L’amicizia matura lenta, ci vogliono fino a 200 ore insieme

L'amicizia matura lenta, ci vogliono fino a 200 ore insieme © Ansa

Per diventare amici ci vuole impegno.
L’amicizia vera richiede dedizione e tempo trascorso insieme per definirsi tale. Lo esprimeva bene una frase di Aristotele, secondo cui “il desiderio di essere amici è una decisione rapida, ma l’amicizia è un frutto a maturazione lenta”, e lo confermano i risultati di uno studio dell’Università del Kansas, pubblicato sul Journal of Social and Personal Relationships, per il quale per considerare una persona un amico stretto occorrono più di 200 ore di condivisione.

Naturalmente il tempo trascorso dev’essere di qualità. Per lo studio, basato su ricerche precedenti che hanno stabilito che il cervello può gestire solo circa 150 amicizie, il professor Jeffrey Hall ha esaminato due tipi di dati. I primi erano relativi all’analisi di 355 risposte a un sondaggio online di adulti che hanno affermato di essersi trasferiti negli ultimi sei mesi e che stavano cercando nuovi amici. Hall ha chiesto a ciascuno di loro di pensare a una persona che avevano incontrato al momento del trasferimento e come la relazione fosse proseguita, esaminando anche ore trascorse insieme e i tipi di attività svolti. Ai partecipanti è stato chiesto di valutare le relazioni in uno di quattro livelli: conoscenza, amicizia occasionale, amicizia e amicizia intima.

I risultati sono stati poi messi in correlazione con quelli di un altro esperimento, che ha coinvolto 112 matricole universitarie che si erano trasferite da 15 giorni, chiedendo loro chi avessero conosciuto e seguendo nel corso delle settimane l’evoluzione dei rapporti. Il ricercatore ha così stimato che ci vogliono dalle 40 alle 60 ore per un’amicizia occasionale, 80-100 ore per passare all’essere un amico e più di 200 ore insieme per diventare buoni amici. E’ stato sviluppato anche uno tool online (https://mikewk.shinyapps.io/friendship/) che analizzando alcune risposte, indovina il livello di amicizia.

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Musica. Negrita: «Il rock è una spinta irresistibile a dare il meglio»

Negrita: «Il rock è una spinta irresistibile a dare il meglio»

Esiste davvero, esiste ancora, un rock italiano? I Negrita, band aretina sulla scena dal ’93 e in tour da oggi a Bologna col nuovo album Desert Yacht Club (altre date giovedì a Roma e sabato a Milano), alla domanda sorridono. In fondo vi rispondono già col loro percorso, un coraggioso e continuo rinnovarsi che li ha portati dai primi successi ferocemente abrasivi degli album di fine secolo Reset o Radiozombie, sino a contaminare ruspanti radici rock coi suoni pensati di una contemporaneità che il rock, in fondo, pare averlo superato. Attenzione, però. Non è che Desert Yacht Club ci consegni la foto di una band integrata o peggio ancora arresa; semmai, la maturità di scrittura dei Negrita del 2018 si fonde con una produzione sonora intarsiata di sfaccettature, che ne punteggia resistenti ruvidità rock con aperture sudamericane, sfondi elettronici, sprazzi triphop, melodici e persino ballabili. Tutto ciò inevitabilmente comporta qualche sbilanciamento verso l’ovvio, però mai fa perdere i Negrita oltre le colonne d’Ercole di una dignità d’autore ancora capace di toccare vertici fra intimismi e denunce: negli stridori d’afflato cantautorale di No problem come nell’essenzialità frastagliata quasi blues di Voglio stare bene;nelle grida battenti di Talkin’ to you come nel gioiello Ho scelto te, pop-rock elettronico con magnifico testo scagliato argutamente addosso a edonisti e narcisisti.

Certo non è più il rock conosciuto dai grandi anni Settanta, e nemmeno quello degli esordi dei Negrita; loro per primi lo definiscono «saper tradurre gli stimoli nuovi del mondo in un crossover che abbia senso qui e ora», loro per primi a parlargli di rock sorridono. «Se ne fa poco, ormai. Il panorama è un mix eterogeneo di pop, rap, musica indipendente: forse siamo ancora rock noi, Afterhours, Verdena, quelli sulla piazza dagli anni Novanta. Ma il punto è: c’è rock nel mondo, dopo i Nirvana e i primi Radiohead? Ci sono i Muse, forse; band di nicchia, elettrorock sinfonico… In realtà poco smuove le masse col linguaggio del rock, da vent’anni a questa parte». E allora, ben venga il crossover dei Negrita versione 2018: fra artigianato e industria, ruvidità e introspezione, forse in fondo lo fanno sopravvivere, questo rock.

Questo è il vostro decimo album, che definite nato da un periodo di crisi violenta: ovvero?

«In un brano cantiamo Adios paranoia proprio a celebrare l’uscita da un momento durissimo. Come ogni band litighiamo da sempre, ma a un certo punto ci siamo trovati a fuggire dalle routine dell’Italia per suonare all’estero, portandoci dietro problemi molto pesanti abbinati alla voglia di uscirne. In California abbiamo provato ad approcciare la musica in modo nuovo, usando la tecnologia del quotidiano e strimpellando dovunque con strumenti presi a noleggio e portati con noi sul furgone. E a un certo punto la musica è fluita, ha fatto da toccasana: ci siamo ritrovati a comporre insieme, cercando forti emozioni e non più botte di suono per le orecchie. Ciò, unito a cambiamenti nei nostri rapporti umani, ci ha fatto uscire dal tunnel più di quanto noi stessi ci contassimo. E però solo a novembre, a disco quasi chiuso, ce ne siamo davvero resi conto».

Qualche anno fa dicevate che il rock salva la vita: è sempre così per voi Negrita?

«Quando vedi un amico risvegliarsi dal coma ascoltando le cassette della band del liceo intuisci la forza della musica. E ognuno di noi in dati momenti ha trovato conforto in canzoni o parole delle canzoni: forse il rock sostituisce aiuti che non arrivano da società e famiglia. Sicuramente, il rock dà appigli sicuri, induce a tirare fuori il meglio, permette di evitare la depressione dandoti un ruolo in un microcosmo che sostituisce compagnie assenti o sballate. Consola, fa sentire importanti, permette di credere ancora nei sogni».

Però i giovanissimi snobbano questo rock per il rap.

«Forse è naturale: il rap permette di esprimersi al volo, senza avere basi musicali o saper suonare strumenti. E già negli anni Novanta i Red Hot Chili Peppers contaminavano rock e rap proprio per la forza coglibile in tutto il mondo di quel nuovo linguaggio. Non è detto comunque che la musica come la fruiscono oggi i giovani sia banalizzata: ne conoscono molta, vi imparano sopra le lingue… Certo non è più necessità né arte né primo riferimento per comunicare: è sottofondo, sfogo. Ma per le masse forse lo erano anche i juke box del rock anni ’50».

Nel cd cantate da padri: paure per i vostri figli?

«Le solite, quelle di tutti. Questi adolescenti sono più svegli di noi, più preparati, soprattutto molto più informati: in compenso la società è più dura, e bisogna dar loro armature di anticorpi di ogni tipo…».

Cosa vi hanno insegnato i tour esteri di successo, o esperienze tipo Jesus Christ Superstar del 2014?

«A capire come essere credibili. Quando non capiscono le parole come in Cina o Giappone, o rifiutano i nostri riferimenti anglosassoni perché per loro gli Usa sono dittatura, come in Sudamerica, devi imparare a tradurre in modo nuovo quello che sei. L’esperienza del musical poi ci insegnò rapporti diversi fra chi recitava e chi suonava, nell’esperienza devastante di accompagnare Cristo al calvario ogni sera per due mesi… Ma è proprio con esperienze come queste che abbiamo corroborato la scelta di cambiare spesso strada inseguendo un nostro crossover. E speriamo con questo album di essere giunti a un linguaggio-Negrita che dentro un panorama scaduto riscatti le nostre fragilità di band, rendendoci originali nel nostro muoversi fra le novità del mondo. E il tour che parte oggi in fondo è un altro banco di prova per capirlo».

avvenire

Giornalismo e intelligenza artificiale: apocalittici o integrati?

Giornalismo e intelligenza artificiale: apocalittici o integrati?

Francesco Paulo Marconi dimostra meno dei suoi trentadue anni. Portoghese di nascita, dopo aver studiato economia alla Cattolica di Milano è approdato negli Stati Uniti con la convinzione che le macchine abbiano bisogno dell’uomo almeno quanto l’uomo ha bisogno delle macchine. Marconi – che collabora stabilmente con il centro di giornalismo digitale della Columbia University – è stato responsabile della pianificazione della più grande agenzia di stampa mondiale, la Associated Press, e da qualche settimana guida il settore di ricerca e sviluppo del “Wall Street Journal”: l’osservatorio ideale per cercare di comprendere che cosa sta veramente accadendo nel mondo dell’informazione. Il rapporto tra intelligenza (non solamente artificiale) e arte del racconto è l’argomento affrontato ieri da Marconi nel primo incontro della nuova serie di “Meet the Media Guru”, la rassegna milanese patrocinata da Fondazione Cariplo. «Siamo ancora in una fase di transizione – spiega –, l’importante è cercare un equilibrio tra le spinte opposte che, anche questa volta, vengono scatenate dal processo di innovazione».

Ma il digitale non è una novità assoluta?

«Il punto non è la novità in sé, ma il genere di reazioni che suscita e che, in sostanza, sono analoghe a quelle che hanno accompagnato l’avvento di ogni tecnologia della comunicazione, dal telegrafo alla televisione, senza dimenticare la stessa scrittura. Ogni volta ci sono stati gli scettici e gli entusiasti. E ogni volta l’innovazione si è davvero affermata solo quando ci si è resi conto di quali fossero i benefici».

Anche passando per tentativi ed errori?

«È il procedimento caratteristico della ricerca scientifica, dove la formulazione dell’ipotesi di lavoro precede la verifica di laboratorio. Un metodo completamente diverso rispetto a quello giornalistico, che esclude la pubblicazione di notizie la cui attendibilità non sia verificata. La svolta della quale siamo chiamati a essere protagonisti consiste esattamente in questo: trovare il modo di sperimentare e, insieme, di rispettare le regole della corretta informazione. Già adesso, del resto, le redazioni più dinamiche operano con lo stile e nello spirito delle startup tecnologiche».

Può fare qualche esempio?

«Una tendenza che si sta diffondendo è quella di disegnare scenari che consentano non tanto di prevedere le notizie, ma di adeguarsi alle conseguenze che da un’eventuale notizia potrebbero derivare. Si parte da ipotesi anche estrema, come la totale estinzione del mercato pubblicitario, e ci si interroga su come comunicarla e fronteggiarla. Non si tratta di un esercizio teorico, ma di un’educazione a cambiamenti che sono ormai in atto. Come quello degli home-less media».

“Senza tetto” in che senso?

«Nel senso che distribuiscono contenuti giornalistici attraverso piattaforme di cui non sono proprietari. Lo fanno da tempo, sia pure in forma ibrida, le testate giornalistiche impegnati a diffondere articoli sui social network, ma esistono anche situazioni in cui le notizie ar- rivano da soggetti che non dispongono neppure di una propriahomepage: non per questo, però, risultano meno riconoscibili o influenti».

Si potrebbe obiettare che stiamo ragionando in termini di marketing.

«Ma c’è molto di più di questo. Penso a tutta una serie di applicazioni e di strumenti che già adesso possono venire incontro alle necessità del giornalista, rendendo più rapido e produttivo il lavoro di ricerca. Si va dal sistema che genera e personalizza brevi testi sulla base delle informazioni ricevute (utilissimo per evitare operazioni altrimenti ripetitive, come quelle relative ai bollettini di Borsa o alle previsioni del tempo) fino agli aggregatori di dati che permettono di ricostruire un quadro straordinariamente ampio a partire dal riscontro di un numero limitato di episodi verificatisi su scala locale».

Fa tutto l’intelligenza artificiale?

«L’intelligenza artificiale fa molto, specie in termini di machine learning, ossia affinando le proprie competenze sulla base delle conoscenze acquisite. Ma ci vuole e ci vorrà sempre l’intuito del cronista per riconoscere la notizia. D’altro canto, anche il talento narrativo di un giornalista può trovare appoggio nella tecnologia, magari attraverso i programmi che, una volta volta individuati i punti salienti di un articolo, propongo in modo automatico sunti e sommari».

Non c’è il rischio di demandare troppo alla tecnica?

«I rischi ci sono. Prenda le fake news. Ci sono programmi che permettono di riconoscerle sulla base di alcuni indicatori ormai consolidati (se si diffonde troppo velocemente, è molto probabile che la notizia sia falsa), ma anche software che consentono contraffazioni di sbalorditiva verosimiglianza. Per non parlare della questione della privacy, che va molto al di là della vicenda, pure eclatante, di Cambridge Analytica. La Cina, in particolare, dispone di apparati di controllo impressionanti, il cui utilizzo ci è quasi completamente sconosciuto».

Siamo destinati ad arrenderci agli algoritmi?

«Al contrario, il nostro compito è semmai quello di mantenere il controllo, anche e specialmente per quanto riguarda i processi dell’informazione. Non dobbiamo dimenticare che dietro un algoritmo c’è sempre un programmatore, vale a dire un essere umano. Analogamente, da un essere umano un algoritmo può e deve essere interrogato per mettere alla prova la sua affidabilità. Nessun giornalista pubblicherebbe mai una notizia solo perché gli è stata riferita da una fonte. Chiederebbe conferme, riscontri, documenti. Allo stesso modo, davanti a un’informazione fornita da un algoritmo, il reporter di oggi ha il diritto e il dovere di verificare da dove vengono e come sono stati elaborati i dati di partenza. È una competenza nuova rispetto al passato, ma acquisirla consente di essere più creativi e, nello stesso tempo, più autorevoli e incisivi».

avvenire

Papa Francesco: la Chiesa e il mondo hanno bisogno della misericordia

Papa Francesco: la Chiesa e il mondo hanno bisogno della misericordia

“Il Vangelo ricorda che chi è chiamato a dare testimonianza della Risurrezione di Cristo deve lui stesso, in prima persona, nascere dall’alto”. Lo ha detto il Papa durante la Messa concelebrata in San Pietro, all’Altare della Cattedra, con i missionari della misericordia.”Questo significa lasciare veramente il primato al Padre, a Gesù e allo Spirito Santo nella nostra vita – ha spiegato Francesco -. Attenzione: non si tratta di diventare preti invasati, quasi che si fosse depositari di un qualche carisma straordinario. No. Preti normali, semplici, miti, equilibrati, ma capaci di lasciarsi costantemente rigenerare dallo Spirito, docili alla sua forza, interiormente liberi – anzitutto da sé stessi – perché mossi dal vento dello Spirito che soffia dove vuole”.

Sia la Chiesa sia il mondo di oggi hanno particolarmente bisogno della Misericordia perché l’unità voluta da Dio in Cristo prevalga sull’azione negativa del maligno che approfitta di tanti mezzi attuali, in sé buoni, ma che, usati male, invece di unire dividono”. “Noi siamo convinti che l’unità è superiore al conflitto – ha aggiunto -, ma sappiamo anche che senza la Misericordia questo principio non ha la forza di attuarsi nel concreto della vita e della storia”.

I missionari della Misericordia a Roma avevano già incontrato il Papa nella Domenica della Divina Misericordia: oggi prima di concelebrare la Messa nella Basilica di San Pietro con il Papa erano stati ricevuti di nuovo nella Sala Regia del Palazzo Apostolico. In questa occasione papa Francesco ha rivolto loro un discorso (TESTO INTEGRALE) al termine del quale ha raccontato nuovamente (lo aveva fatto all’inizio del Pontificato) di quando rubò la croce a un confessore morto.

“E vorrei finire con due aneddoti – ha raccontato Francesco – di due grandi confessori, ambedue a Buenos Aires. Uno, un sacramentino, che aveva avuto lavori importanti nella sua congregazione, è stato provinciale, ma sempre trovava tempo per andare al confessionale. Io non so quanti, ma la maggioranza del clero di Buenos Aires andava a confessarsi da lui. Anche quando san Giovanni Paolo II era a Buenos Aires e ha chiesto un confessore, dalla Nunziatura hanno chiamato lui. Era un uomo che ti dava il coraggio di andare avanti. Io ne ho fatto esperienza perché mi sono confessato da lui nel tempo in cui ero provinciale, per non farlo con il mio direttore gesuita… Quando cominciava “bene, bene, sta bene”, e ti incoraggiava: “Va’, va’!”. Com’era buono. E’ morto a 94 anni e ha confessato fino a un anno prima, e quando non c’era in confessionale si suonava e lui scendeva. E un giorno, io ero vicario generale e sono uscito dalla mia stanza, dove c’era il fax – lo facevo tutte le mattine presto per vedere le notizie urgenti –, era la domenica di Pasqua e c’era un fax: “Ieri, mezzora prima della veglia pasquale, è venuto a mancare il padre Aristi”, così si chiamava… Sono andato a pranzo alla casa di riposo dei sacerdoti a fare la Pasqua con loro e al rientro sono andato alla chiesa che era al centro della città, dove c’era la veglia funebre. C’era la bara e due vecchiette che pregavano il rosario. Mi sono avvicinato, e non c’era nessun fiore, niente. Pensavo: ma questo è il confessore di tutti noi! Questo mi ha colpito. Ho sentito quanto brutta è la morte. Sono uscito e sono andato a 200 metri, dove c’era un posto di fiori, quelli che ci sono nelle strade, ho comprato alcuni fiori e sono tornato. E, mentre mettevo i fiori lì presso la bara, ho visto che nelle mani aveva il rosario… Il settimo comandamento dice: “Non rubare”. Il rosario è rimasto là, ma mentre facevo finta di sistemare i fiori ho fatto così e ho preso la croce. E le vecchiette guardavano, quelle vecchiette. Quella croce la porto qui con me da quel momento e chiedo a lui la grazia di essere misericordioso, la porto con me sempre. Questo sarà stato nell’anno ’96, più o meno. Gli chiedo questa grazia. Le testimonianza di questi uomini sono grandi”.

“Poi l’altro caso – ha sottolineato papa Francesco -. Questo è vivo, 92 anni. E’ un cappuccino che ha la coda dei penitenti, di tutti i colori, poveri, ricchi, laici, preti, qualche vescovo, suore… tutti, non finisce mai. E’ un gran perdonatore, ma non un “manica larga”, un gran perdonatore, un gran misericordioso. E io sapevo questo, lo conoscevo, due volte sono andato al santuario di Pompei dove lui confessava a Buenos Aires, e l’ho salutato. Adesso ha 92 anni. In quel tempo ne avrà avuti, quando è venuto da me, 85. E mi ha detto: “Voglio parlare con te perché ho un problema. Ho un grande scrupolo: a volte mi viene da perdonare troppo”. E mi spiegava: “Io non posso perdonare una persona che viene a chiedere il perdono e dice che vorrebbe cambiare, che farà di tutto, ma non sa se ce la farà… Eppure io perdono! E a volte mi viene un’angoscia, uno scrupolo…”. E gli ho detto: “Cosa fai quando ti viene questo scrupolo?”. E lui mi ha risposto così: “Vado in cappella, nella cappella interna del convento, davanti al tabernacolo, e sinceramente chiedo scusa al Signore: “Signore, perdonami, oggi ho perdonato troppo. Perdonami… Ma bada bene che sei stato tu a darmi il cattivo esempio!”. Così pregava quell’uomo”.

A due anni dalla istituzione del loro ministero durante il Giubileo, i missionari della misericordia si sono ritrovati in Vaticano, dall’8 all’11 aprile per un secondo grande incontro, organizzato dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Oltre 550 missionari provenienti dai cinque continenti a Romahanno vissuto momenti di catechesi e preghiera. Oltre a testimonianze sulle attività pastorali svolte nelle varie diocesi, hanno celebrato il sacramento della Riconciliazione, cuore di questo speciale ministero istituito dal Papa. I sacerdoti hanno ricevuto l’Annuario che raccoglie i contatti di tutti gli 897 missionari della misericordia attivi in questo momento.

Nel video le testimonianze dei Missionari della Misericordia

Papa Francesco il 1° maggio al Santuario romano del Divino Amore

Papa Francesco si recherà in visita al Santuario romano del Divino Amore a Roma il primo maggio. “I pellegrini abituali sono molto ansiosi e gioiosi per questa visita”, ha spiegato il Rettore del Santuario, don Luciano Chagas Costa. Il Pontefice dovrebbe arrivare al Santuario intorno alle 17 per la recita del rosario ma “è ancora presto”,dice il Rettore, per il programma dettagliato che non è stato ancora definito.

È la prima volta che Francesco si reca al santuario mariano di Roma. L’ultima visita di un Pontefice è stata quella di Benedetto XVI nel 2006, sempre il primo maggio che, come spiega don Chagas Costa, è la data con cui tradizionalmente la Chiesa apre “il mese mariano”.

Privacy. L’accusa: YouTube «ruba» i dati dei bambini

L'accusa: YouTube «ruba» i dati dei bambini

YouTube, la piattaforma online di video comprata da Google nel 2006, è accusata di aver raccolto i dati personali dei bambini per “targettizzare” meglio le proprie pubblicità e ottenere profitti più elevati.
La denuncia arriva da un gruppo formato da 23 studi di avvocati e da diverse associazioni di consumatori statunitensi e che ha esposto un reclamo alla Federal Trade Commission (l’Antitrust Usa) per violazione delChildren’s Online Privacy Protection Act, una legge sull’utilizzo che si può fare dei dati dei bambini sotto i 13 anni.

YouTube sotto accusa: «Raccoglie i dati dei bambini e li sfrutta per la pubblicità»

Le accuse esposte in un documento di 59 pagine ruotano attorno al fatto che nei termini di utilizzo di YouTube si fa riferimento a un’età ben precisa per utilizzare il servizio di video in streaming: 13 anni. Ma in realtà sono tantissimi i canali e i video dedicati ai bambini compresi tra i 6 e i 12 anni. Canali e video che infrangerebbero le stesse regole decise da YouTube. Secondo gli autori del reclamo, il servizio di video in streaming è diventato in questi anni “una vera e propria televisione per bambini” e Google guadagnerebbe miliardi di dollari ogni anno tramite la pubblicità, ma senza fornire il dovuto supporto ai bambini per spiegargli i pericoli della Rete. YouTubein questo modo riuscirebbe a raccogliere informazioni sensibili sui bambini sotto i 13 anni e le utilizzerebbe per “profilare” i più piccoli e mostrargli delle pubblicità ad hoc.

Tra i dati raccolti ci sarebbero la geolocalizzazione, il numero identificativo del dispositivo da cui viene visto il video e il numero di telefono. Tutto questo avverrebbe senza mostrare nessuna notifica sul dispositivo e senza avvertire i genitori dei bambini.

La risposta di YouTube dopo l’esposto all’Antitrust

“Leggeremo l’esposto e valuteremo se possiamo fare miglioramenti”, ha replicato un portavoce di Google. “Poiché YouTube non è per bambini, abbiamo investito molto nella creazione della app YouTube Kids per offrire una alternativa progettata apposta per loro”. Non a caso, dopo questo scandalo YouTube sta pianificando di rilasciare “nelle prossime settimane negli Stati Uniti” una nuova versione dell’app YouTube Kids che offrirà ai genitori la possibilità di eliminerà i video suggeriti algoritmicamente e non dovrebbe mostrare più neanche contenuti non adatti a un pubblico di bambini.

Difficile dire a cosa porterà il reclamo: per il momento la denuncia è ancora alle fasi iniziali e se l’Antitrust statunitense deciderà di proseguire nell’inchiesta dovrà dimostrare che YouTube raccoglie realmente informazioni sensibili sui bambini sotto i 13 anni. Nei prossimi mesi se ne saprà sicuramente di più.

da Avvenire