Musica Sacra / «Lux in tenebris», le gemme musicali della Settimana Santa

La “Luce nelle Tenebre” del titolo del nuovo cd firmato dal soprano Silvia Frigato e dall’ensemble strumentale Talenti Vulcanici diretti da Emanuele Cardi è quella con cui il sacrificio in croce del Salvatore rischiara simbolicamente l’umanità dolente offuscata dal suo peccato. Un tema che la storia della musica sacra ha investigato lungo i secoli attraverso le più disparate soluzioni stilistiche e formali, e che questo progetto discografico esplora andando a riscoprire alcune gemme nascoste del repertorio liturgico per il Triduo pasquale riconducibile alla grande scuola tardo-barocca napoletana.
Ne sono protagonisti tre diversi compositori che rappresentano altrettante generazioni di una dinastia evidentemente talentuosa: Francesco Feo (1691-1761) è zio di Gennaro Manna (1715-1779), a sua volta zio di Gaetano Manna (1751-1804). Ma i punti di contatto non finiscono qui: recenti studi musicologici hanno infatti dimostrato che i tre autori si sono avvicendati nella carica di maestro di cappella presso la Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, nel cuore del centro antico della città di Napoli, che custodisce un suggestivo Ipogeo sotterraneo tradizionalmente destinato al culto dei defunti.
Ed è proprio qui che le Lamentazioni per la Settimana Santa dei Manna trovano la cassa di risonanza ideale per portare in scena la loro profondità espressiva: pagine intense, intrise di quel senso di accentuata teatralità così caratteristico del repertorio partenopeo dell’epoca, forse meno incalzante nella cantata italiana di Feo La sinderesi – una meditazione sui temi della sofferenza, del peccato e del pentimento – ma ancora evidente nel breve Gloria “a voce sola con violini” di Gennaro Manna, che chiude il programma aprendo verso una prospettiva di certezza per la promessa di salvezza del Risorto. Musiche riproposte con ritmo, colore e intensità, grazie a una interpretazione che sa su quali elementi fare leva per lasciare in disparte la retorica più insidiosa.

Lux in Tenebris
Silvia Frigato, Talenti Vulcanici, Emanuele Cardi
Arcana / Self-Tàlea. Euro 20,00

da Avvenire

Olanda. La «polvere dell’eutanasia» fa la prima vittima: è una 19enne

La giovane Ximena Knoll, uccisa dalla polvere eutanasica

La giovane Ximena Knoll, uccisa dalla polvere eutanasica

La polvere letale pubblicizzata da «Laatste wil» (Clw), la «Cooperativa ultima volontà », per il suicidio assistito ha mietuto la prima vittima, Ximena Knol: una dolcissima ragazza di 19 anni, di Uden, nel sud dell’Olanda, depressa a causa di un abuso sessuale che le aveva devastato il fisico, la mente e il cuore. Ximena non era sola, i suoi genitori l’amavano, era seguita da uno psicologo. Tempo fa un medico aveva rifiutato la sua richiesta di eutanasia. Forse ce l’avrebbe fatta se non avesse avuto l’immediata disponibilità della sostanza letale, un conservante che si vende anche via Internet.

Dopo averlo raffinato in una sottile polvere bianca, viene sciolto in un bicchiere d’acqua e la morte arriva, veloce ed indolore, nel giro di 20 minuti. Gli ordini del prodotto però non possono essere inferiori a 9 tonnellate, data la sua vera finalità, mentre per suicidarsi ne bastano 2 grammi. Clw ha pertanto consigliato ai suoi soci (passati dai 3mila del 2013 ai 22mila di oggi) di fare un unico acquisto da dividersi fra di loro, mettendo a disposizione una cassaforte dove conservare le dosi non utilizzate. Da mesi va avanti – invano – la protesta dei cittadini, per impedire l’orrore.

Ora finalmente il premier Rutte ha promesso di occuparsi «seriamente del caso». È stata aperta un’indagine per valutare la responsabilità diretta dell’associazione. Alcuni fornitori hanno sospeso la vendita del prodotto ai privati, a per la povera ragazza è troppo tardi. È stata la polizia a trovare il suo corpo ormai senza vita, allertata dallo psicologo dopo un suo preoccupante messaggio. Accanto a lei una lettera d’addio.

I genitori Randy e Caroline hanno inviato la notizia della morte a tutti i partiti, ritenendoli responsabili della scomparsa della figlia. «La nostra Ximena, affettuosa, socievole, sempre disposta ad aiutare tutti, poteva essere salvata» ha detto la mamma, distrutta dal dolore, in un programma tv. «La colpa è di una società impietosa e indifferente, e del governo, che ha sottovalutato il problema» noto da tempo.

da Avvenire

L’intervista. Genomica, biometria, big data: ci serve una nuova bioetica?

Genomica, biometria, big data: ci serve una nuova bioetica?

I temi oggetto del dibattito bioetico riguardano la vita che è di tutti: la generazione, la vulnerabilità, la morte, la cura, gli affetti. È proprio la vita che è di tutti e il pensiero sulla vita al centro del recente volume Dalla bio-etica alla tecno-etica: nuove sfide al diritto (Giappichelli, 395 pagine, 38 euro), di cui è autrice Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto all’Università Lumsa di Roma, vice-presidente del Comitato nazionale per la bioetica (2007-2017), componente dello European Group on Ethics in Science and New Technologies (Ege) presso la Commissione europea e membro del Comitato internazionale di bioetica (Ibc) dell’Unesco. L’autrice, muovendo da una prospettiva che promuove e difende l’intrinseca dignità di ogni essere umano, offre una panoramica particolarmente accurata e chiara sia dei temi che via via sono divenuti oggetto della riflessione bioetica sia delle diverse posizioni che si sono andate delineando a livello internazionale.
Può indicarci gli snodi che ritiene più significativi nella storia ormai cinquantennale della bioetica?
Il primo è l’ampliamento della riflessione morale dagli interventi possibili sulla vita dell’uomo a quelli sulla vita non umana (animale, ambiente) e non ancora esistente (future generazioni). Il secondo, nato dall’esigenza di elaborare regolamentazioni per la società, è il passaggio dalla bioetica alla biogiuridica. Il più recente è il percorso dalla bio-etica, o etica della biomedicina, alla tecno-etica, o etica delle cosiddette tecnologie convergenti che includono nanotecnologie, biotecnologie, informatica, scienze cognitive.
In Occidente nel dibattito bioetico si confrontano e si fronteggiano differenti prospettive: quali sono le più rilevanti e quali i loro principi cardine?
Ci sono le teorie libertarie e utilitaristiche che, sulla base del principio di autodeterminazione individuale e di convenienza sociale, ammettono forme di disponibilità della vita, soprattutto nei confini iniziale e finale, e la teoria che riconosce la dignità intrinseca dell’essere umano, dal concepimento alla morte, e considera la vita un bene indisponibile, prioritario rispetto al progresso tecno-scientifico.
In ambito europeo, presso l’Ege, e internazionale, all’Unesco, c’è una posizione che ha assunto posizione dominante?
La funzione prioritaria dei comitati di bioetica è riflettere in modo interdisciplinare e pluralistico sui principali temi emergenti dal progresso tecno-scientifico al fine di informare la società e offrire una consulenza ai governi in vista di una regolazione. L’obiettivo è elaborare documenti condivisi, ricercando una mediazione – nella disponibilità a tenere in considerazione le ragioni degli altri – per identificare valori condivisi. Difficile dire se esista una posizione dominante: certamente si può rilevare che le posizioni estreme dal carattere impositivo e non dialogico tendono a rimanere emarginate dalla discussione.
Nel dibattito internazionale quali sono i valori al momento più condivisi, e quali auspica lo diventino?
L’orizzonte di riferimento entro il quale si sta costruendo il dialogo internazionale è la dottrina dei diritti dell’uomo e il principio condiviso della priorità dell’uomo sul progresso della scienza e della tecnica: un principio che può essere declinato in modi diversi, ma che ha comunque assunto una centralità essenziale nella coscienza collettiva. Si tratta di un minimo etico rilevante che consente di negare la legittimità di alcune posizioni radicali (ad esempio la commercializzazione del corpo e delle sue parti). L’auspicio è che i “minimi etici” possano sempre più consentire l’espressione di “massimi etici”, con il riconoscimento dei valori umani fondamentali.

Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica

Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica


I documenti elaborati dai comitati nazionali di bioetica e da quelli istituiti a livello europeo hanno reale incidenza sulle legislazioni nazionali e comunitarie e sulla comunità scientifica?
L’impressione generale è che i comitati stiano diventando punti di riferimento rilevanti in vista di regolamentazioni percepite come sempre più urgenti a livello nazionale e internazionale. Di fronte alla complessità dei problemi e all’accelerazione del progresso tecno-scientifico, con la conseguente difficoltà del diritto a stare al passo, questi documenti stanno divenendo strumenti per la governance. L’obiettivo che oggi si sta delineando è arrivare a costruire un’etica integrata nel processo di progettazione tecnologica che rifletta l’evoluzione tecno-scientifica prima e durante, non solo dopo: gli eticisti dovrebbero interagire con gli scienziati nella fase dello sviluppo della conoscenza e delle tecnologie per orientare la ricerca e individuare insieme tecnologie che già nella fase di progettazione offrano condizioni e requisiti per l’eticità dell’applicazione. Un compito che gli organismi di bioetica stanno assumendo è anche quello di costruire piattaforme di discussione tra gli esperti (scienziati, eticisti, giuristi) e i cittadini.
Quali saranno i temi oggetto di studio nei prossimi anni?
La discussione, che continua sui “tradizionali” temi bioetici di inizio e fine vita, cura e sperimentazione, si sta aprendo a questioni nuove, che includono le neuroscienze, la genomica, la biometria, i big data, il potenziamento, la roboetica, le tecnologie convergenti.

da Avvenire

Il Vangelo Domenica delle Palme 2018. Guardare la croce con gli occhi del centurione

Domenica delle Palme
Anno B

[…] Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno. Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. […]

Gesù entra a Gerusalemme, non solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d’amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga. Dio corteggia la sua città, in molti modi. Viene come un re bisognoso, così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Dio umile che non si impone, non schiaccia, non fa paura. «A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco).
Il Signore ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito. Ha bisogno di quel puledro d’asino, di me, ma non mi ruberà la vita; la libera, invece, e la fa diventare il meglio di ciò che può diventare. Aprirà in me spazi al volo e al sogno.
E allora: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, in ogni casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene, eternamente incamminato, viaggiatore dei millenni e dei cuori. E non sta lontano.
La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. La cosa più bella da fare per viverli bene è stare accanto alla santità profondissima delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Stare accanto, con un gesto di cura, una battaglia per la giustizia, una speranza silenziosa e testarda come il battito del cuore, una lacrima raccolta da un volto.
Gesù entra nella morte perché là è risucchiato ogni figlio della terra. Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all’uomo che è in croce. Perché l’amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere con l’amato, stringersi a lui, stringerlo in sé, per poi trascinarlo in alto, fuori dalla morte.
Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. La croce è l’abisso dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. L’ha capito per primo un pagano, un centurione esperto di morte: costui era figlio di Dio. Che cosa l’ha conquistato? Non ci sono miracoli, non risurrezioni, solo un uomo appeso nudo nel vento. Ha visto il capovolgimento del mondo, dove la vittoria è sempre stata del più forte, del più armato, del più spietato. Ha visto il supremo potere di Dio che è quello di dare la vita anche a chi dà la morte; il potere di servire non di asservire; di vincere la violenza, ma prendendola su di sé.
Ha visto, sulla collina, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. E il Crocifisso ne possiede la chiave.
(Letture: Isaia 50,4-7; Salmo 21; Filippesi 2,6-11; Marco 14,1-15,47)

di Ermes Ronchi, Avvenire

L’esperienza. Gruppi d’acquisto familiari: ecco come funziona la spesa solidale

Foto dall'archivio Ansa

Foto dall’archivio Ansa

La solidarietà non vuole sconti. Chi decide di entrare in una rete Gaf (Gruppi di acquisto familiare) non punta al 3×2, ma fa una scelta ‘politica’. Con la sua opzione ribadisce cioè che la famiglia, anche quando fa la spesa, è soggetto sociale, economico e, quindi, anche politico. Se poi i criteri seguiti per gli acquisti sono quelli delconsumo consapevole, del rispetto del lavoratore e dell’ambiente, anche la convenienza non è disprezzabile.

Ma come è possibile che l’acquisto di un etto di prosciutto, quattro zucchine e due scatole di biscotti sia così rilevante da diventare addirittura una decisione politica? Ci sono varie strade per rendersene conto. La più immediata è quella di trascorrere un po’ di tempo con un gruppo di ex disoccupati che, proprio grazie alle scelte economiche di un centinaio di famiglie solidali, hanno potuto ritrovare, con la dignità del lavoro, anche la fiducia in se stessi.

Alcuni degli operatori del progetto Gaf a Limbiate, in provincia di Monza

Alcuni degli operatori del progetto Gaf a Limbiate, in provincia di Monza

Siamo a Limbiate, hinterland milanese, nel magazzino messo a disposizione da una parrocchia. Una decina tra uomini e donne smista la merce consultando il ‘foglio d’ordine’, inscatola, sigilla, spedisce. Poi con i furgoni la spesa arriverà al domicilio chi l’ha ordinata. La stessa procedura insomma già da tempo adottata dai colossi della grande distribuzione. Stesso metodo, profondamente diverso l’obiettivo. Fare la spesa qui, via web naturalmente, vuol dire aiutare le persone più sfortunate a diventare protagoniste del proprio riscatto. Ma, allo stesso tempo, mettere a fuoco una consapevolezza decisiva: le scelte di ogni famiglia pesano sul futuro di tutti.

La ricetta dei gruppi di acquisto familiare – progetto Afi, associazione delle famiglie – è tanto semplice da apparire banale. Però era necessario che qualcuno ci pensasse e fosse disposto a dedicare tutto il suo tempo libero, e non solo, per trasformarla in buona prassi a disposizione di tutti. In questo caso la persona ha il volto e il cuore di Cesare Palombi che fa parte del direttivo nazionale Afi.

«Questo progetto è partito in sordina – racconta – ma oggi coinvolge già una decina di piccoli Comuni della Brianza milanese. Abbiamo poi definito accordi per trasferire l’esperienza Gaf in realtà più importanti come Sesto San Giovanni e, entro il 2018, Milano». All’orizzonte poi spuntano altre aree del territorio nazionale dove Afi è presente, tra cui Veneto, Emilia, Calabria. Facile comprendere che quanto più si allargherà l’esperienza, tanto più numerose saranno le persone aiutate. I numeri parlano chiaro. Oggi, grazie a un centinaio di famiglie che fanno la spesa attraverso i Gaf, è stato possibile offrire un lavoro part-time a 14 persone. «Abbiamo scelto di puntare su over 35 disoccupati con figli, italiani o immigrati», continua Palombi.

Indicazioni chiare anche per la scelta della grande distribuzione. Solo marchi della rete Confcooperative – quindi Unes, U2, Sigma. Famila – perché «ci assicurano un controllo di filiera trasparente che da un lato offre garanzie ambientali e di rispetto dei lavoratori, dall’altro mette al riparo da rischi legati all’infiltrazione delle cosiddette agromafie». E sarebbe strabico un impegno solidale che ignorasse il riferimento della legalità. «E poi – osserva ancora il responsabile dell’iniziativa – il ritiro della spesa diventa occasione di incontro e si attivano relazioni di buon vicinato e mutuo autoaiuto. Le persone che hanno la possibilità di tornare a lavorare non sono oggetto di semplice assistenzialismo».

C’è insomma un differenza profonda tra la distribuzione di pacchi viveri – comunque benemerita – e la logica a cui si ispira la rete Gaf che, attraverso la promozione umana, punta alla riqualificazione della persona. E con i Gas (gruppi di acquisto solidale) c’è qualche parentela? «Sono realtà importanti e lodevoli – conclude Palombi – ma puntando sulla qualità, sul km zero e sulla sostenibilità ambientale spesso sono costretti a imporre prezzi che per le nostre famiglie sono troppo elevati. Magari un giorno potremmo arrivarci. Al momento la grande distribuzione ‘etica’, con i criteri a cui sopra facevamo riferimento, ci consente il compromesso più accettabile».

La tratta. Liberate dai riti «voodoo», nigeriane ancora vittime dei clienti (italiani)

Particolare di uno scatto di SIlvia Morara, all'interno della mostra fotografica "Mai più schiave" del 2008

Particolare di uno scatto di SIlvia Morara, all’interno della mostra fotografica “Mai più schiave” del 2008

Il grande ‘Oba’ (‘re’) Ewuare II dell’Edo State, in Nigeria, ha ufficialmente vietato i riti voodoo che vincolano le donne vittime della tratta a pagare il debito contratto con i trafficanti di esseri umani o con le madam che gestiscono il mercato delle ragazze sulle strade italiane. Le ha liberate da un incubo. Questa notizia può sembrare poca cosa, in realtà ha portato un forte vento di speranza, capace di ribaltare in gioia la paura e il terrore dello sfruttamento o la disperazione per le violenze subite da migliaia di giovani nigeriane fatte transitare nel nostro e in altri Paesi del mondo ai fini della prostituzione coatta. La costante richiesta di sesso a pagamento anche sulle strade italiane in questi anni ha fruttato ingenti guadagni a trafficanti e maman. Per questo la notizia ha fatto esultare le vittime portate in Italia con l’inganno e le organizzazioni impegnate nella lotta contro la tratta. Migliaia di giovani donne dopo aver vissuto l’umiliazione e lo sfruttamento del loro giovane corpo ora possono pensare di sentirsi libere di vivere la loro giovinezza e guardare al futuro senza timori di ritorsioni su di loro e sulle famiglie.

Questa novità importante mi ha fatta ritornare con la mente a qualche anno fa, al mese di luglio del 2007, quando a Benin City, capitale dell’Edo State, ci fu l’apertura ufficiale e solenne di una bellissima casa di accoglienza per donne vittime di tratta che ritornavano a casa, sia perché espulse dall’Italia in quanto prive di documenti, sia perché loro stesse chiedevano di poter ritornare con dignità. La struttura, con 18 posti letto, fu costruita grazie ai fondi dell’8 per 1.000 della Cei e gestita da religiose locali, anche loro desiderose di collaborare per aiutare le giovani ad evitare l’esodo verso il miraggio dell’Europa, come pure a riaccoglierle dopo la triste esperienza dello sfruttamento sessuale fatta in Italia, in modo che potessero riprendersi in mano la loro vita e il loro futuro. Il legame con le suore nigeriane risale al 2000, quando le invitammo in Italia per tre settimane affinché si rendessero conto di dove andavano a finire le giovani del loro Paese. Le vidi piangere sulle strade di notte osservando come erano ridotte le ragazze che fino a poco tempo prima erano piene di vita nelle loro scuole e parrocchie.

Da allora si è creata una fitta collaborazione: noi abbiamo incominciato a rimandare a casa in Nigeria le giovani distrutte dall’esperienza sulla strada e rovinate psicologicamente dai riti ‘voodoo’, pratiche di magia nera ad opera del witch craft doctor, lo ‘stregone’. Il fatto è che pur volendo tornare a casa, quelle ragazze avevano paura di essere rifiutate dalle famiglie, ossessionate dai riti voodoo per non aver pagato integralmente il grosso debito contratto con lo ‘stregone’ connivente con i trafficanti e con le maman, cioè le nigeriane che gestiscono il business della prostituzione. Le vittime sono sempre giovanissime, costrette a mettersi in mostra sul ciglio delle nostre strade per adescare clienti che dovrebbero essere ben coscienti di avere a che fare con delle schiave. Durante i giorni della nostra permanenza a Benin City abbiamo chiesto di incontrare il grande Oba e le sue 4 mogli. Sono state loro a rendere possibile l’incontro, sia perché desideravano omaggiare il loro Oba, sia perché volevano metterlo al corrente di questo problema dilagante. Gli abbiamo raccontato della triste situazione di migliaia di giovani donne provenienti in gran parte proprio dall’Edo State, trafficate e sfruttate spesso da donne africane che chiedevano una somma di 50-70 mila euro per poterle liberare dai riti voodoo cui le avevano costrette.

Eravamo ben coscienti del fatto che le madam che tornavano in Nigeria per le loro visite, ostentando grandi ricchezze e portando omaggi al grande Oba per chiedere la sua benedizione, lo facevano sulla pelle delle giovani sfruttate. Doni che grondavano sangue. L’Oba era rimasto colpito dalla nostra presentazione, ma si è limitato a sottolineare che anche da parte nostra c’era complicità perché gli uomini italiani compravano i corpi delle vittime. Aveva ragione. Al grande Oba, già anziano, è poi succeduto il figlio Ewuare II, figura molto autorevole che ha ricoperto l’incarico di ambasciatore della Nigeria in Angola, Svezia e Italia e ha lavorato anche alle Nazioni Unite. Fin dal suo insediamento nel 2016 ha collaborato con il governatore dell’Edo State e con l’agenzia locale contro la tratta di persone, il Naptip. La sua recente presa di posizione riguardo all’abolizione dei riti voodoo per punire coloro che volessero usare questi metodi per guadagnare soldi è stato un atto coraggioso. Durante una grande cerimonia ha liberato tutte le vittime di questi giuramenti tradizionali da qualsiasi coercizione. L’effetto è stato dirompente: tutte le nostre ragazze hanno chiesto se è vero che non dovranno più pagare il terribile debito. E hanno esultato alla risposta affermativa: finalmente sono libere.

Purtroppo negli ultimi cinque anni a causa della crescente domanda da parte di clienti italiani, dei moltissimi arrivi via mare e del crescente numero di richiedenti asilo politico la situazione sulle nostre strade si è aggravata. Attualmente le cifre della tratta di ragazze nigeriane sono esplose: solo negli ultimi 24 mesi ne sono sbarcate sulle nostre coste 15.600, tutte giovanissime, analfabete e spesso incinte. Vorrei lanciare una sfida provocatoria. Per bloccare l’esodo delle donne dalla Nigeria verso l’Europa, dove sono costrette a vivere in schiavitù, l’Oba ha infatti emanato una legge che punirà severamente coloro che non l’adempiranno, siano essi gli ‘stregoni’ con i loro riti intimidatori, come pure le madame che lucrano su migliaia di tante giovani messe sulle strade per essere usate come merce, usa e getta. E a questo punto mi domando: quando sarà il giorno in cui il governo di un Paese di cultura cattolica come il nostro affronterà seriamente il problema della prostituzione con una legislazione adeguata, capace cioè di considerare ‘reato’ la richiesta di sesso a pagamento, come è già stato fatto, con buoni risultati, in alcuni Paesi europei? Come possiamo parlare di un Paese civile ed emancipato quando sulle nostre strade vengono usate, abusate e distrutte, di giorno e di notte tra le 70 e le 100 mila giovani straniere?

Papa Francesco, parlando lunedì 19 marzo a un gruppo di 300 giovani provenienti da tutto il mondo per offrire il loro contributo alla preparazione del Sinodo dei giovani, ha ascoltato la testimonianza di una giovane nigeriana che si chiedeva: «Caro Papa, quello che più mi inquieta è proprio la domanda, i troppi clienti e molti di questi sono cattolici. Mi chiedo e ti chiedo: ma la Chiesa, ancora troppo maschilista, è in grado di interrogarsi con verità su questa alta domanda dei clienti?». Purtroppo questa terribile piaga non solo distrugge il nostro tessuto sociale, ma pure le nostre famiglie e i nostri giovani. Non serve nascondere la prostituzione nelle case chiuse o nei supermercati del sesso a pagamento per sanare una società malata ed egocentrista. Solo salvaguardando la dignità di ogni persona creata a immagine di Dio e non trattata come merce potremo creare una società che abolisce ogni forma di schiavitù, per sentirci e riconoscerci membri della grande famiglia umana voluta da Dio.

Missionaria della Consolata e presidente dell’Associazione «Slaves no more – Mai più schiave»

da Avvenire

Malasanità. Bimba morì di malaria. Infermiera non si sarebbe cambiata i guanti

Bimba morì di malaria. Infermiera non si sarebbe cambiata i guanti

Chiusa dalla Procura di Trento l’inchiesta sulla bimba di 4 anni, Sofia, morta ai primi di settembre del 2017, dopo un ricovero all’ospedale del capoluogo. Il fascicolo conferma, come già emerso un mese fa, la presenza di una sola indagata: un’infermiera del reparto di pediatria. Si sarebbe trattato dunque di un errore umano, che avrebbe portato al contatto tra il sangue di pazienti affetti da malaria con quello della piccola, che era in ospedale per altre patologie. Un’accusa che l’infermiera respinge.

La bambina era morta agli Spedali Civili di Brescia, trasferita d’urgenza dopo un ricovero a Trento, che per qualche giorno era coinciso con quelli per malaria di alcuni componenti di una famiglia del Burkina Faso, tornata dal paese d’origine. Il contagio, secondo la risultanza delle indagini, sarebbe avvenuto il 17 agosto, giornata in cui nel reparto di pediatria risultano 9 prelievi di sangue.
Potrebbe essere accaduto che guanti monouso siano stati usati due volte per errore. Oppure che la pulizia della cannula che viene messa ai pazienti sia stata effettuata, sempre per errore, con una medesima siringa. L’infermiera indagata per omicidio colposo, sentita dal pm Marco Gallina nei giorni scorsi, ha ripercorso i momenti del suo lavoro e ha escluso la possibilità di errori del genere e sottolineando di avere seguito le procedure, spiegando anche che il prelievo effettuato alla piccola non è avvenuto subito dopo quello dei pazienti con malaria.

Ci sono ora venti giorni di tempo per la difesa per decidere il da farsi, poi la Procura dovrà decidere se procedere con il rinvio a giudizio o con l’archiviazione.