Lavoro / Life Learning. Alla ricerca di nuove figure professionali

Alla ricerca di nuove figure professionali

L’azienda italiana Life Learning (piattaforma di corsi online certificati), è alla ricerca di sei figure professionali per la gestione e lo sviluppo del proprio servizio. In particolare, è possibile candidarsi per i ruoli di social media manager, content editor, business developer, campaigns manager, community manager e sales manager per il B2B. Alcune di queste posizioni richiedono la presenza in loco a Pescara o Milano, mentre per la figura di campaigns manager è possibile lavorare da remoto.

L’obiettivo è l’inserimento in azienda (con contratto a tempo indeterminato dopo un periodo di prova).

Per poter prendere parte alla selezione e candidarsi ai diversi lavori è sufficiente inviare il proprio curriculum ajob@lifelearning.it.

Maggiori informazioni sulla candidatura e sulle posizioni aperte possono essere trovate alla paginahttps://lifelearning.it/lavora-con-noi/.

da Avvenire

Medici con il camper per chi è senza cure

“Medici con il Camper” è un progetto itinerante che garantisce l’assistenza socio-sanitaria e il diritto alla salute, con particolare attenzione alle periferie dimenticate della regione Puglia. Si tratta di un’iniziativa con finalità sociali progettata dalle Fondazioni Nikolaos, realizzata in collaborazione con i Missionari Comboniani e l’Associazione “CUAMM” medici con l’Africa.
Il progetto è nato nel 2015 – spiega il responsabile Enzo Limosano, medico volontario – e prevede interventi sanitari di primo soccorso e di prevenzione nei confronti di chi vive in una condizione di marginalità e bisogno. «L’evento che mi ha spinto a dare il mio contributo – dice – è stata la tragica morte di un bracciante extracomunitario del Burkina Faso, ucciso nel 2015 nel Foggiano per aver rubato due angurie. Ho voluto così toccare con mano la realtà dei ghetti. Nel 2017 abbiamo cominciato un’avventura fatta di solidarietà e amicizia, che ha condotto la squadra di volontari a bordo di un camper acquistato grazie ai fondi ricevuti».
Un vero “centro di ascolto su quattro ruote” per raggiungere le zone a più alto rischio di isolamento sociale – attivo nel Barese e nel Foggiano – dai senza fissa dimora ai immigrati alle vittime di tratta. Il caravan è attrezzato per gli interventi di primo soccorso e permette di indirizzare gli utenti verso la risoluzione di necessità di tipo legale, linguistico-culturale e burocratica. Per info: www.fondazionenikolaos.com/solidarieta/medici-con-il-camper/

avvenire

 

Pallavolo. Ofelia Malinov: «Il volley per me? Un destino, ma soprattutto una scelta»

La regista azzurra Lia Malinov, 22 anni

La regista azzurra Lia Malinov, 22 anni

Nata sotto il segno del volley. La Nazionale di pallavolo femminile si presenta al Mondiale giapponese (al via sabato) con una palleggiatrice che questo sport l’ha respirato sin dal primo istante: Lia Malinov ha infatti avuto in casa i suoi maestri. Suo padre, Atanas, è l’allenatore bulgaro che in Italia e in Europa ha vinto tutto con Bergamo. Ma pallavolista da sempre è anche sua madre, la bulgara Kamelia Arsenova, giocatrice di successo anche nella nostra Serie A.

Lia, venuta alla luce a Bergamo, ha oggi solo ventidue anni, ma sono in tanti a scommettere sulle sue mani di fata. Il sogno mondiale dell’Italia ruoterà inevitabilmente attorno a lei, visto che il ct Davide Mazzanti l’ha scelta come regista della sua Nazionale. Figlia d’arte, 180 centimetri, è giovanissima ma con la maturità già della veterana, se era prevedibile che la pallavolo sarebbe stata il suo futuro non era nemmeno così scontato che bruciasse tutte le tappe così in fretta. Merito del suo talento innato ma anche della sua determinazione e della sua umiltà. «Perché nello sport come nella vita ci vuole sacrificio e passione» è il suo biglietto da visita. Così ha spiccato il volo, lei che è stata chiamata in azzurro quando aveva solo 18 anni e giocava ancora in B1 a Bassano: «Fu davvero un sogno a occhi aperti. Alcune delle mie compagne più grandi mi avevano vista nascere perché le allenava papà…». Una carriera fulminante, iniziata nel 2011, che l’ha portata da Bassano al Club Italia e poi a Conegliano, Bergamo e quest’anno Scandicci.

Un destino da palleggiatrice racchiuso anche nel suo nome all’anagrafe Ofelia, che significa “colei che aiuta”. Toccherà proprio a lei innescare Paola Egonu e le altre compagne nella terra di Mila e Shiro, il fortunato cartone animato giapponese che ha ispirato molte delle giovani giocatrici azzurre. L’Italia riparte dal quarto posto amaro dell’ultimo Mondiale in casa, una cavalcata che però aveva riscosso l’affetto e l’orgoglio di tutti gli appassionati.

Ma l’unica medaglia d’oro azzurra risale al 2002, quando lei aveva sei anni…

«Già, è passato davvero troppo tempo. Per questo abbiamo ancora più voglia di fare un grande torneo. Vincere il Mondiale sarebbe meraviglioso, ma puntiamo a finire almeno tra le prime sei. Sarebbe già un ottimo risultato. Ci sono squadre fortissime come Cina, Stati Uniti, Serbia… Con alcune abbiamo già vinto, anche se adesso sarà tutta un’altra storia. Siamo giovani è vero, ma ci siamo preparate da tanto tempo, non vediamo l’ora di giocarcela alla pari con tutte. Siamo fiduciose e consapevoli della nostra forza».

È stata costretta a saltare l’Europeo dell’anno scorso per infortunio e questo sarà il suo primo grande appuntamento internazionale in un ruolo in cui l’Italia ha avuto fino a poco tempo fa figure del calibro di Leo Lo Bianco (record di presenze in azzurro) che la considera sua erede…

«Me l’ha confermato anche di recente visto che ci sentiamo ogni tanto. È un onore incredibile sentirselo dire da lei che di pallavolo ne ha masticata tanta… Avverti sempre un brivido quando vesti la maglia azzurra. E io voglio dare il cento per cento: gioco in un ruolo che richiede maturità e tanta esperienza, devi prenderti grandi responsabilità, ma a me piace molto. È bello far girare tutta la squadra e mettere le attaccanti nelle condizioni migliori».

Ironia della sorte, la prima partita sarà contro la Bulgaria, paese di suo padre e sua madre. Si sente una predestinata ad aver avuto dei genitori con il volley nel sangue?

«Vengo da una famiglia in cui si vive di pallavolo tutti i giorni. Ma non ho mai sentito la pressione di diventare un’atleta a questi livelli. Quando hai un cognome importante scatta la sensazione di dover assolutamente essere all’altezza, ma per me non è mai stato un peso. Anzi sono fiera di essere figlia di due sportivi. Anche perché non mi hanno mai costretta, la pallavolo è stata una scelta tutta mia».

Aveva cominciato con la ginnastica, il nuoto e il tennis, poi però la folgorazione per il volley…

«Sì perché a 9 anni ho scoperto la bellezza di questo sport di squadra in cui è fondamentale fare affidamento sulle compagne. Non tutto dipende da te così come non tutto dipende dagli altri: è uno scambio reciproco, tanto più prezioso quando si è in difficoltà. Mi piace questo legame che si crea: è difficile da costruire ma quando si riesce è il massimo. Poi certo ho visto quello che facevano i miei in palestra e mi è venuta voglia di seguire le loro orme. Ho chiesto io a mio padre di iniziare a giocare».

E lui ha mollato la Serie A per metter su una squadra di ragazzine e insegnare loro i fondamentali.

«Sì. E con noi è tornata in campo anche la mamma. I miei genitori mi sono da sempre di grande aiuto e supporto soprattutto per la loro esperienza. Di papà ammiro la grinta nel fare lo cose, di mia madre l’incredibile forza di volontà: anche nei momenti più duri lei dà sempre il massimo. Però il regalo più bello me l’hanno fatto fuori dal campo».

Quale?

«La nascita delle mie due sorelline, le gemelle Emma e Michela. È stata una gioia incredibile per tutti perché i miei genitori hanno atteso tanto. Tra di noi ci sono sette anni di differenza e anche loro giocano a pallavolo insieme con mia madre».

La pallavolo non è però la sua unica passione.

«Mi mancano un paio di esami per laurearmi. Sono al terzo anno di Scienze giuridiche. Gli avvocati mi hanno sempre affascinato. Mi piacerebbe un giorno difendere i diritti dei più deboli».

Quali altri obiettivi ci sono nel suo futuro?

«Creare una famiglia senz’altro. E poi il sogno di ogni donna: diventare mamma. Ma “tempo al tempo” è la mia filosofia. Ho imparato ad apprezzare la vita in ogni istante, grazie alla fede che per me è una dimensione importante, un dono ricevuto soprattutto da mia madre. Credere ti aiuta a reagire nei momenti negativi che prima o poi capitano a tutti. Ma ti porta anche a gioire e riconoscere quanto di bello c’è già nella tua vita».

avvenire

Viaggi di carta.Con Nietzsche alla scoperta del Lago d’Orta

da Avvenire

La «geografia letteraria» è un genere che ha dato la possibilità ad alcuni scrittori di indagare l’anima dei luoghi, per entrare in quell’intimità del paesaggio che via via è mutato nel tempo e che richiede, oltre a una semplice presenza, anche una partecipazione emotiva. Ecco quindi che, dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, al “classico” e più frequentato racconto di viaggio in alcuni casi abbiamo avuto, in Italia, approcci a una nuova forma, quella della , un viaggio di carta, circoscritto a luoghi specifici, condotto attraverso le testimonianze e i diversi umori di grandi personaggi (scrittori, pittori, registi) che quel luogo hanno vissuto intensamente. Esemplare in questo senso è stato, poco prima della sua morte, nel 1990, il lavoro svolto da Pier Vittorio Tondelli, per una mostra, organizzata a Riccione, sulla presenza degli scrittori nella riviera romagnola, accompagnato da un lungo saggio, Cabine cabine, che è una «guida letteraria» ragionata e creativa sulla presenza degli scrittori (da Bassani a Calvino, da Guareschi a Scerbanenco) sulle spiagge dell’Adriatico. Un altro viaggio che si legge come una «guida letteraria» è quello che ha scritto Guido Conti, in un lungo e appassionato libro del 2012, Il grande fiume Po, che sceglie di compiere la sua navigazione fluviale, evocando le storie degli scrittori che hanno avuto un rapporto stretto e a volte immaginifico con il fiume, da Virgilio ad Ariosto, da Salgari ad Arbasino, da Guareschi a Bevilacqua.
Ora anche Laura Pariani, insieme a Nicola Fantini, mostra quanto l’incontro con gli illustri viaggiatori possa restituire mistero e rivelazione all’essenza dei luoghi e giustamente, definisce questo viaggio, una «guida letteraria» a tutti gli effetti a uno dei laghi più affascinanti del Nord Italia, il lago d’Orta dove i due scrittori hanno scelto di vivere. Ne è nata una dettagliata descrizione «emotiva» che parte dalla salita della Motta che «era il tradizionale percorso devozionale dei pellegrini che da tutta la regione accorrevano a Orta per ottenere l’indulgenza concessa dalla visita al Sacro Monte» e racconta «la piazza» in cui ci si ritrova «in una dimensione ottocentesca: la piazza lastricata e chiusa da tre lati da alberghi, bar e portici con le botteghe; isolato sul lato settentrionale, sta il cosiddetto Palazzotto, ovvero l’antica casa comunale con relativa campana per chiamare a raccolta gli abitanti». Centrale è la descrizione del Sacro Monte e la rivalutazione della sua originalità, spesso non capita da turisti avventati, «un angolo di mondo così particolare», tanto che «tra le cappelle affiorano antichissime verità, se si sta in ascolto nel folto degli agrifogli centenari, scintille enigmatiche». Ci sono anche luoghi meno conosciuti come il cimitero di San Quirico, dove «è raro che i turisti vi si inoltrino: in genere si limitano a commentare la presenza dell’ossario o a fotografare il bel panorama». Il viaggio tra i luoghi è scandito dalla presenza di scrittori che sono passati di lì o ad Orta hanno ambientato le loro opere, in primis Nietzsche, da cui deriva il titolo (Il lago dove nacque Zarathustra, Interlinea, pagine 88, euro 12,00), «perché il Cusio è l’indimenticabile lago di Zarathustra, della ricerca dell’imperturbabilità e del sale dell’ironia» e poi grandi lombardi da Manzoni a Gadda, fino allo scapigliato Achille Giovanni Cagna e a Gianni Rodari, con la citazione anche del «detective dell’impossibile», Martin Mystèere, anche lui in vacanza sul lago d’Orta.

Viaggio nella storia del premio. Il Nobel per la pace: la «fabbrica» della speranza

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il «Giardino dei Nobel» al Centro del Nobel per la pace di Oslo, in Norvegia (Pescali)

Il 10 dicembre 1901, nello Storting, il parlamento norvegese, il fondatore e presidente della Società francese per l’arbitrato tra le nazioni Frédéric Passy e il fondatore del Comitato Internazionale della Croce Rossa Jean Henry Dunant furono insigniti del primo premio Nobel per la pace, voluto da Alfred Nobel per premiare la «persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace». Da allora altre 96 personalità o istituti hanno ricevuto l’ambito premio che, dal 1990, viene consegnato nella sala del comune diOslo, e che per il 2018 sarà assegnato tra pochi giorni (tra l’altro in un anno particolare, considerato che il premio per letteratura non verrà assegnato, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, a causa dello scandalo per le molestie sessuali che ha coinvolto Jean-Claude Arnault, marito di una giurata). Nel suo testamento, redatto a Parigi il 27 novembre 1895, Alfred Nobel non specificò il motivo per cui aveva scelto la Norvegia anziché la Svezia come sede per la selezione e la consegna del premio. Si sono fatte diverse congetture: la Norvegia al tempo faceva ancora parte dell’Unione Svedese e lo Storting, che gestiva in una sorta di autonomia gli affari nazionali, aveva recentemente approvato una risoluzione per appoggiare il movimento di pace internazionale e forse questo fu uno dei motivi che indusse il magnate a optare per Oslo piuttosto che Stoccolma.

Il premio per la pace essendo, tra i sei istituiti da Nobel, quello meno tecnico è, per forza di cose, anche il più controverso e soggetto a contestazioni. «La prima grande svolta» mi spiega Niccolò Sattin, coordinatore delle Pubbliche Relazioni del Nobel Peace Center di Oslo, «la si ebbe nel 1936, dopo che il comitato preposto alla scelta del laureato, assegnò il premio al pacifista e antinazista tedesco Carl von Ossietzky, allora detenuto nel campo di concentramento di Esterwegen. Hitler si infuriò così tanto che vietò ai cittadini tedeschi di accettare ogni altra onorificenza data dall’istituzione». Da allora i cinque membri del Comitato per il Nobel Norvegese preposti a scegliere e assegnare il premio Nobel non devono ricoprire alcuna carica governativa e, dal 1977, neppure parlamentare, sebbene vengano scelti dallo Storting stesso. Oggi il comitato è formato dal filosofo e scrittore Henrik Syse, dall’antieuropeista Anne Enger, dall’analista e giornalista Asle Toje, dal discusso segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland e dall’avvocatessa Berit Reiss-Andersen, presidente del comitato e membro della DLA Piper, lo studio legale che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012.

Sono queste cinque figure che accolgono, entro il 31 gennaio, la lista dei nominativi proposti alla candidatura, i cui bandi vengono aperti a chiunque da settembre dell’anno precedente. Durante il primo incontro ciascun membro del comitato può aggiungere altri candidati. Tutti i nominativi proposti rimangono segreti per 50 anni. Entro la fine di aprile il Comitato per il Nobel Norvegese, assieme ad esperti internazionali, esamina ciascuna proposta sino a raggiungere una lista di 20-30 candidati da cui, all’inizio di ottobre verrà annunciato il vincitore (o i vincitori, sino ad un massimo di tre) che verrà premiato il 10 dicembre con un premio di 870.000 euro. Quest’anno sono giunte 331 candidature (216 individuali e 115 organizzazioni). «Sino al 1960 tutti i premi sono stati assegnati a personalità del mondo occidentale» spiega Niccolò; «Il primo Nobel per la pace assegnato ad un africano fu dato a Albert John Lutuli, presidente dell’African National Congress. È stata questa la svolta che ha portato il Premio Nobel a divenire un premio veramente di portata mondiale». Il prestigio che accompagna il premio ha reso sempre più difficile il lavoro dei cinque componenti del comitato che si trova quasi ogni anno a dover scartare decine di curriculum che potrebbero soddisfare le richieste fatte dal fondatore. Il comitato, ad esempio, non assegnò mai il Nobel a Gandhi, «la più grande omissione nei nostri 106 anni di storia» ebbe a dire nel 2006 Geir Lundestad, allora direttore dell’Istituto Nobel Norvegese.

Ma non sono tanto le candidature scartate a sollevare polemiche, quanto la scelta finale, spesso dettata da ragioni chiaramente politiche. Il premio dato ‘sulla fiducia’ ad Obama nel 2009, ad esempio, è stato uno dei più contestati e, alla fine, l’ennesima dimostrazione di quanto fragile sia l’obiettività e la lungimiranza del comitato per il Nobel. Così come quello dato nel 1989 al Dalai Lama, un chiaro monito inviato a Pechino contro la repressione di Tienanmen o quello, altrettanto contestato, concesso nel 1973 a Henry Kissinger e a le Duc Tho, rifiutato da quest’ultimo in polemica per le continue violazioni del trattato compiute dal governo Sud Vietnam con l’appoggio statunitense. L’attribuzione del premio a Arafat, Peres e Rabin nel 1994 portò alle clamorose dimissioni dal Comitato per il Nobel di Kåre Kristiansen in protesta con il conferimento della laurea a Arafat, considerato da Kristiansen un terrorista.

Non mancano premi Nobel contraddittori, come quello assegnato nel 2017 all’ICAN (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari) preceduto, nel 2005, da quello conferito all’IAEA, l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare. Un’altra grave limitazione è che il Premio Nobel per la Pace, una volta concesso, non può più essere revocato; la valutazione fatta dal comitato si limita sino al conferimento del premio. Non c’è nessuna clausola che obblighi il laureato a continuare il processo etico e morale che lo ha reso degno della fiducia. Le 400.000 firme che, nel settembre 2017 hanno chiesto al Comitato del Nobel di revocare il premio conferito nel 1991 ad Aung San Suu Kyi per la sua responsabilità delle violenze nei confronti dei rohingya e dei kachin in Myanmar, rimarranno quindi lettera morta.

Per contro, il comitato ha dato anche importanti segnali di solidarietà a nascenti movimenti di protesta o a singole personalità del mondo della cultura. Nel 1996 il vescovo di Dili, Carlos Felice Ximenes Belo e il rappresentante del Fretilin José Ramos-Horta ebbero l’ambito riconoscimento che aiutò il movimento nazionalista est timorese a raggiungere l’indipendenza, mentre nel 2010 fu lo scrittore Liu Xiaobo, co-autore della Carta 08, ad essere premiato suscitando, ancora una volta, le vivaci proteste del governo cinese che arrivò a minacciare di rompere le relazioni diplomatiche con la Norvegia. Importante, e anche uno dei pochi premi che han trovato ampio consenso internazionale, la scelta caduta nel 2014, sulla diciassettenne Malala Yousafzai, la più giovane laureata della storia del Nobel, e Kailash Satyarthi «per la loro battaglia contro lo sfruttamento dei bambini e il loro diritto di avere un’istruzione». Ed è forse questo il principale compito del premio Nobel per lapace: dare una speranza concreta al futuro di chi ha perso la fiducia nel proprio domani.

da Avvenire

Il caso. Olanda, multa a chi parla al cellulare in bicicletta

Olanda, multa a chi parla al cellulare in bicicletta

Arriva in Olanda il divieto di utilizzare il cellulare alla guida della bicicletta. La legge, che entrerà in vigore il prossimo luglio, estende l’attuale divieto dei veicoli anche alle due ruote, molto diffuse nei Paesi Bassi.
Secondo il ministro dei trasporti olandese, Cora van Nieuwenhuizen, la legge si era necessaria perché l’avvento dei social media e del traffico dati illimitato ha cambiato il modo in cui le persone utilizzano gli smartphone e il tempo trascorso.

I ciclisti erano stati esclusi dal divieto iniziale a causa della loro bassa velocità, ha spiegato al Guardian Van Niewenhuizen. “Ma in effetti, usare un telefono è pericoloso tanto quanto in una macchina” ha aggiunto. “Il fatto è che ogni volta che sei in viaggio devi prestare la massima attenzione e non fare assolutamente nulla al telefono”.

da Avvenire

XXVI Domenica Tempo ordinario – Anno B. Il Vangelo. Se tutto il Vangelo sta in un bicchiere d’acqua.

XXVI Domenica
Tempo ordinario – Anno B

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile». […]

Maestro, quell’uomo guariva e liberava, ma non era dei nostri, non era in regola, e noi glielo abbiamo impedito. Come se dicessero: i malati non sono un problema nostro, si arrangino, prima le regole. I miracoli, la salute, la libertà, il dolore dell’uomo possono attendere.
Non era, non sono dei nostri. Tutti lo ripetono: gli apostoli di allora, i partiti, le chiese, le nazioni, i sovranisti. Separano. Invece noi vogliamo seguire Gesù, l’uomo senza barriere, il cui progetto si riassume in una sola parola “comunione con tutto ciò che vive”: non glielo impedite, perché chi non è contro di noi è per noi. Chiunque aiuta il mondo a fiorire è dei nostri. Chiunque trasmette libertà è mio discepolo. Si può essere uomini che incarnano sogni di Vangelo senza essere cristiani, perché il regno di Dio è più vasto e più profondo di tutte le nostre istituzioni messe insieme.
È bello vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede sta nella sua capacità di trasmettere e custodire umanità, gioia, pienezza di vita. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, e sono capaci di fare miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Stare accanto a loro, sognando la vita insieme (Evangelii gaudium).
Gesù invita i suoi a passare dalla contrapposizione ideologica alla proposta gioiosa, disarmata, fidente del Vangelo. A imparare a godere del bene del mondo, da chiunque sia fatto; a gustare le buone notizie, bellezza e giustizia, da dovunque vengano. A sentire come dato a noi il sorso di vita regalato a qualcuno: chiunque vi darà un bicchiere d’acqua non perderà la sua ricompensa. Chiunque, e non ci sono clausole, appartenenze, condizioni. La vera distinzione non è tra chi va in chiesa e chi non ci va, ma tra chi si ferma accanto all’uomo bastonato dai briganti, si china, versa olio e vino, e chi invece tira dritto.
Un bicchiere d’acqua, il quasi niente, una cosa così povera che tutti hanno in casa.
Gesù semplifica la vita: tutto il Vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasività del male, Gesù conforta: al male contrapponi il tuo bicchiere d’acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.
Se il tuo occhio, se la tua mano ti scandalizzano, tagliali… metafore incisive per dire la serietà con cui si deve aver cura di non sbagliare la vita e per riproporre il sogno di un mondo dove le mani sanno solo donare e i piedi andare incontro al fratello, un mondo dove fioriscono occhi più luminosi del giorno, dove tutti sono dei nostri, tutti amici della vita, e, proprio per questo, tutti secondo il cuore di Dio.
(Letture: Numeri 11,25-29; Salmo 18; Giacomo 5,1-6; Marco 9,38-43.45.47-48)

da Avvenire

 

Insegnare, passione e compassione che non finiscono mai (e da riconoscere)

da Avvenire

Gentile direttore,

sono una insegnante in pensione dal 1999 e dal 2001, come volontaria, mi occupo di alfabetizzazione presso la Casa circondariale di Vercelli. Da qualche anno porto “Avvenire” ai miei “ragazzi” (che sono tutti detenuti) e particolarmente il supplemento “Popotus”, molto gradito proprio perché è semplice, specialmente per i bambini, e i miei ragazzi sono ancora bambini. Alcuni non sono mai andati a scuola, altri non conoscono neanche l’italiano, visto che l’80 per cento dei miei ragazzi è straniero. Mercoledì è il giorno che dedico loro. Lo faccio tutto l’anno, perché non esistono le vacanze estive e i miei ragazzi hanno un turnover vivacissimo: mi pare di tornare alle pluriclassi di lontana memoria… Io insegno italiano, la lingua musicale più bella del mondo. L’unico materiale didattico è una lavagna con i pennarelli cancellabili (lavagna acquistata dalla mia associazione di volontariato, l’Avulss) che uso e faccio usare dai ragazzi. Loro vengono a scuola a mani nude, il carcere non fornisce nulla! È dunque naturale che io acquisti i quaderni, le penne, matite… e le caramelle! Cerco di fare tutto con passione e per compassione, e con i miei ragazzi (che hanno tra i 25 e i 35 anni) sto bene. Vi sono molto riconoscente per il lavoro che fate con “Avvenire” e auguro a lei, direttore, e a tutta la Redazione pace e bene.

maestra Pinuccia (Giuseppina Giara) Vercelli

Dedico la sua lettera, cara maestra Pinuccia, a tutti quelli che sanno e non dimenticano quanto prezioso e speciale sia il mestiere degli insegnanti e che si rendono conto di come una simile “vocazione” non finisca mai. Ma la dedico anche a tutti quelli che senso, bellezza ed essenzialità di questo lavoro non li capiscono e non li valorizzano come meritano. Ce ne sono, purtroppo: tra quelli che alzano le mani o anche solo la voce con gli insegnanti dei figli, ma anche e soprattutto tra quanti fanno le leggi e governano e in questi decenni hanno mortificato o lasciato mortificare il ruolo e il servizio reso da professori e maestri. Una scelta doppiamente autolesionista verso le nuove generazioni di italiani e verso le generazioni di nuovi italiani, coloro cioè che sono arrivati a vivere tra noi da altri Paesi e da altre culture e che in troppi casi, negli ultimi anni, sono stati lasciati ai margini e spinti nelle mani di malviventi (sino a diventarlo, in non pochi casi, più o meno gravemente, essi stessi) da norme sbagliate e propagande cattive invece di essere rispettati e messi alla prova come persone e perciò tenuti nel cono di luce della legge e della trasmissione della nostra cultura, dei nostri valori, delle consuetudini sociali della nostra gente. Legge, lingua e cultura, lavoro utile e reciproco rispetto: questa è la via dell’accoglienza e della sana inclusione. Il suo “lavoro dopo il lavoro di una vita” è una generosa dimostrazione di dedizione a una giusta causa. Ed è la dimostrazione che molto spesso, così tanto spesso da sembrare una regola non scritta, per un insegnante andare in pensione significa semplicemente continuare, in condizioni diverse, a istruire e a educare al buono, al bello e al vero. Avviene – come nel suo caso – in carcere, e avviene in case famiglia, in parrocchia, in oratorio, in scuole popolari, in centri di accoglienza per profughi e immigrati, in case di cura… L’ho imparato sin da bambino vivendo accanto a mia madre, maestra come lei, e a mio padre, un pedagogista che è stato professore di filosofia e preside, e condividendo le esperienze di amiche e amici che del “fare scuola” hanno fatto una vera e propria missione, vissuta – voglio usare le sue parole, gentile maestra – «con passione e per compassione». Cioè mettendoci se stessi, sino in fondo, e mettendosi nei panni degli altri con tutta l’anima e con apertura di testa e di cuore. Grazie per quel che fa e per l’affetto e l’apprezzamento che riserva al nostro lavoro qui ad “Avvenire” e nel nostro straordinario inserto, il giornale d’attualità per bambini “Popotus”. Ricambio con gioia il suo augurio francescano, così caro e familiare anche per me: pace e bene.