Shoah. «La Stella di Andra e Tati», il primo cartoon dentro Auschwitz

Un’immagine del cartone animato “La Stella di Andra e Tati”

Un’immagine del cartone animato “La Stella di Andra e Tati”

«Ci avevano scambiate per gemelle, dunque, “merce” rara, come cavie da esperimento: per questo siamo sopravvissute ». A ricordare è Tatiana Bucci (classe 1937) prelevata con la sorella Alessandra – di 2 anni più piccola – la madre Mira, la zia Gisella, il cuginetto Sergio e la nonna a Fiume la sera del 28 marzo 1944, e inviata ad Auschwitz-Birkenau, dove giunse il 4 aprile.

La loro storia è ora diventata un film d’animazione, La Stella di Andra e Tati, il primo sulla Shoah, che verrà presentato domani a Torino nell’ambito del Festival Cartoons on the Bay. «Quando le SS bussarono alla porta, zia Gisella era da poco giunta da Napoli, dove, ironia della sorte, non si sentiva più sicura» riflette tra sé Tati. E Andra riprende il filo del crudo racconto di quei giorni: «Eravamo soggetti interessanti anche perché di padre cattolico e madre ebrea, e i bambini di “sangue misto”, destinati a particolari studi clinici scampavano alle camere gas. Anche mamma non fu inviata subito ai forni crematori, a differenza dei soggetti più deboli».

A questo punto, la narrazione si interrompe, è impresso ben chiaro il ricordo dell’arrivo al Kinderblock del dottor Morte, dove cominciarono visite antropometriche, misurazioni e prelievi di sangue. Dove la sera stessa videro la nonna indirizzata alle “docce” e dove – scese dal treno merci, dopo un’estenuante notte di prigionia alla Risiera di San Saba, al termine di un viaggio soffocante e nauseabondo – furono separate sulla rampa del lager dalla madre: la madre, che, dopo l’ingresso al campo dei sovietici il 27 gennaio del 1945 e le peripezie delle piccole passate per un orfanotrofio a Praga e poi in Polonia ed Inghilterra, dove i genitori avevano trovato riparo, nel dicembre 1946 riconobbe le sue piccole dai numeri tatuati sulle braccia.

Nove mesi di umiliazioni e vergogne nello stesso campo in cui vennero deportati da tutta Europa oltre 230 mila bambini. Pochissimi i piccoli superstiti. Alcuni di questi hanno trovato la forza, l’equilibrio e il coraggio di ricordare. E raccontare cosa è stato l’Olocausto: per dirla con Primo Levi, «una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnapagina della memoria».

«Abbiamo avuto il coraggio di tornare ad Auschwitz solo nel 2005. E poi ci siamo venute anche più volte all’anno e finché avremo le forze – promette Andra – continueremo ad accompagnare i giovani».

Sessant’anni: tanto ha dovuto trascorrere prima di tornare nei luoghi del dolore e dell’orrore, ma raccontare «è il solo modo per non aggiungere altra vergogna» riflettono le sorelle Bucci, le cui parole ancora quasi si sovrappongono rammentando che «mamma non volle più riaprire con noi le ferite di quanto accaduto al campo».

«Del resto, anche noi, appena liberate, non parlavamo più italiano, non ricordavamo da dove provenissimo, non riconoscevamo nessun volto» ricorda Tati. Ed è un esercizio difficile separare il piano del vissuto da quello delle suggestioni: «Evitiamo di leggere sulla Shoah o di vedere film, perché vorremmo trasmettere la verità storica con tutte le sue miserie».

Ed ecco i ricordi arrivare ed accavallarsi come onde di una mareggiata: «La blokova preposta alla nostra sorveglianza ci disse che sarebbe venuto un uomo con il camice bianco per portarci a salutare la mamma – ricorda Tati – e che avremmo dovuto rispondere di no. Non capimmo, ma ci fidammo ed avvisammo nostro cugino Sergio. Lui, però, si lasciò convincere e se ne andò con il medico. Non averlo salvato è il nostro più grande rimorso» conclude Tati.

I mesi seguenti furono interminabili, scanditi dal vuoto: dell’abbandono, della fame, del freddo, delle paure. «I primi tempi mamma riusciva a venire a trovarci – ricorda Andra – ma la vedevamo imbruttirsi di giorno in giorno e dimagrire a tal punto, da preferire non vederla: ora mi vergogno di quei pensieri». «Eravamo piccole – aggiunge Tati – non ci rendevamo conto, solo non la riconoscevamo più».

Poi la liberazione, la diaspora, il ricongiungimento, il ritorno. Alla vita, alla normalità, alla libertà e infine di nuovo ad Auschiwitz: un percorso a ritroso nella memoria. Faticoso e tormentato, quanto necessario e liberatorio. La loro esistenza è un episodio della storia, comune a milioni di ebrei, ma ascoltata, testimoniata, conosciuta, contiene tutti gli elementi dell’esodo epico.

Certo, non è un racconto facile, per i “grandi” e – a maggior ragione – per i bambini: ma la posta in gioco è alta e lo sforzo ora è stato fatto. Ci saranno anche loro, domani a Torino, per presentare in anteprima La Stella di Andra e Tati. Arriveranno dagli Stati Uniti e dal Belgio, dove vivono e dove le abbiamo raggiunte telefonicamente per questa intervista. Primo prodotto d’animazione per l’infanzia sul dramma della Shoah, questo film d’animazione tv da 30’ – coprodotto da Rai Ragazzi e dal Centro Larcadarte in collaborazione con il MIUR – è stato realizzato in occasione dell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali e dell’inizio delle persecuzioni antisemite. Diversi i riconoscimenti ufficiali ai registi Rosalba Vitellaro e Alessandro Belli, per la qualità di un lavoro di ricostruzione e di impegno sociale di assoluto valore: «È stato possibile solo grazie a giorni e notti di impegno di tutta la squadra» ha dichiarato la regista, citando la direzione artistica di Annalisa Corsi e di Enrico Paolantonio.

Al progetto hanno aderito come doppiatori Leo Gullotta, Laura Morante e Loretta Goggi. In futuro, con il supporto scientifico di Marcello Pezzetti, direttore della Fondazione Museo della Shoah, sarà in distribuzione nelle scuole medie un kit didattico sulla Shoa, per aiutare i docenti a trasmettere una vicenda tanto buio della storia della civiltà. «Non credo possa mai tornare una nuova shoah»: sono le parole di commiato di queste due signore della storia. Parole di saggezza perché non accada mai più che l’umanità perda se stessa.

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«Urge un Sinodo sulla missione della donna nella Chiesa»

«Urge un Sinodo sulla missione della donna nella Chiesa»

«Si pone seriamente la questione di un sinodo della Chiesa universale sul tema della donna nella vita e missione della Chiesa». «Abbiano inoltre le Chiese locali la libertà e il coraggio evangelici per denunciare tutte le forme di discriminazione e di oppressione, di violenza e di sfruttamento subite dalle donne in varie situazioni e per introdurre il tema della loro dignità, partecipazione e contributo nella lotta per la giustizia e la fraternità, dimensione essenziale dell’evangelizzazione».

Sono questi due passaggi del documento finale dell’assemblea plenaria annuale della Pontificia commissione per l’America latina (Cal), che si è svolta in Vaticano dal 6 al 9 marzo sul tema «La donna, pilastro nell’edificazione della Chiesa e della società in America latina». Un tema che secondo il segretario della Cal,Guzmán Carriquiry Lecour, voleva aiutare «a rifiutare le letture semplificate e semplicistiche della realtà per riconoscere la complessità e misurarsi con essa». E papa Francesco per l’occasione ha voluto che fossero invitate, oltre ai ventidue cardinali e vescovi membri e consiglieri all’assemblea, anche quindici personalità femminililatinoamericane.

«La Chiesa cattolica, seguendo l’esempio di Gesù – si legge nell’incipit del documento finale – deve essere molto libera dai pregiudizi, dagli stereotipi e dalle discriminazioni subiti dalla donna. Le comunità cristiane devono realizzare una seria revisione di vita per una conversione pastorale capace di chiedere perdono per tutte le situazioni nelle quali sono state e tuttora sono complici di attentati alla sua dignità». Al centro della dichiarazione, in quattordici punti, non c’è un però rivendicazione “femminista” di tipo secolare, semmai la riproposizione della grandezza della dignità e vocazione femminili come emergono dalla Rivelazione. «La devozione mariana – si legge nel testo – così radicata e diffusa in America latina, manifestazione di inculturazione del Vangelo e dell’amore dei popoli, aiuti a considerare Maria come paradigma della “donna nuova”, contemplandola come esempio straordinario di una femminilità compiuta, degna di essere protetta e promossa, tanto per la sua importanza nella nascita di un tessuto sociale più umano come per la formazione dei discepoli-missionari di suo Figlio».

Così, mentre «il matrimonio e la famiglia costituiscono le esperienze fondamentali per vivere la comune dignità di uomo e donna, la loro diversità, reciprocità e complementarietà», le comunità cristiane e i pastori «vigilino di fronte alle forme di “colonizzazione culturale e ideologica” che, con il pretesto di nuovi “diritti individuali” e anche strumentalizzando rivendicazioni femministe, vengono diffuse da grandi poteri e lobbies ben organizzate, per attentare contro la verità del matrimonio e della famiglia, scalzando l’ethos culturale dei nostri popoli, favorendo la disgregazione del tessuto familiare e sociale delle nazioni. E sono le donne, comprese le madri con figli, a pagare il costo più alto di tale operazione».

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