Sinodo: il Papa coinvolge la rete con “missionari digitali”

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Il Papa, nel processo di ascolto avviato con il Sinodo, coinvolge la rete attraverso i “missionari digitali”.

“Papa Francesco vuole ascoltare anche il ‘sesto continente’, cioè quello digitale, per il prossimo Sinodo dei vescovi.

Abbiamo sempre tante cose da dire sui social e questa è l’occasione vera per farlo. Non importa che tu sia credente, non importa che tu sia cattolico”, scrive su Facebook una di questi missionari scelti per questa missione, suor Naike Monique Borgo.
L’invito è quello di compilare un questionario nel quale si misurerà il rapporto della gente con la Chiesa, con tutte le sue criticità. I ‘missionari digitali’ saranno attivi nella rete con messaggi in diverse lingue tra le quali l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese, filippino, indi. Ma il progetto è in via di sviluppo. L’obiettivo è intercettare le persone che la Chiesa non potrebbe intercetta diversamente. A coordinare il progetto è monsignor Lucio Adriàn Ruiz, segretario del Dicastero per la Comunicazione.
Il “sesto continente”, quello digitale, avrà anche una rappresentanza al Sinodo dei vescovi. (ANSA).

Vaticano: il bilancio riduce le perdite 2021 a 3 milioni, ma ogni anno patrimonio si erode di 20-25 milioni

Migliorano i conti della Santa Sede. Nel 2021 il deficit è sceso, ma ogni anno il patrimonio complessivo si erode di 20-25 milioni per coprire le “spese di missione”, e questo impone una programmazione a lungo termine per aumentare le entrate. Il rosso della Santa Sede è stato di appena 3,3 milioni rispetto ai 33 previsti, risultato determinato anche dalla favorevole gestione del portafoglio finanziario e anche dalla politica di taglio dei costi.

Il gesuita spagnolo padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’Economia, in una intervista a Vatican News commenta il bilancio consolidato: «Abbiamo fatto molti passi nella giusta direzione della trasparenza, della tutela economica della Santa Sede e della sostenibilità» dice. Insomma, I risultati sono migliori del previsto, ma «per il futuro si prospetta un periodo molto incerto» e ancora dobbiamo affrontare alcuni problemi strutturali. Guerrero definisce un problema ecclesiale il sottofinanziamento della missione del Papa e guarda con soddisfazione alla vendita del palazzo di Londra di Sloane Avenue – al centro dello scandalo oggetto di un processo – «in modo trasparente».

Cambia il perimetro del bilancio consolidato, ora include 92 enti

Ma questo bilancio della Santa Sede – il Governatorato (che gestisce “lo stato” quindi Musei, Gendarmeria, immobili dentro il territorio ecc..) e Ior non sono inclusi – contiene la novità del cambiamento di perimetro del consolidato. Qui c’è il bilancio di tutta la Santa Sede. Solo il Governatorato e lo IOR non sono inclusi. «Nel perimetro precedente, che considerava solo la Curia, avevamo la visibilità solo del 35% del totale. Abbiamo aumentato significativamente la dimensione: siamo passati dai 60 enti del perimetro precedente ai 92 del perimetro attuale; da un totale attivo di 2,2 miliardi di euro nel 2020 a 3,9 nel 2021; da un passivo di 0,8 miliardi di euro a 2,3; da un patrimonio netto di 1,4 miliardi di euro a 1,6; i ricavi sono passati da 248 milioni di euro a 1.093 milioni di euro; i costi da 315 milioni di euro a 1.096 milioni di euro; il deficit complessivo è stato di 3 milioni di euro» dice Guerrero, che guida la Segreteria da inizio 2020. Il deficit operativo previsto era di 56 milioni di euro ed è stato di 77,7 (è maggiore perché nel preventivo, per problemi tecnici, non era inclusa la Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, l’Ospedale di Padre Pio, che aggiunge un deficit di 30 milioni di euro). «Anche in questo caso, i buoni risultati finanziari hanno mitigato i risultati operativi. Se confrontiamo il conto economico della Curia – il vecchio perimetro – con il preventivo, con un deficit previsto di 49,6 milioni di euro risulta invece un surplus di 28,8 milioni (78,4 milioni di euro meglio di quanto atteso)».

«L’obiettivo è la sostenibilità, ci sono spazi di miglioramento»

Il surplus del vecchio perimetro è totalmente dovuto ai risultati finanziari (44,6 milioni di euro), ma in confronto con il preventivo, le entrate sono state di 21,8 milioni di euro maggiori rispetto a quelle preventivate – spiega Guerrero – le spese di 26,4 milioni di euro minori rispetto a quelle preventivate e i risultati finanziari di 30,2 milioni di euro migliori del previsto. «È importante considerare che i risultati finanziari sono principalmente non-realizzati, cioè, non-materializzati e soggetti alla volatilità dei mercati finanziari e al andamento dei cambi». Ma un dato è fondamentale: «Noi non cerchiamo surplus ma la sostenibilità del servizio della Santa Sede. Un deficit di 3 milioni di euro in un preventivo di 1.100 milioni non è tanto, è praticamente equilibrato, e non sembra una cifra tale da destare preoccupazioni. Ma se facciamo un’analisi più dettagliata, ci attendono alcune aree da migliorare. La prima analisi è che c’è un deficit operativo di 62 milioni di euro, che i buoni risultati finanziari del 2021 hanno mitigato per lasciare un deficit di 3 milioni. Quando i risultati finanziari non sono così favorevoli, come nel 2020, emerge il deficit operativo».

«Le entrate continuano a calare, dobbiamo lavorare per aumentarle»

«Credo – aggiunge il prefetto – che ogni istituzione curiale sia molto consapevole della sua missione di aiuto alla Missione del Santo Padre, che non è sufficientemente finanziata. Nel 2021 la Curia (esclusi i risultati dell’Obolo che erano inclusi nel preventivo) ha avuto un deficit di 10 milioni di euro, 56 milioni di deficit in meno rispetto a quello avuto realmente nel 2020, che è una buona notizia. È una buona notizia anche il fatto che la Curia ha compiuto sacrifici riducendo le spese, controllando la parte che può controllare meglio, mentre le entrate ordinarie continuano a scendere. La Curia ha ricavato 14 milioni di euro in più e ne ha spesi 42 in meno; ma dobbiamo riconoscere, per non illuderci, che il deficit ordinario è rimasto invariato, le spese ordinarie sono diminuite di 15 milioni di euro, raggiungendo quest’anno un nuovo minimo di spesa, ma non è abbastanza, anche le entrate ordinarie sono diminuite di 14 milioni di euro, un altro nuovo minimo. Non possiamo agire solo sulle spese riducendole, arriverà un momento in cui non si potranno diminuire ulteriormente senza compromettere la missione, perciò stiamo anche lavorando su come aumentare le entrate. Il fatto è che la Santa Sede riduce il patrimonio ogni anno per coprire i servizi curial»”, 20-25 milioni,. appunto.

«Non stiamo gestendo un’azienda, i criteri economici hanno un ruolo relativo»

«La ragione, oltre che i risultati finanziari non sono realizzati, è che molte donazioni che riceviamo sono finalizzate, servono per una cosa e non per un’altra. Gran parte del patrimonio assegnato ad alcuni enti è a sua volta finalizzato, e non si può dedicare a un’altra cosa. Cioè, non possiamo compensare le spese di alcuni enti con i ricavi di tutti gli altri». Sono molti i dicasteri che svolgono un servizio per il quale non ricevono controprestazioni economiche, sono semplicemente centri di costo e non hanno praticamente entrate, il suo servizio si realizza sempre con deficit. «E deve essere così. Non stiamo gestendo un’azienda, i criteri economici hanno un ruolo relativo, l’economia deve servire, non governare, come insiste il Santo Padre. Un caso recente interessante è il Tribunale della Rota, che dall’autofinanziamento è passato a essere deficitario, una volta che il Papa ha deciso, giustamente, che per evitare che la giustizia sia solo per quanti possono pagarla l’ha resa gratuita. Il rendimento del patrimonio e i contributi interni non coprono le spese della missione. Per questo è fondamentale l’aiuto dell’Obolo di San Pietro, che finanzia le opere caritative e la missione del Papa e la contribuzione delle diocesi».

I capitoli delicati della sanità e del Fondo Pensioni

«La sanità cattolica sta a sua volta attraversando un momento difficile in Italia. Abbiamo due ospedali inclusi nel bilancio consolidato. Uno è il Bambin Gesù. Con un preventivo maggiore di quello della Curia, procede nella giusta direzione ed è un ospedale economicamente sano; negli ultimi anni ha affrontato bene la crisi dovuta al Covid; l’altro, la Casa Sollievo della Sofferenza di san Giovanni Rotondo, deve affrontare la sua crisi economica e adottare misure urgenti, per non mettere in discussione la sua sostenibilità. I nuovi enti inseriti nel bilancio ci hanno permesso di registrare tutti gli attivi e i passivi e di ottenere un bilancio più realistico; abbiamo cioè potuto riconoscere tutti gli obblighi contratti dalla Santa Sede. Abbiamo una mappa migliore dei punti di forza e debolezza». C’è poi il Fondo Pensioni: «Le pensioni sono un problema in quasi tutti gli Stati, e il nostro Fondo pensionistico non fa eccezione. Anzi, direi che – nella sua piccola proporzione – le pensioni vaticane stanno meglio e sono più sicure che in molti Paesi vicini». Il tema è che «non stiamo dotando sufficientemente il Fondo pensionistico per permettergli di rispettare gli obblighi futuri o che stiamo promettendo più di quanto in realtà possiamo permetterci. La buona notizia è che siamo ancora in tempo per introdurre misure correttive, non traumatiche, ma dobbiamo farlo presto», altrimenti a lungo termine, i contributi non saranno sufficienti a compensare le prestazioni promesse.

«Futuro è incerto, non possiamo agire né su leva fiscale né monetaria»

«Per il futuro ci si prospetta un tempo molto incerto. Non abbiamo molte variabili su cui operare per affrontare la crisi, non abbiamo politica fiscale né monetaria, né controllo su una grande parte dei ricavi. Al di là dei nostri problemi strutturali, la situazione mondiale – guerra, inflazione, mancanza di rifornimenti, incertezza finanziaria, etc. – crea per noi nuove sfide e opportunità. Non possiamo dire che il tempo dei sacrifici sia finito, il 2022 sarà un anno particolarmente difficile e pure il 2023. Ora dobbiamo affrontare il preventivo per il 2023 che non ci consente di stare molto allegri, nonostante la pressione del Covid sia diminuita».

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Un’insistita sottolineatura degli aspetti faticosi della vita matrimoniale sembra dominare troppi discorsi ecclesiali, mettendo in ombra ciò che è buono, bello e gioioso del matrimonio

di SERGIO DI BENEDETTO e GILBERTO BORGHI – vinonuovo.it

Dopo aver letto con attenzione gli Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale e aver avanzato alcune considerazioni sugli elementi positivi e alcune note sui nodi che ci sono parsi problematici, vogliamo condividere un post scriptum finale, una preoccupazione che nasce dal tono generale del documento, insieme a un’aria che si respira ultimamente attorno al matrimonio in alcuni ambiti ecclesiali, ossia quella per cui il matrimonio sarebbe quasi solo fatica, sforzo, sacrificio, rinuncia, crisi, problema: sono termini e questioni che sembrano dominare il discorso sulla vita matrimoniale.

La domanda che nasce spontanea in noi è molto semplice: ma crediamo davvero che il matrimonio sia bello? Che la vita matrimoniale risponda a un desiderio bello e buono di Dio sull’uomo e la donna? Siamo convinti che il matrimonio è anche gioia, letizia, serenità, compimento?

L’impressione è che troppo spesso in ambito ecclesiale tendono a prevalere i toni più drammatici e cupi quando si parla di matrimonio. Indubbiamente, non siamo ingenui né disincarnati: sappiamo che oggi la vita di coppia in senso lato e la vita matrimoniale in modo specifico conoscono un momento di crisi, che la statistica stessa si incarica di ricordare (solo nel 2020 – anno peraltro di pandemia – ci sono state quasi 180.000 rotture, tra separazioni e divorzi). E siamo anche ben coscienti che il contesto sociale e culturale in cui viviamo spinge per ‘relazioni liquide’ (Bauman), con forte insistenza su emotività, identità, individualismo, piena e immediata soddisfazione dei propri desideri: fattori che mal si conciliano con ogni relazione umana, matrimonio incluso.
Dunque, è innegabile che ci siano componenti di fatica nella scelta e nella ‘pratica’ della vita di coppia, ed è bene dare rappresentazioni realistiche del matrimonio, soprattutto in un documento pensato per i fidanzati.
Ma, al tempo stesso, non possiamo nascondere che paiono prevalere le parole di fatica e di dubbio, di pena e di rinuncia del sé. Anche in questo caso Amoris Laetitia era capace di parole di consolazione, speranza, fiducia (fin dal titolo: la gioia dell’amore). E che nella pastorale ci fosse la tentazione a insistere più sulla sforzo che sulla bellezza del matrimonio lo dichiarava lo stesso Papa Francesco: «Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita» (AL, 37).

Quello che si fatica a comprendere è che per uscire dalla dittatura liquida ed emotiva in cui viviamo, non serve più a nulla un richiamo forte alla volontà razionale, affinché si imponga su queste inclinazioni deleterie e ci permetta di vivere il bene, perché questa strada oggi non è più percorribile. E Francesco lo sa bene, quando, ad esempio, per stare alla sfera della sessualità, in AL mostra come la deriva dell’eros da ‘consumare’ non si ferma innalzando barriere etiche e limitandosi a mettere in guardia dai pericoli della sessualità, bensì riconoscendo in una ritrovata unità interiore tra gioia e piacere la condizione che oggi permette di non consegnare l’eros alla mentalità consumistica della post-modernità, e di viverlo perciò in pienezza. «È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere […]. I gesti che esprimono tale amore devono essere costantemente coltivati, senza avarizia, ricchi di parole generose» (AL 129 e 133). Per il papa un vero amore «non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale» (AL 157) perché da buon figlio di sant’Ignazio di Loyola sa che «non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare interiormente le cose» (Esercizi spirituali, annotazione 2)

Una narrazione della vita matrimoniale che non tenga conto del bene e della gioia che in essa si trova, soprattutto da chi poi ha scelto altri stati di vita, è contraddittoria con quanto la sapienza cristiana e la vita umana hanno sperimentato nel corso del tempo, e cioè che anche una vita che si fondi sull’amore di coppia può essere pienamente umana, pienamente cristiana e bella, feconda, capace di pace, di crescita e di benevolenza. È una vita che merita di essere vissuta. Altrimenti, solo sostando sulla ‘crisi’ e sul ‘problema’ (in un atteggiamento preventivo che poi risulta anche un poco artificiale e moralistico), faremo un discorso parziale: «Tutto quanto è stato detto non è sufficiente ad esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico a parlare dell’amore» (AL, 89).
Insomma, è vero che sempre meno persone scelgono il matrimonio cristiano; è vero che esistono delle difficoltà. Ma se non abbiamo il coraggio di raccontare in modo bello il matrimonio (evitando al tempo stesso le semplificazioni e le ‘fantasie emotive’), di testimoniare la sua ricchezza, la sua fecondità, negheremo quello che dovrebbe essere, invece, un pilastro della sensibilità e della coscienza cristiana: «Il Vangelo della famiglia è risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità» (AL, 201).

A meno che, e questo è un dubbio che non vorremmo avere, non si pensi sottotraccia che una vita evangelica, nelle sue diverse forme, non sia pienamente umana…

Anche su questo, in fondo, bisognerebbe riflettere. Non dobbiamo però dimenticare che pure il tono, il modo, lo stile e l’insistenza solo su certi argomenti tende a consolidare e veicolare una visione della vita.

Opus Dei: più carisma, meno «zucchetti»

di: Giancarlo Rocca
Dopo la pubblicazione della costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, che riorganizzava la Curia romana, era inevitabile attendersi un intervento sull’Opus Dei. Si trattava solo di sapere quando sarebbe avvenuto. Di fatto, nella Praedicate Evangelium si diceva esplicitamente, all’articolo 117, che il Dicastero per il Clero avrebbe avuto competenza sulle Prelature personali, e l’unica attualmente esistente è quella dell’Opus Dei.

L’intervento di papa Francesco può essere esaminato da diversi punti di vista.

La prelatura struttura gerarchica?
A parte la premessa iniziale di papa Francesco, che convalida la missione dell’Opus Dei di diffondere la chiamata alla santità attraverso la santificazione del lavoro e degli impegni di famiglia, la questione di base è se la prelatura dell’Opus Dei sia una struttura gerarchica della Chiesa o invece una particolare istituzione della Chiesa, una Prelatura, con compiti specifici. Conviene quindi ripercorrere, sia pure brevemente, questa storia.

Il Concilio Vaticano II accenna, nel decreto del 1965 Presbyterorum ordinis 10, alle prelature personali, nel quadro di una miglior distribuzione del clero e per iniziative apostoliche particolari, e ugualmente nel decreto, ancora del 1965, Ad Gentes 20 e 27, ma mai il Concilio parla della possibilità di incorporare dei laici in una prelatura personale. Parecchie spiegazioni in più sulle prelature personali si hanno nel motu proprio Ecclesiae sanctae (I, 4), del 1966, con particolari circa la formazione del clero della prelatura in appositi seminari nazionali o internazionali, e ancora una volta si precisa che i laici, celibi o coniugati, non sono incorporati nella prelatura, ma possono collaborare alla sua missione tramite apposite convenzioni.

Un totale cambiamento di prospettiva e un deciso allontanamento dalle idee del Concilio Vaticano II si ha nello Schema di preparazione al Codice di diritto canonico. Il testo, del 1980, inserisce le prelature personali tra le strutture gerarchiche della Chiesa (Pontefice, Vescovi ecc.), nel canone 335 § 2 le prelature personali sono equiparate a quelle territoriali, e nel canone 337 le prelature personali sono presentate cum populo proprio.

Il Codice di diritto canonico del 1983, però, non ha recepito le indicazioni dello Schema, non ha più inserito le prelature personali tra le strutture gerarchiche della Chiesa (Sezione II), ma semplicemente nel libro II. De populo Dei, e specificamente nella prima parte che tratta dei fedeli.

Di qui la questione, subito emersa, se la prelatura personale dell’Opus Dei fosse da inserire tra le strutture gerarchiche. La formulazione più coerente, in realtà, è quella del Codice di diritto canonico del 1983, che ne parla ai canoni 294-297, e precisa che i sacerdoti e i diaconi sono incardinati nella prelatura, mentre i laici possono collaborare alle sue opere con particolari convenzioni da precisarsi negli statuti. Pertanto i laici non sono membri della prelatura, conservano la propria diocesi, il proprio vescovo, la propria parrocchia. Si può anche aggiungere che l’unione giuridica pattizia dei laici con la prelatura è inferiore alla incorporazione a un istituto religioso o società di vita apostolica o istituto secolare. Di fatto, il canone 296 prevede, come materia della convenzione con i laici, solo l’attività apostolica esterna, che poi viene sottoposta per l’approvazione all’Ordinario locale (canone 297).

Papa Francesco ha semplicemente ripreso e confermato il Codice di diritto canonico del 1983. La prelatura dell’Opus Dei non è una struttura gerarchica della Chiesa e quindi la sottopone al Dicastero per il Clero, in quanto struttura fondamentalmente clericale. L’Opus Dei, di conseguenza, lascia il posto che precedentemente aveva presso il Dicastero per i vescovi, grazie al fatto che due suoi prelati erano stati nominati vescovi: Alvaro del Portillo (†1994), primo prelato ma vescovo solo dal 1990; Javier Echevarría (†2016), secondo prelato e vescovo dal 1995; Fernando Ocáriz, terzo prelato dal 2017, ma non insignito della dignità episcopale da papa Francesco. Le eventuali questioni introdotte da questa modifica saranno trattate con il Dicastero per il clero e gli altri Dicasteri competenti della Curia romana.

(Ulteriori particolari al riguardo in G. Rocca, L’«Opus Dei». Appunti e documenti per una storia, Roma 1985, p. 111; e più recentemente G. Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, sesta edizione, Roma 2015, pp. 208-211. Per lo Schema del 1980 cf: Pontificia Commissio Codici iuris canonici recognoscendo, Schema Codicis iuris Canonici, Libreria Editrice Vaticana 1980, pp. 80-81).

Una relazione ogni anno
Papa Francesco all’articolo 2 del suo motu proprio modifica quanto stabilito nella costituzione apostolica Ut sit del 1982, dove si stabiliva che l’Opus Dei come prelatura era obbligata a presentare una relazione sul suo stato di vita ogni cinque anni al Dicastero per i Vescovi. Ora l’obbligo viene fissato a ogni anno. Riguardo a questa decisione di papa Francesco più d’un commentatore si è chiesto come sia stato il comportamento dell’Opus Dei, se cioè abbia regolarmente presentato le relazioni dovute per il periodo in cui era istituto secolare, cioè dal 1950 al 1982, e dal 1982 a oggi quando era alle dipendenze del Dicastero dei Vescovi.

Modifica degli statuti
Il terzo mutamento richiesto da papa Francesco riguarda gli Statuti propri della prelatura, che devono essere riformulati tenendo conto di questo ridimensionamento. L’Opus Dei aveva già subito un cambiamento notevole proprio in riferimento ai laici e laiche associati. Nel periodo in cui l’Opus Dei era istituto secolare, considerato anzi modello degli istituti secolari, i suoi membri – numerari e numerarie – avevano i tre classici voti, l’obbligo della vita comune, l’uso del cilicio, il circolo breve settimanale (una specie di capitolo delle colpe), il testamento prima dell’incorporazione definitiva, e diverse altre pratiche ascetiche che l’avvicinavano al mondo dei religiosi.

Si può qui notare che gli istituti secolari fondati da p. Agostino Gemelli, cioè i Missionari e le Missionarie della Regalità, non avevano l’obbligo della vita comune, e ugualmente l’istituto Cristo Re, fondato da Giuseppe Lazzati proprio in forza della loro secolarità.

Per giustificare questa sua posizione l’Opus Dei, nelle parole di Alvaro del Portillo, scriveva che possono esserci istituti secolari che possono andare oltre il mininum previsto dalla Provida mater, proprio per favorire una vita spirituale dei propri membri più solida e più profonda. Tutto ciò mutò nel 1982, quando l’Opus Dei divenne prelatura e fu costretto ad annullare l’incorporazione che numerari e numerarie avevano nell’Opus Dei come istituto secolare con i voti.

L’intervento di papa Francesco obbliga a un’altra chiarificazione: i laici non sono incorporati nella prelatura, ma hanno un rapporto pattizio che deve essere regolato negli statuti da rivedere dall’Opus Dei, che dovrà sottoporli all’autorità competente per l’approvazione.

La questione del vescovo
Papa Francesco aggiunge che, essendo le insegne episcopali riservate ai vescovi, il prelato dell’Opus Dei, essendo la sua prelatura un’istituzione non gerarchica e sottoposta al Dicastero per il clero, non può aspirarvi; anzi, papa Francesco sancisce che nemmeno in futuro il prelato potrà godere dell’ordine episcopale.

La storia delle onorificenze pontificie richieste dall’Opus Dei sin dalle sue origini è stata già trattata e qui se ne riassumono gli elementi principali (ulteriori particolari si trovano in G. Rocca, L’«Opus Dei», cit., e Id., «Diccionario de San Josemaría Escrivá de Balaguer. Note di lettura», in Revue d’Histoire Ecclésiatique 2017, pp. 244-266, in particolare pp. 252-254).

Si sa che i tentativi di far accedere Escrivá alla dignità episcopale sono stati numerosi. Il primo già nel 1942, quando Escrivá aveva 40 anni, e al generalissimo Franco egli era stato presentato come persona dalla concezione morale molto buona, totalmente aderente al Movimento e simpatizzante con il Partito.

La questione venne ripresa nel 1945, questa volta con la motivazione − sempre rivolta al generalissimo Franco − che Escrivá sarebbe stato un ottimo vescovo castrense. Non se ne fece nulla, ma la candidatura a vescovo ritornò nel 1950, questa volta per una sede residenziale, quella di Vitoria. Ancora una volta non se ne fece nulla.

Poi, dopo il 1955, una nota segnalava che tra i vari «varones ilustres» meritevoli di essere insigniti della dignità vescovile figurava ancora Escrivá, e si diceva allora che egli era il superiore del primo istituto secolare approvato nella Chiesa. E ancora una volta la proposta cadde.

Che ci fosse una forte opposizione della Santa Sede alla nomina di Escrivá a vescovo risulta chiaramente da una lettera che il ministro degli Affari Esteri della Spagna scrisse nel 1956, da Madrid, all’ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede a Roma, Fernando M. Castiella. Il ministro, dopo aver parlato con l’allora segretario generale dell’Opus Dei, Antonio Pérez, riferiva che i responsabili dell’Opus Dei si erano ormai convinti che non sarebbe stato possibile per Escrivá essere promosso alla dignità episcopale, ed erano passati a proporre la nomina a vescovo almeno di Alvaro del Portillo.

A quanto sin qui esposto si può aggiungere un altro tassello, non conosciuto quando erano stati pubblicati gli studi sopra indicati per la non accessibilità agli archivi vaticani. Il nuovo tassello riguarda la proposta avanzata nel settembre del 1948 dai vescovi delle diocesi spagnole di Tuy e di Madrid-Alcalá, che proponevano alla Santa Sede la nomina di Escrivá a vescovo come molto conveniente per la sua persona e per l’opera che egli dirigeva. La pratica, però, si chiuse allora con un «Non expedire» con la precisazione che una tale nomina non sarebbe stata utile per l’Opus Dei, e, come sopra documentato, l’opposizione della Santa Sede alla nomina di Escrivá a vescovo fu mantenuta.

Una guida basata sulla fedeltà al carisma
Coerentemente con questa impostazione, papa Francesco chiarisce che per dirigere l’Opus Dei non occorre un vescovo, ma tutto può rientrare nella linea di una fedeltà al carisma che tutti gli istituti devono ricercare. In pratica, senza dirlo, papa Francesco stabilisce un’analogia con il carisma proprio dei singoli istituti religiosi, o secolari, o società di vita apostolica, che devono verificare le proprie opere e il proprio governo non sulla base di una autorità gerarchica, ma della fedeltà alle aspirazioni e direttive del loro fondatore sotto la guida della Chiesa.

Il titolo
Il titolo che ora viene concesso al Prelato dell’Opus Dei («Protonotario apostolico» e «Reverendo Monsignore») fa parte delle buone norme di etichetta vaticana. Esse trovavano riscontro anche presso gli istituti religiosi, e coloro che conoscono la corrispondenza antica tra i religiosi sanno che − ancora alla fine dell’Ottocento − al superiore generale spettava il titolo di «Reverendissimo», al provinciale e al procuratore generale quello di «Molto reverendo»; di «Reverendo» ai superiori locali, mentre quello di «padre» andava rivolto ai semplici sacerdoti, e «fratello» a quelli che non lo erano.

(Ulteriori particolari in questo senso in E. Boaga, Titoli onorifici, in Dizionario degli istituti di perfezione 9 (1997), pp. 1177-1181).

La risposta dell’Opus Dei
In una lettera emessa subito dopo il motu proprio di papa Francesco, il prelato dell’Opus Dei, Fernando Ocáriz, dichiarava di accettare totalmente quanto disposto da papa Francesco, come rispondente al carisma dell’Opus Dei, che si augurava di poter sempre più sviluppare grazie alle indicazioni di papa Francesco e all’impegno di tutti i membri dell’Opus Dei.
Settimana News

Notizie attualità 2 Luglio 2022


“Chiesa che si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo”

Santi Pietro e Paolo. Papa Francesco: “Essere una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti”
Testo dell’allocuzione del Papa – Il segno (…) indica parole pronunciate a braccio.
(Sala stampa della Santa Sede) Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco benedice i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana. Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa presiede la Celebrazione Eucaristica con i Cardinali, con gli Arcivescovi Metropoliti e con i Vescovi Sacerdoti.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico guidata dall’Arcivescovo di Telmissos Job, Rappresentante del Patriarcato Ecumenico presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese e co-presidente della Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, accompagnato dal Vescovo di Alicarnassos Adrianos e dal Diacono Patriarcale Barnabas Grigoriadis.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Santo Padre pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:
Omelia del Santo Padre
La testimonianza dei due grandi Apostoli Pietro e Paolo rivive oggi nella Liturgia della Chiesa. Al primo, fatto incarcerare dal re Erode, l’angelo del Signore dice: «Alzati, in fretta» (At 12,7); il secondo, riassumendo tutta la sua vita e il suo apostolato dice: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). Guardiamo a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – e chiediamoci che cosa hanno da suggerire alla Comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale.
Anzitutto, gli Atti degli Apostoli ci hanno raccontato della notte in cui Pietro viene liberato dalle catene della prigione; un angelo del Signore gli toccò il fianco mentre dormiva, «lo destò e disse: Alzati, in fretta» (12,7). Lo sveglia e gli chiede di alzarsi. Questa scena evoca la Pasqua, perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse (cfr v. 10). È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci.
Sperimentiamo ancora tante resistenze interiori che non ci permettono di metterci in movimento. A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia. Allora, la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo – scriveva padre de Lubac – nelle nostre mani diventa una fede che «cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito» (Il dramma dell’umanesimo ateo. L’uomo davanti a Dio, Milano 2017, 103-104).
Il Sinodo che stiamo celebrando ci chiama a diventare una Chiesa che si alza in piedi, non ripiegata su sé stessa, capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo. (…) Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia,
non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. (…) La seconda Lettura, poi, ci ha riportato le parole di Paolo che, ripercorrendo tutta la sua vita, afferma: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). L’Apostolo si riferisce alle innumerevoli situazioni, talvolta segnate dalla persecuzione e dalla sofferenza, in cui non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo di Gesù. Ora, alla fine della vita, egli vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte.
È una Parola di vita anche per noi, che risveglia la consapevolezza di come, nella Chiesa, ciascuno sia chiamato ad essere discepolo missionario e a offrire il proprio contributo. E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi.
Chiesa sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. (…)
Ma partecipare significa anche portare avanti la “buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale, (…) non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione. Da quando Gesù Cristo è risorto, facendo da spartiacque della storia, «è iniziata una grande battaglia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le potenze dell’odio e della distruzione» (C. M. Martini, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).
E allora la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili, (…) ma aiutarci ad essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “buona battaglia”. (…)
Fratelli e sorelle, oggi, secondo una bella tradizione, ho benedetto i Palli per gli Arcivescovi Metropoliti di recente nomina, molti dei quali partecipano a questa nostra celebrazione. In comunione con Pietro, essi sono chiamati ad “alzarsi in fretta” per essere sentinelle vigilanti del gregge e a “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. (…)
E di cuore saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata dal caro fratello Bartolomeo. Grazie per la vostra presenza qui! Camminiamo insieme, perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità.
Pietro e Paolo intercedano per noi, per la città di Roma, per la Chiesa e per il mondo intero.
Amen.

Nicaragua / La diplomazia, la geopolitica, la geo-strategia e i colpi mediatici non sono le strade della fede

Daniel Ortega e madre Teresa di Calcutta

Il dittatore nicaraguense Daniel Ortega ordina la chiusura di tutte le attività di beneficienza delle sorelle missionarie di Madre Teresa di Calcutta. Migliaia di poveri, bambini, anziani e malati lasciati senza un minimo di assistenza. Un crimine silenzioso contro l’umanità
(L.B., R. C. – a cura Redazione “Il sismografo”) L’ultima ‘uscita a sorpresa’ della coppia dittatoriale, Daniel Ortega – Rosario Murillo, marito e moglie, rispettivamente Presidente e Vicepresidente del Nicaragua, è la chiusura di centinaia di Ong e associazioni territoriali di base nonché la chiusura delle opere di beneficienza delle sorelle di Madre s. Teresa di Calcutta, dopo oltre 40 anni di servizio alla carità, religiose immensamente amate dal popolo nicaraguense. Buona parte di loro saranno costrette a lasciare gradualmente il Paese costringendo all’abbandono tanti bambini, anziani e malati. Un vero crimine da parte di Ortega.
In precedenza ci sono state decine di altre azioni repressive, assassini, espulsioni, arresti illegali, torture e campagne di odio e morte,  calunnie e menzogne, poiché la logica insensata della coppia governante, che usurpò il nome del più importante leader della nazione, Augusto Cesar Sandino (1895-1934), è una sola: terra bruciata attorno a tutti quelli che non accettano di sottomettersi al governo di Ortega e ai suoi paramilitari. Insomma, un rovescio drammatico della storia: il “sandinismo” nato per mettere fine alle dittature della dinastia dei Somoza che dopo alcuni decenni diventa esso stesso una dittatura peggiore di quelle dei Somoza. La sintesi storica e umana di questa tragedia è lo stesso Daniel Ortega che da diversi anni perseguita la Chiesa cattolica, i vescovi, i sacerdoti, i catechisti e ora anche le religiose, vantando – con menzogne – rapporti diretti privilegiati con il Papa, anche se nel marzo scorso fece espellere in poche ore, senza nessun motivo, il Nunzio di Francesco a Managua.
Ciò che più sorprende in questa storia, che abbiamo seguito e documentato dall’inizio della crisi nel 2018, è la passività e debolezza con cui la Santa Sede, in particolare il Pontefice, si è comportata quasi per non irritare o infastidire un dittatore feroce e spietato. In questi anni dal Vaticano sono arrivati molti appelli al dialogo, alla ricerca di soluzioni consensuali, alla liberazione dei prigionieri politici e via dicendo … Ma Ortega non ha mai dato ascolto a nulla e ha sempre mentito come sanno molto bene negli uffici della Segreteria di Stato. Tra la Sede Apostolica e i vescovi del Nicaragua da diversi anni esiste, seppure nascosto e discreto, un conflitto, uno scontro causato dalla politica vaticana del cosiddetto metodo del basso profilo, del silenzio strategico, dell’amicizia che addomestica.
In Nicaragua – ma anche in altri luoghi – questo modo di agire non solo è stato un fallimento, è costato molto al prestigio e autorevolezza della diplomazia vaticana. Si è perso anche credibilità come nel caso del vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio Báez, oggi di fatto in esilio a Miami seppure è stato trasferito per volere del Papa dal Nicaragua a Roma dove non ha mai ricevuto un incarico. Una rocambolesca operazione ecclesiale-diplomatica in cui, alla fine, ha vinto solo Ortega. La chiesa locale uscì inoltre indebolita al massimo dopo che l’accordo per una convivenza pacifica era stato negoziato tra Ortega e il Vaticano (sollevando il vescovo Báez come voleva il dittatore).
La Sede Apostolica ha dato l’impressione di ritenere necessario tacere o addirittura cedere. Cosa simile si era già vista – per restare solo in America Latina – nel caso delle persecuzioni di Nicolás Maduro contro la chiesa in Venezuela.
Questo silenzio del Santo Padre, inspiegabile e ingiustificabile, ha causato e sta causando gravi dolori alla comunità cattolica del Nicaragua e dell’America Latina. La Santa Sede deve correggere alcuni errori pesanti anche per evitare che altri governi della regione si sentano incoraggiati a far tacere la voce di centinaia di vescovi fedeli al magistero, al Concilio e ad Aparecida.
Occorre reagire, affidarsi alla parresia, allo slancio profetico del Vangelo, alla verità al di sopra di ogni cosa.
La diplomazia, la geopolitica, la geo-strategia e i colpi mediatici non sono le strade della fede.