7 Gennaio 2018 Battesimo del Signore (ANNO B) Foglietto Letture e Salmo

7 Gennaio 2018 Battesimo del Signore (ANNO B)

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L’evangelista Marco racconta il battesimo di Gesù con la sua abituale sobrietà. Non ha parlato (e non parlerà) della nascita di Gesù, e nemmeno della sua infanzia. Per lui, tutto ha inizio col battesimo di Gesù. I pochi versetti dedicati alla missione di Giovanni richiamano e riassumono in breve la lunga attesa, da parte dell’umanità, della venuta del Salvatore. La missione del Salvatore comincia con il far passare in secondo piano il precursore, il quale, potendo proporre soltanto un battesimo d’acqua, lascia il posto a colui che battezzerà nello Spirito Santo. Comincia una nuova era, una creazione assolutamente nuova. Il Creatore prende il posto della creatura. Il Salvatore scende nel Giordano come un peccatore, il giudice di questo mondo fa la parte di un nuovo Adamo. Gesù esce dall’acqua e intraprende la propria missione, come all’inizio l’uomo fu plasmato dal fango, mentre un flutto risaliva dalla terra e bagnava la superficie del suolo (Gen 2,6). Gesù riceve lo Spirito Santo come già un tempo: “Dio… soffiò nelle sue narici un alito di vita” (Gen 2,7). E Gesù, secondo Marco, diviene l’uomo nuovo, proprio come di Adamo si dice: “E l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). L’umanità ricomincia allora, col battesimo di Gesù, su basi nuove. Dovrà ancora passare attraverso l’esperienza della morte ed entrare quindi nella gloria della risurrezione. Dovrà ancora, e deve tuttora, trasformarsi lentamente in ogni uomo, aspettando il giorno in cui “vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi… Ed egli… riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13,26-27). Allora non ci sarà più battesimo (At 21,23-27).

 

Inediti. La questione mediorientale secondo Dossetti

Giuseppe Dossetti (1913-1996) è stato teologo, giurista e politico (Ansa)

Giuseppe Dossetti (1913-1996) è stato teologo, giurista e politico (Ansa)

Era il 1972 quando don Giuseppe Dossetti si trasferì in Terra Santa, a Gerico, città a maggioranza araba dove continuò a ruminare la Bibbia e a interrogarsi sul cristianesimo. Salvo alcuni rientri in Italia, visse lì una decina d’anni, con la maggior parte dei fratelli della Piccola Famiglia dell’Annunziata, mentre le sorelle stavano a Gerusalemme. Poi, fra l’ ’83 e il ’95, lo si sarebbe potuto incontrare – come capitò a chi scrive nelle nuove case “miste” della comunità da lui fondata: a Main (Giordania) o Ain Arik ( Territori Occupati). Ora a quegli anni di “vita monastica” lontano dall’Italia, è dedicato il nuovo numero della rivista Egeriaedita da Nerbini.

Introdotta da Marco Giovannoni, la monografia scandaglia quel periodo attraverso contributi differenti. Di carattere teologico e storico sul pensiero di Dossetti a proposito del «mistero di Israele» (Fabrizio Mandreoli) e dell’«islam enigma post-cristiano » (Ignazio De Francesco); di taglio geopolitico (Enrico Galavotti) e biblico (Giuseppe Ferretti e Nicola Apano); infine in relazione alla «scoperta delle Chiese orientali» ( Tommaso Bernacchia).
Si tratta di saggi che offrono testi inediti o poco circolati, avendo Dossetti connotato la sua presenza laggiù con nessun altro fine che «l’incoraggiare i cristiani a restare»,«l’attestare ascolto e attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche». Ed essendosi impegnato a rompere il silenzio solo quando necessario: cosa verificatasi più volte come documentano qui in particolare i saggi di De Francesco e Galavotti.

Il primo, ad esempio, restituendoci la forte consapevolezza degli effetti del conflitto arabo-israelianosull’inasprirsi del radicalismo islamico e la sopravvivenza delle locali comunità cristiane, come pure unalettura dossettiana della politica di Israele nella sua «funzione catalizzatrice di ogni contrasto fra cristiani e musulmani »(8 novembre ’78): nella previsione di una radicalizzazione dell’islam – effetto degli sconvolgimenti geopolitici nell’area – diventerà denuncia pubblica nel ’90, con una lettera non firmata al Regno all’avvio della Guerra del Golfo. «L’islamismo radicale aveva bisogno di questo e ne trarrà vantaggio. Anche se Saddam Hussein fosse eliminato, l’Occidente si troverà di fronte un islamismo radicale più difficile da combattere e ideologicamente più inestirpabile, sia nei paesi musulmani che nell’Europa stessa. Vi saranno conseguenze evidentissime per la chiesa… ».

Il tema, dilatato agli effetti dei flussi migratori musulmani verso Occidente, insieme alla questione del risveglio politico dei popoli arabi e alla ripresa del loro messaggio religioso, costituirà riflessione costante nell’ultimo periodo della vita di don Giuseppe. Spesso in un intreccio fra teologia e geopolitica. Basterà qui ricordare l’inedito discorso ai seminaristi di Venegono il 30 marzo ’93. Disse in quell’occasione: «Non so se voi vi rendete conto di quel che significa per il nostro paese inserito nel Mediterraneo a poche centinaia di chilometri dalla sponda africana, l’islam […]. L’islam ha una formulazione religiosa incomparabile, di una semplicità che può soddisfare i bisogni fondamentali dell’uomo e la sua intelligenza razionale […].È un monoteismo puro nella sua espressione più radicale, facilmente convertibile in una forma di secolarizzazione aggressiva. Quindi con una carica poi demografica enorme e con una esigenza di espansione incoercibile. Altro che comunismo! […]. So che ci possono essere formule più domestiche o addomesticabili, ma non il nocciolo duro dell’Islam».

Commenta De Francesco che è difficile concludere da queste parole se Dossetti davvero pensasse a una conversione dell’Europa all’islam, come sistema dottrinale potenzialmente sostitutivo di ideologie precedenti. Di certo si tratta di espressioni forti. Resta, ciò nonostante, il suo interrogarsi mite innanzi all’islam «enigma della storia», insieme al suo «essere lì dove i musulmani sono»; resta, innanzi a questo «mistero tremendo», l’impegno affidato in tre frasi dettate nell’introduzione a Main dell’adorazione eucaristica comunitaria al venerdì, al contempo intenzioni di preghiera e programma d’azione: «1. Per i credenti dell’islam e la loro piena conversione al Signore Gesù; 2. Per la nostra comprensione e discernimento più profondo in merito all’islam; 3. Per il rapporto della Chiesa e delle chiese con i musulmani».

Di grande interesse, poi, nel numero di Egeria, il contributo di Galavotti, che richiama tappe della biografia e del pensiero dossettiano utili a spiegarne l’evoluzione di posizioni. Ad esempio quella sfociata in unadesacralizzazione del blocco occidentale a guida statunitense, che si avverte nell’articolo «Inchiesta sull’America» uscito su Cronache Sociali nel ’47, sempre attribuito ad Alberto Toniolo, in realtà di Dossetti, dove addirittura registra la presenza «nel paese della libertà individuale e della felice stabilità sociale» di «alcune caratteristiche essenziali dei totalitarismi fascisti o del collettivismo marxista», nonché il profilarsi all’orizzonte americano del dilemma tragico sovrastante l’Europa «cioè la scelta tra una frattura rivoluzionaria o una reazione autoritaria all’interno e imperialista all’estero».

Altro passaggio su cui fermarci del testo di Galavotti quello dedicato alla reazione di Dossetti dopo le stragi di Sabra e Chatila. In quell’occasione, per non far passare il suo silenzio come condiscendenza o complicità scrisse che si era consumato nei campi profughi un «delitto senza ragione, nemmeno apparente di sicurezza militare, delitto a carico di vittime innocenti coperte poi dalla faccia della terra con i bulldozer» aggiungendo che «la responsabilità del governo israeliano e del suo esercito» era «palese a tutto il mondo», aggiungendovi l’aggravante dell’aver addossato l’esecuzione materiale del massacro a milizie ricordate per l’occasione come “cristiane”…».

Quando nel 1986, alla consegna dell’ Archiginnasio d’oro a Bologna, ripercorse la sua autobiografia, indicò nella sua persona da un lato «la memoria indelebile dell’olocausto ebraico e un’apertura e una sensibilità consonanti con la grande tradizione dell’Israele eterno – l’Israele spirituale…», dall’altro la «consapevolezza che il mondo intero, specialmente il nostro mondo occidentale (prima e più ancora che lo stesso Stato israeliano) ha commesso – e continua a commettere – nei confronti degli arabi palestinesi un’enorme ingiustizia (qualunque sia il loro errore o la loro colpa) e che la pace – nello stesso interesse dello Stato di Israele – non potrà esservi senza una riparazione effettiva delle ingiustizie consumate e senza la restituzione di una parte dei territori».

Galavotti ricorda anche le reazioni di Dossetti dopo il bombardamento della Libia del 1986 e Desert Storm, vaticinio sulle conseguenze portatrici di «tumultuose reazioni fra molti stati più o meno coinvolti»; «reazioni che nessuno sarà più in grado di dominare, e non solo in tutti i paesi arabi». Diversamente da occasioni precedenti, Dossetti invece lasciò circolare solo tra i membri della Piccola Famiglia la sua reazione all’attentato del ’94 presso la moschea di Hebron del colono Baruch Goldstein, dove morirono ventinove persone e centoventicinque furono ferite. Una strage che Dossetti dichiarò sacrilega, spiegabile a suo vedere «solo con l’aberrante cultura che ha dominato per anni gli inizi e il proseguimento sino ad ora dello Stato sionista», la cultura incarnatasi «nella politica degli insediamenti» e «nella prassi quotidiana dell’esercito israeliano» accusato di aver risposto per anni «a isolate azioni terroristiche arabe con i bombardamenti di massa indiscriminati e le sue implicazioni».

Parole giunte ad oltre vent’anni dall’arrivo in Medio Oriente e precedevano di due anni la sua morte. Bilancio di riflessioni di anni spesi nella convinzione che le grandi strutture ideologiche e politiche – pilastri del mondo non potevano accontentare i cristiani e dare loro pace: perché, come disse ad alcuni pellegrini in Terra Santa nel ’90 «consumano troppe ingiustizie e consumano troppa realtà umana».

da Avvenire

Primo caso in Italia. Impiantata mano bionica in una donna veneta

Almerina Mascarello, la 55enne con la mano bionica. L'esperimento, che è durato 6 mesi, si è appena concluso: a maggio la donna avrà una prototipo tutto per sé

Almerina Mascarello, la 55enne con la mano bionica. L’esperimento, che è durato 6 mesi, si è appena concluso: a maggio la donna avrà una prototipo tutto per sé

C’è la perizia clinica dei medici del Policlinico Gemelli di Roma, che hanno effettuato un intervento straordinario. C’è l’ingegno elettronico della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, a cui si deve un prototipo unico nel suo genere per funzionalità e dimensioni. E poi c’è Almerina Mascarello, la 55enne il cui volto sorridente ieri ha fatto il giro del mondo, appoggiato alla prima mano bionica impiantata su un essere umano.

Niente fantascienza hollywoodiana. Questa storia di cuore ed eccellenza tutta italiana comincia in un paesotto veneto, Montecchio Precalcino, il giorno che Almerina prende note di un numero trovato su una rivista dedicata all’invalidità. Lei, che da quasi 25 anni vive senza una mano – inghiottita da una pressa dell’industria meccanica in cui lavorava –, decide di chiamare e di mettersi a disposizione per un test su un’eventuale protesi: qualche dato, un’autorizzazione sulla privacy e «la ricontatteremo, grazie».

Immaginarsi la sorpresa, un anno dopo, per la telefonata dal Gemelli: «Signora, le chiediamo la sua disponibilità a fare da cavia per la sperimentazione di una mano bionica». La proposta è da capogiro, Almerina ha paura. Ci pensa su per qualche giorno e poi, a maggio dello scorso anno, dice di sì. «A giugno partivo per Roma – racconta commuovendosi ancora –. Ricordo mia figlia che mi saluta dal finestrino del treno e urla “Mamma sei una grande”».

Il cuore lascia spazio alla scienza. La prima sfida è quella di realizzare una mano che consenta ad Almerina di uscire dal laboratorio e camminare per strada, vivendo il più normalmente possibile la sua quotidianità: l’ultimo esperimento risale al 2014, su un uomo danese, con un’elettronica enorme e pesantissima, quindi impossibile da trasportare. Il passo da gigante lo compie il gruppo di Silvestro Micera, della Scuola Superiore Sant’Anna, miniaturizzando la protesi fino a rendere possibile il trasporto dell’attrezzatura informatica che guida l’arto vero e proprio in un zainetto. Una tecnologia da un centinaio di migliaia di euro.

Ancora Almerina, a passeggio con la mano bionica e lo zaino che contiene la tecnologia che la comanda

Ancora Almerina, a passeggio con la mano bionica e lo zaino che contiene la tecnologia che la comanda

Ora serve l’impianto. L’intervento – delicatissimo – spetta all’équipe del neurologo Paolo Maria Rossini, direttore dell’area neuroscienze del Policlinico Gemelli di Roma. Nel moncherino rimasto dopo un’amputazione restano i nervi: tocca a lui inserire degli elettrodi della grandezza di un capello in grado, sulla carta, di consentire che i segnali di movimento inviati dal cervello vengano trasmessi alla mano robotica. Mano che, sempre sulla carta, raccoglie l’input e risponde.

All’inizio non succede niente. E per un tempo infinito, ben due settimane. Poi Almerina, col suo “miracolo” in spalla, comincia a sentire quello che tocca: prima gli oggetti, poi la loro forma, la consistenza, addirittura la differenza tra zigrinature sottili o più grossolane. Un giorno, dopo essere riuscita persino a raccogliere dei fiori, lo urla quasi in lacrime: «Insomma dottore… È come se fosse tornata la mia mano!». L’entusiasmo è enorme, cuore e scienza insieme.

Ora bisogna aspettare. I pazienti di tutto il mondo, che la scienza faccia tesoro dell’esperimento italiano e compia nuovi passi avanti: «È solo l’inizio – assicura Micera del Sant’Anna –. Stiamo lavorando nella direzione di un sistema elettronico completamente impiantabile, di lunga durata e alla portata economica di tutti». L’esperto parla di una specie di “joystick” che potrebbe guidare anche altri arti robotici e costare appena un migliaio di euro. Almerina invece, dopo i suoi 6 mesi di fatica e coraggio («senza cui il test non sarebbe riuscito» assicurano i medici del Gemelli), attende di ricevere la mano fatta appositamente per lei. Arriverà a maggio, nella sua villetta a schiera di Montecchio, «e cambierà la mia vita per sempre».

da Avvenire

India. Indù attaccano un collegio cattolico

La prevaricazione dei gruppi induisti contro la minoranza cristiana in India ha molti aspetti e si nasconde dietro pseudo “giustificazioni”. Come quella fittizia di voler preservare una uniformità di tradizioni, se necessario, anche con la forza. Ieri centinaia di estremisti indù hanno cercato di forzare l’entrata del St. Mary’s Post Graduate College, istituto cattolico di Vidisha, nella diocesi di Sagar, Stato indiano di Madhya Pradesh. Il loro intento era di eseguire rituali indù all’interno dell’istituzione educativa costringendo gli studenti a prendervi parte.

Una situazione che la polizia è riuscita a controllare, evitando l’invasione della scuola e presidiando anche successivamente l’area. Come riferito all’agenzia Fides dal Segretario generale della Conferenza episcopale indiana, monsignor Theodore Mascarenhas, «la polizia del Madhya Pradesh ha assicurato alle autorità ecclesiastiche una protezione completa. I sacerdoti che gestiscono l’istituto, tuttavia, ritenevano la situazione potenzialmente molto pericolosa, poiché ci si aspettava che oltre 900 attivisti potessero agire in violazione degli ordini della polizia. Il 30 dicembre c’era già stata un’aggressione, nonostante la presenza di venti poliziotti».

Quella di Vidhisha è l’ultima di una serie di azioni violente verso i cristiani, almeno 23, che hanno segnato in India il tempo del Natale e l’avvio del nuovo anno
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Al punto da spingere nei giorni scorsi la Conferenza episcopale cattolica a sollecitare il governo a «colpire duramente i gruppi organizzati di qualunque colore o sfumatura essi siano. I gruppi e organizzazioni dediti alla violenza e che minacciano di farsi giustizia da soli dovrebbero essere affrontati con severità».
Nel comunicato, i vescovi hanno riconosciuto l’impegno del ministro dell’Interno Rajnath Singh nell’assicurare la sicurezza dei cristiani durante il Natale dopo essersi impegnato a «garantire legge e ordine davanti all’azione di elementi marginali contrari alle celebrazioni natalizie che minacciano alcune comunità cristiane».

Manifestazione in difesa della libertà religiosa in India

Manifestazione in difesa della libertà religiosa in India

avvenire

Sinodo. Ecco perché il 2018 sarà un anno dedicato alle domande dei giovani

Rileggere la Chiesa (e il mondo) attraverso gli occhi delle nuove generazioni: è un compito tanto complesso quanto improcrastinabile quello che papa Francesco ha inserito tra le priorità nella lista delle “cose da fare” in questo 2018 che si è appena aperto. Una missione alla quale il Pontefice sta invitando tutte le Chiese locali del mondo dall’ottobre 2016, quando annunciò che la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi in programma nell’ottobre 2018 avrebbe avuto come tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Da quel momento la preparazione è proseguita senza sosta sia a livello “centrale”, con la Segreteria del Sinodo dei vescovi impegnata a coordinare i lavori, sia a livello locale nelle diocesi di tutto il pianeta. E il 2017 ha visto in campo diverse iniziative pensate per rendere l’appuntamento in programma dal 3 al 28 ottobre prossimi un autentico evento di Chiesa secondo le intenzioni dello stesso Bergoglio, che fin dalle prime battute ha chiesto una partecipazione attiva anche dei giovani, inclusi quelli “lontani” e appartenenti ad altre fedi.

Proprio Francesco ha voluto ricordare l’importanza del Sinodo dedicato ai giovani al termine dell’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle. Il 21 dicembre, infatti, durante l’udienza alla Curia romana in occasione dei tradizionali auguri natalizi, il Pontefice ha sottolineato che «chiamare la Curia, i vescovi e tutta la Chiesa a portare una speciale attenzione ai giovani, non vuol dire guardare soltanto a loro, ma anche mettere a fuoco un tema nodale per un complesso di relazioni e di urgenze: i rapporti intergenerazionali, la famiglia, gli ambiti della pastorale, la vita sociale». Un richiamo che di fatto ha ripreso quello affidato all’inizio del 2017, il 13 gennaio, al Documento preparatorio. «La Chiesa – si legge nell’introduzione – ha deciso di interrogarsi su come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia. Attraverso i giovani – continua il Documento –, la Chiesa potrà percepire la voce del Signore che risuona anche oggi. Come un tempo Samuele e Geremia, anche oggi ci sono giovani che sanno scorgere quei segni del nostro tempo che lo Spirito addita. Ascoltando le loro aspirazioni possiamo intravedere il mondo di domani che ci viene incontro e le vie che la Chiesa è chiamata a percorrere». Il Papa dal Sinodo, quindi, non si aspetta una semplice «riflessione pastorale», ma vie concrete che sappiano dare forma al «mondo di domani».

Un messaggio “profetico” che indica la via da seguire anche a chi è responsabile della vita pubblica, se si pensa alle parole pronunciate dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel tradizionale messaggio di fine anno di domenica scorsa. «In questi mesi di un secolo fa i diciottenni di allora – i ragazzi del ’99 – vennero mandati in guerra, nelle trincee. Molti vi morirono – ha ricordato nel suo discorso dal Quirinale –. Oggi i nostri diciottenni vanno al voto, protagonisti della vita democratica». Il richiamo è chiaro: il Paese intero ha bisogno di ridare protagonismo alle nuove generazioni. E non semplicemente in chiave elettorale.
L’attenzione che la Chiesa pone ai giovani, comunque, ha un respiro “universale” sia perché, come ha rimarcato il Papa durante la Veglia nella basilica di Santa Maria Maggiore l’8 aprile scorso, «il Sinodo è il Sinodo per e di tutti i giovani», sia perché negli scorsi mesi tutte le Conferenze episcopali del mondo sono state coinvolte nella preparazione attraverso dei questionari diversi per ogni continente e inviati assieme al Documento preparatorio. Un lavoro che confluirà nell’Instrumentum laboris destinato ai padri sinodali, che potrebbe essere pronto prima dell’estate. E a far giungere ai sinodali la voce dei giovani saranno anche i risultati del grande questionario online aperto a tutti i giovani, terminato pochi giorni fa, il 31 dicembre.

Ora si guarda avanti, alle prossime tappe: dal 19 al 24 marzo 2018 si terrà una riunione presinodale «a cui sono invitati giovani provenienti dalle diverse parti del mondo – ha sottolineato il Pontefice –: sia giovani cattolici, sia giovani di diverse confessioni cristiane e altre religioni, o non credenti». La prossima estate, poi, l’11 e 12 agosto a Roma tutti i giovani italiani si daranno appuntamento per un incontro con il Papa. Ci arriveranno dopo aver vissuto l’esperienza dei pellegrinaggi di “avvicinamento” in luoghi della nostra Penisola significativi per la fede. E l’onda del Sinodo si estenderà fino alla prossima Gmg, che si terrà a Panama dal 22 al 27 gennaio 2019, come ha recentemente sottolineato in un’intervista ad Avvenire l’arcivescovo panamense José Domingo Ulloa Mendieta.

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