratoria del calice, si rileva una loro strettissima connessione con lo Spirito Santo.

Vediamoli singolarmente.

Innanzitutto l’invito a bere: in Mt 26,27 si legge: bevetene (πίετε) tutti… Lo stesso verbo si trova in 1Cor 12,13 dove Paolo afferma: tutti fummo abbeverati (ἐποτίσθημεν) in uno stesso Spirito e in 1Cor 10,4 che recita: tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e tutti bevvero (ἔπιων) la stessa bevanda spirituale, bevevano (ἐπινον) infatti ad una pietra spirituale….

Poi il riferimento alla nuova alleanza. Gesù dice in Lc 22,20: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue … e in Ger 31,31 compare il medesimo binomio: «nuova alleanza», che in Ez 36,26-27ha come segno specifico il dono dello Spirito: porrò il mio Spirito dentro di voi;

Quindi il testo prosegue: Mc 14,24: sparso… il verbo è ἐkcunnόmenon, che si ritrova in Rm 5,5: la carità di Dio è sparsa (ἐkkεcuτχαι) nei vostri cuori per lo Spirito che vi è stato dato. E anche in Att2,17 dove Pietro ripropone la profezia di Gioele (Gl 3,1) ritroviamo il medesimo verbo: ecco verranno giorni, io spargerò (ἐκχεῶ) il mio Spirito su tutti e profetizzeranno… E ancora in Tt 3,6: Lo Spirito Santo Dio lo ha sparso (ἐξέχεεν) su di noi a profusione per mezzo di Gesù Cristo. Quindi il verbo del dono dello Spirito, che traduciamo con effondere o spargere, è quello che Gesù usa per indicare che cosa fa del suo sangue: sangue sparso….

Ed aggiunge: Mt 26,28: in remissione dei peccati (εἰϛἄφεσινἁμαρτιῶν). E in Gv 20,23 si dichiara che il dono dello Spirito è collegato alla remissione dei peccati: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi a chi li riterrete saranno ritenuti… Anche in Eb 9,14 il sangue è connesso con lo Spirito:quanto più il sangue di Cristo che con uno spirito eterno (cf. nota Bibbia di Gerusalemme: con lo Spirito Santo) offrì se stesso…, espressione che P. Vanhoye spiega: «Cristo ottiene l’unione dello Spirito con il proprio sangue… a causa di questa unione il sangue di Cristo toglie i peccati» (cf. anche Eb 13,12 dove si afferma che senza effusione di sangue non c’è remissione dei peccati).

Ma anche il vino – menzionato nella formula liturgica e implicitamente indicato nel «calice» nominato nei testi evangelici – è connesso allo Spirito. In Gv 2,9 quando si dice che i servi portano a tavola il vino del miracolo, si afferma che il capo del banchetto non sapeva di dove (πόθεν)venisse… e al capitolo seguente, in Gv 3,8, Gesù rivela a Nicodemo che Lo Spirito soffia dove vuole e non si sa da dove (πόθεν) viene né dove va. Quindi nella Scrittura sia il vino sia lo Spirito sono realtà che non si sa «da dove» vengono. In Gv 2,4 poi, Gesù si rifiuta di dare il vino perché, dice: la mia ora non è venuta così come in Gv 7,39 si afferma che non c’era ancora lo Spirito perché non era ancora stato glorificato, ossia non era ancora arrivata la sua ora.

Da questa analisi si può dunque ricavare che tutta la terminologia usata nella formula della consacrazione del vino è connessa allo Spirito santo, quasi a voler mostrare che nell’Eucaristia si ricevono due doni: il Figlio e lo Spirito (le «due mani del Padre», secondo Teofilo d’Antiochia e Ireneo di Lione), rispettivamente nel segno del pane e nel segno del vino: se si deve dare valore ai segni – e la Chiesa invita a farlo – si deve ammettere che, nella celebrazione eucaristica, solo il segno del pane è dato ai fedeli, il segno del vino invece è riservato al celebrante, di solito i fedeli non lo ricevono: un’omissione che, oltre a privare i fedeli del dono dello Spirito, tradisce – e forse ciò è ancora più grave – la volontà espressa dal Signore Gesù.

Tanto più che durante la celebrazione i celebranti continuano a pronunciare espressioni che, a motivo di tale omissione, risultano menzognere:

Preghiera eucaristica I:

«… su tutti noi che partecipiamo di questo altare, comunicando al santo mistero del Corpo e Sangue del tuo Figlio…»

Preghiera eucaristica II:

«… per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca…»

Preghiera eucaristica III:

«… a noi che ci nutriamo del Corpo e Sangue del tuo Figlio dona la pienezza dello Spirito Santo…»

Preghiera eucaristica IV:

«… a tutti coloro che mangeranno di quest’unico Pane e berranno di quest’unico Calice…»

Tra gli autori cristiani antichi che possono confermare l’interpretazione qui esposta, mi limito a riportare un passo di Ambrogio, Sacramentis V,17: «La giocondità del comunicarsi non viene turbata dalle macchie di nessuna colpa. Infatti tutte le volte che bevi di questo vino, i tuoi peccati ti sono perdonati e ti inebri dello Spirito. Per questo anche l’Apostolo dice: Non ubriacatevi di vino, ma siate ricolmi di Spirito (Ef 5,18)».


[1] Cf. anche CMt X,5: «[vanno messe a confronto] non cose che non possono essere confrontate, bensì cose confrontabili e che abbiano una qualche somiglianza di parola, che indichi la stessa cosa e di concetto e di dottrina per stabilire e confermare ogni parola di Dio con la bocca di due o tre o anche più testimoni tratti dalle Scritture». Mi permetto di rinviare al mio Il Paolo di Origene.Contributo alla storia della ricezione delle epistole paoline nel III secolo, in “Verba Seniorum N.S.” 11, Roma 1992, pp. 117-123.

Il “Padre nostro” e la tentazione

Dunque, a dieci anni della traduzione Betori, la CEI dovrebbe decidere a fine novembre se introdurre o no nella recita liturgica del Padre nostro la variante finale: invece di «non c’indurre in tentazione», «non abbandonarci alla tentazione».

Abbondanti discussioni hanno accompagnato la comparsa della nuova traduzione, la quale tenta di superare la sinistra impressione della precedente che calca direttamente in italiano la traduzione latina di san Girolamo – ne nos inducas in tentationem –, col rischio evidente e temuto di far pensare che sia Dio stesso a indurre l’uomo in tentazione mettendolo così a rischio di peccato.

Ma questa nuova traduzione, appunto “non abbandonarci alla tentazione”, oltre a non dar conto del testo letterale, non evita neppure quel rischio teologico che manterrebbe nel cuore del Nuovo Testamento la concezione presente talvolta nell’Antico Testamento secondo cui tutto sarebbe opera di Dio, tanto il bene quanto il male, tanto la vita quanto la morte, quasi esentando così l’uomo dalla propria responsabilità.

Ne viene fuori, invece, a mio modesto parere, una specie di inutile compromesso, tanto lessicale quanto teologico: lessicale, perché snatura il senso del verbo eisfero (da cui eisenenkes) che significa “mettere, portare, indurre» e non “abbandonare”; teologico, in quanto non salva dal rischio di fermarsi o tornare al Vecchio Testamento, quello appunto dell’idea che talvolta vi emerge di un Dio che “fa fare il male”, visto che potrebbe – se volesse – abbandonarci alla tentazione. Condizione che poi sembra essere qualcosa di anonimo e fatalistico.

Tentazione o prova?

D’altra parte, è facile notare che il concetto del Dio che fa tutto – il bene e il male – non è poi così dominante nell’AT: basti pensare all’insistente avvertimento, tanto in Geremia quanto in Ezechiele, a non ripetere più il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l’uva acerba e ne sono rimasti allegati i denti ai figli». La colpa è sempre soltanto responsabilità personale del singolo, da non attribuire ai padri e tanto meno a Dio.

Allora, che valore può avere quello stico di preghiera insegnata autorevolmente da Gesù? Da correggere o da tenere?

La mia proposta è di tradurre questa domanda del Padre nostro, sesta secondo Matteo e quarta secondo Luca, semplicemente e onestamente con «non metterci alla prova», traduzione rispettosa del lessico del testo e quindi teologicamente “giusta”, visto che non tocca a noi moderni “aggiustare” a nostro gusto il linguaggio di Gesù testimoniato da Matteo e Luca. Certo sì, impegnandosi a interpretarlo correttamente, ma senza forzature. Cosa che proverò a fare collocando quel passo nel contesto dei vangeli sinottici e del resto del NT, in pratica riferendosi ai testi analoghi di Ebrei (4,15 e 2,18) e di Giacomo (1,2-18).

Riferimento di base per capire il senso di peirasmòs (e del relativo verbo peirazo), reso in latino con tentatio – tentare, è l’episodio o il quadro teologico delle cosiddette “tentazioni” di Gesù. Dove appare, in maniera diversificata e tuttavia convergente in Marco, Matteo e Luca, che si tratta più genericamente di prova e non specificamente di tentazione con l’intento di induzione al male e, in secondo luogo, appaiono più o meno in evidenza il ruolo di Dio e quello di satana.

Racconta Marco che, dopo il battesimo di Gesù al Giordano, «subito lo Spirito lo mandò (lett. cacciò o spinse) nel deserto; e nel deserto stava quaranta giorni e quaranta notti, e veniva tentato (peirazòmenos) da satana; stava con le bestie e gli angeli lo servivano» (1,12-13). Matteo riferisce che «allora (dopo il battesimo al Giordano) Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. E, avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. E, avvicinandosi, il tentatore gli disse…». Il racconto si conclude narrando che il diavolo lascia Gesù che ha respinto le tre tentazioni – o superato le tre prove – e vengono gli angeli a servirlo.

tentazioni

Duccio di Buoninsegna, Gesù tentato nel deserto.

Lo Spirito, il diavolo, il deserto

Matteo dunque aggiunge l’interpretazione teologica della dinamica delle “tentazioni” di Gesù, specificando che è lo Spirito Santo a condurlo nel deserto proprio per essere tentato dal diavolo. Dunque, l’attività messianica di Gesù, che è iniziata – quasi inaugurata – col battesimo al Giordano, va tutta sotto il segno della prova, la quale culminerà con l’agonia o lotta nel Gethsemani e la morte in croce drammaticamente vissuta con la protesta desolata, ma non disperata: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?»(27,46).

La prova è superata, ma a quale prezzo! Comunque Gesù aveva chiesto insistentemente di esserne liberato, anzi di non essere messo alla prova della passione (26,36-46). E in quella circostanza esortava con altrettanta insistenza Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli, testimoni non proprio attenti della sua drammatica “agonia”, a «vegliare e pregare per non entrare in tentazione (forse meglio: per non cadere nella prova)».

L’interpretazione teologica è leggermente diversa in Luca nella narrazione delle “tentazioni”, non in quella dell’agonia nell’orto in riferimento alla tentazione per i discepoli. «Gesù pieno di Spirito Santo ritornò dal Giordano e venne portato dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni tentato dal diavolo» (4,2). Si nota che, mentre Marco parla di tentazioni senza specificare da chi vengano, Matteo le attribuisce al diavolo, all’incontro col quale Gesù è detto espressamente condotto (anèchthe) dallo Spirito Santo, e Luca parla di azione (ègheto) dello Spirito su Gesù che nel deserto viene tentato dal diavolo, senza annettere un collegamento esplicito tra l’azione dello Spirito in vista di quella del diavolo. Pone soltanto un collegamento narrativo di fatto, come farà nel racconto pasquale per il collegamento tra passione e risurrezione: non “dovette patire per entrare nella gloria”, ma “patì ed entrò nella gloria”.

L’altra notevole differenza del racconto lucano sta nel finale della pericope delle tentazioni: «Avendo concluso (o completato) ogni tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù fino al tempo (stabilito)» (4,13). Tempo che verrà quando satana entrerà in Giuda perché si accordi per la consegna di Gesù ai capi dei giudei (22,3).

Il collegamento delle “tentazioni” – se le si vuole considerare un episodio in senso proprio e non (solo) un quadro teologico – con la passione è netto invitando dunque esplicitamente a leggere tutta la vicenda messianica di Gesù sotto il segno della prova. Prova che, secondo il terzo vangelo, appare nel finale pienamente vinta o superata per il fatto che Gesù muore invocando il perdono per i suoi uccisori (e siamo tutti!) e consegnandosi filialmente e fiduciosamente nelle mani di Dio suo Padre.

In questo duplice atteggiamento consiste la vittoria di Gesù e, insieme, la nostra salvezza, quella da cui satana tenta dal principio di distoglierlo, facendo leva sulla proposta di dimostrare la sua filiazione divina con gesti di potenza e non di donazione.

La vita come prova

Come vita vissuta sotto il segno della prova di fedeltà a Dio per la nostra salvezza, l’esistenza umana del Figlio di Dio diventato nostro fratello in Gesù lo ha reso «in tutto provato come noi, eccetto il peccato» (3,9) e così in grado di aiutare coloro che sono messi alla prova (2,18).

Questa sintetica lettura teologica della lettera agli Ebrei è un aspetto fondamentale della tesi soteriologica dell’intero scritto, secondo il quale Gesù ci salva perché non soltanto non si è vergognato di chiamarsi nostro fratello (2,11-12), essendosi fatto ontologicamente in tutto uomo come noi, ma ha condiviso pure del tutto la nostra condizione di creature segnate dal peccato, superando a favore nostro la tentazione originaria col vivere pienamente la consegna al Padre nella fede e nell’obbedienza. In questa lettera non si fa cenno al diavolo, dunque la prova per Gesù viene direttamente da Dio? Dunque si può dire così anche per noi?

Toccherà a Giacomo spiegare che comunque Dio non ama mettere alla prova nessuno, almeno non tentare al male. O, meglio, se pure la prova fa parte della sua azione provvidenziale sull’uomo, non è mai da considerare tentazione per il male.

Nella dinamica della prova o tentazione non è chiamato in questione neanche satana, ma “soltanto” la concupiscenza, quella che consegue al peccato (d’origine) e porta al peccato (personale) e quindi alla morte. Anzi, sembra porsi già all’origine della storia del peccato e quindi, in qualche modo, fa parte della condizione dell’uomo, come prova legata alla sua natura di essere creato, chiamato ad accettare tale condizione nella fiducia circa la bontà del creatore, da non fuggire per gelosia ma da lodare nella riconoscenza e filialmente obbedire.

Un progetto di amore

Ma ecco il testo che ho fin qui cercato di interpretare: «Considerate gioia totale, fratelli miei, quando subite varie tentazioni, sapendo che la prova della vostra fede realizza la pazienza», e la pazienza porta a perfezione l’opera intera della salvezza. Quindi è «beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché quando sia stato provato, riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano. Nessuno, quando viene tentato, dica che viene tentato da Dio: Dio infatti non è tentatore di atti cattivi, e infatti non tenta nessuno. Ciascuno invece è tentato in quanto attratto e sedotto dalla sua concupiscenza. Quando la concupiscenza ha concepito, genera il peccato; il peccato poi, quando è portato a termine (consumato), genera la morte… Ogni dono perfetto viene dal Padre delle luci,… che ci ha generato di sua volontà con la parola della verità per essere noi in qualche modo inizio delle sue creature» (1,2-18).

Dunque la prova, che si identifica di fatto con la vita, è per se stessa positiva, non istigazione per il male ma occasione per il bene e dunque per la felicità da raggiungere osservando la legge regale di libertà, cioè quella dell’amore.

La prova o tentazione legata alla concupiscenza, cioè al desiderio di conquistare la posizione di Dio (la scienza del bene del male), non accogliendola invece come dono di grazia, è sempre un rischio per tutti e per ciascuno dei figli di Adamo. Per questo non è inutile, e tanto meno vuota di significato, la preghiera a Dio Padre perché “non ci metta alla prova, ma ci liberi dal maligno”.

Queste due domande finali del Padre nostro sono in realtà una sola, come due facce della stessa medaglia: evitare la caduta nel male come peccato in quanto liberati dal maligno che si presenta come tentatore o seduttore sfruttando la nostra naturale concupiscenza per portarci alla ribellione contro Dio e quindi al fallimento del suo progetto di amore su di noi. Quello per cui Gesù ha vinto tutte le tentazioni possibili senza lasciarsi sviare, «in tutto provato come noi, eccetto il peccato».

Dio, dunque, non tenta al male ma permette la prova per il bene, quella che rende possibile con la sua grazia – ecco perché è necessario chiederla insistentemente nella preghiera, non perché ne dubitiamo ma per rinfocolarne in noi il desiderio, quello opposto alla concupiscenza – imparare l’amore, a rispondere con amore all’Amore che è Dio Padre stesso, il quale ce lo dona nello Spirito Santo grazie a Gesù suo Figlio che, per questo, si è fatto nostro fratello. Non metterci alla prova, perché temiamo di dimenticare questa logica dell’amore, aderendo a quella del maligno tentatore, la diffidenza nei confronti di Dio e l’indifferenza o addirittura l’odio verso l’altro.

settimananews

Dieci punti per rinnovare la pastorale

Partire dalla vita: lì si incontra Dio!

Per cambiare, bisogna partire da una nuova prospettiva: la vita! La vita, non guardandola dal versante dei sacramenti, ma dando attenzione alle tappe dell’esistenza: nascita, infanzia, adolescenza, giovinezza, formazione della famiglia, il lavoro, la malattia, la vecchiaia, le tragedie, la morte… Tutta la pastorale agisce nell’affiancamento agli uomini, tutti, nei loro momenti cruciali.

Non partire da Dio, ma dalla vita: su quella strada si incontra Dio.

Basta con la prospettiva autoreferenziale

Tutta l’azione dell’attuale pastorale della Chiesa oggi è incentrata soprattutto sulla propria sopravvivenza e non sulla missione evangelica dell’essere sale. È questo il tallone d’Achille e il dramma del cristianesimo. Il clericalismo si annida in questa opzione. Se vogliamo uscirne, dobbiamo modificare la prospettiva.

Il cuore del rinnovamento è nel primato dell’amore e della comunità

Il cuore del rinnovamento passa allora attraverso la scelta della comunità cristiana (la parrocchia), una famiglia di persone che cercano di vivere il comandamento dell’amore consegnatoci da Gesù. Prima ci si ama e poi si fa la dottrina. Adesso si fa il contrario, o meglio si fa quasi sempre e solo la seconda parte. Una comunità che non può essere l’Unità Pastorale di oggi (una vera bestemmia), che deve avere la sua logica anche numerica: dagli 800/1.000 ai 3.000 abitanti. Ci sono molte riflessioni da fare collegandoci a questa premessa: primato dell’amore, trovare il giusto posto alla fede, il ruolo dei credenti all’interno dei paesi e dei quartieri (come diceva santa Teresina: “saranno il cuore”), finirla con la diatriba minoranza/maggioranza (argomento che ritengo antievangelico), ridare più importanza ai luoghi di comunione (centri comunitari, visita alle famiglie, più spazio alle scadenze della gente e meno a quelle ecclesiastiche…) che non ai luoghi di culto o di riunioni (casa della dottrina e Chiesa). Una comunità che non ha alcuna fretta (per fortuna è finita l’epoca dell’equiparazione regno di Dio = Chiesa cattolica) e che è consapevole che i frutti arriveranno solo se ci sono relazioni di amore.

Una pastorale di vita e non di riunioni

Una pastorale di vita quotidiana. Attenzione massima alle relazioni e non alle prediche e alle conferenze. Bisogna ridurre almeno dell’80% le riunioni che sono diventate una vera overdose di cose inutili, fonte di stress e di crisi tra i preti più giovani. I ragazzi e i giovani li aiuti a stare insieme nei centri comunitari (ruolo unico e insostituibile in un momento storico di smarrimento per far crescere l’integrazione e l’accoglienza) e non nel catechismo come è offerto oggi (un vero fallimento). La visita alle famiglie. Sotto alcuni aspetti è ritrovare alcuni schemi che vediamo nei cinema: don Camillo di Guareschi e don Matteo della serie televisiva.

La domenica: il cuore della settimana con un’unica celebrazione

La domenica. La stessa comunità che ha cercato di vivere al suo interno relazioni di amore celebra in un’unica celebrazione nel giorno del Signore. Un appuntamento che è preceduto da tutti i momenti formativi che attualmente sono collocati nella settimana. Per esempio: “desiderate battezzare il vostro bambino? Vengo a farvi visita a casa e poi venite alla celebrazione eucaristica della domenica, per due/tre volte almeno, prima della santa messa sarete introdotti al sacramento e poi verrete all’eucaristia. Dopo arriva anche la celebrazione del sacramento. Questo vale per la prima comunione, per la cresima e per tutti gli altri momenti della vita.

Ogni comunità parrocchiale deve avere una guida

Fondamentale è avere un pastore (o una coppia) per ogni comunità di credenti. Una guida presente, in canonica (se non h 24, almeno dal mattino alla sera), che tiri le fila della vita comunitaria, che sia capace di relazione, accettata dalla comunità, che possa presiedere la celebrazione domenicale (se non è sacerdote, ci possono essere altre modalità per esercitare la sua presidenza, come in terra di missione), che possa essere retribuita, con un contratto a termine. Un diacono permanente, una religiosa, un laico scelto dalla comunità (con la sua famiglia)… Ogni comunità è chiamata a proporre i suoi candidati capaci di rivestire un simile ruolo; saranno alla fine il presbitero e il vescovo a scegliere tra i candidati proposti.

Ruolo dei presbiteri

Un nuovo ruolo per i presbiteri. In questa prospettiva è necessario riprendere in mano il tema antico delle Pievi. Le Unità Pastorali attuali possono benissimo essere utilizzate come scelta territoriale e prevedere la presenza del presbitero con un ruolo ben chiaro. Deve avere una comunità di riferimento, quella dove vive. Deve essere centro di comunione e sinodalità tra le piccole comunità e tra le guide al loro interno. Deve curare la delicata gestione economica e assicurare lo stipendio alle guide di comunità attraverso il coinvolgimento dei fedeli e anche della società civile. In breve, il prete potrà agire da piccolo-vescovo.

Il coinvolgimento della società civile

La relazione con la società civile è fondamentale, sia perché viene riconosciuto il ruolo della comunità dei credenti al centro del territorio, sia perché deve essere coinvolta per una gestione economica che possa essere all’altezza. Per poter affrontare un tale progetto è necessario un importante impegno per mantenere sia le guide che gli operatori all’interno dei centri comunitari. Questa è una sfida delicatissima, ma necessaria per uscire dalle ambiguità di questi decenni su questo versante.

La sperimentazione

È assolutamente necessario che all’interno del territorio diocesano ci siano delle zone pastorali dove un simile impianto venga sperimentato, grazie soprattutto al coraggio di alcuni preti che hanno a cuore il futuro della Chiesa. Un esperimento che possa essere monitorato e seguito dal vescovo e dagli organi diocesani.

Un percorso possibile, con le normative attuali

Tutto questo è possibile all’interno delle attuali normative canoniche. Non è necessario un nuovo concilio per prendere in mano un tema così divisivo come quello del celibato permanente.