C’è «tanto bisogno oggi» di speranza. E i cristiani sono chiamati «a portare l’annuncio di Pasqua»

C’è «tanto bisogno oggi» di speranza. E i cristiani sono chiamati «a portare l’annuncio di Pasqua», cioè «a suscitare e risuscitare la speranza» nei «cuori appesantiti dalla tristezza» di «chi fatica a trovare la luce della vita». È questo il messaggio che papa Francesco ha lanciato a tutta la Chiesa durante la la Veglia della Notte Santa di Pasqua, la madre di tutte le Veglie, celebrata nella Basilica di San Pietro in Vaticano.

Nell’omelia preparata per l’occasione, il Pontefice ha commentato il racconto del Vangelo di Luca con Pietro che non si fa assorbire da «rimorsi», «paura» e «chiacchiere continue», che non cede «alla tristezza e all’oscurità», ma corre al sepolcro da dove ritorna «pieno di stupore». E con le donne che partite per «un’opera di misericordia» (portare gli aromi alla tomba) sono «scosse» dalle parole degli angeli: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?». Anche l’umanità di oggi, ha spiegato il Papa, come Pietro e le donne non possono «trovare la vita restando tristi e senza speranza».

E ha esortato tutti ad aprire «al Signore i nostri sepolcri», affinché «Gesù entri e dia vita». È Lui infatti che «desidera venire e prenderci per mano», per «trarci fuori dall’angoscia». Ma la «prima pietra» da far rotolare è proprio «la mancanza di speranza che ci chiude in noi stessi». Ecco quindi l’invocazione al Signore affinché «ci liberi» dalla «terribile trappola» di «essere cristiani senza speranza», cristiani cioè che vivono «come se il Signore non fosse risorto e il centro della vita fossero i nostri problemi».
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La speranza, ha ribadito Papa Francesco, non è «semplice ottimismo» e nemmeno «un atteggiamento psicologico». Infatti «la speranza cristiana» è un «dono» di Dio che non delude perché lo Spirito Santo «è stato effuso nei nostri cuori». E «il Consolatore» non «elimina il male con la bacchetta magica», ma infonde «la vera forza della vita», che non è «l’assenza di problemi», ma «la certezza di essere amati e perdonati sempre da Cristo.

LA CRONACA
È iniziata alle 20.30 la solenne Veglia di Pasqua con il Papa nella Basilica di San Pietro, con la benedizione del fuoco nell’atrio della Basilica e la preparazione del cero pasquale. Poi la processione verso l’altare con il cero acceso e il canto dell’Exultet, a cui fanno seguito la liturgia della Parola e la liturgia battesimale.

Sono 12 i catecumeni adulti – 8 donne e 4 uomini, provenienti dall’Albania (6), dalla Corea (2), nonché da Italia, Camerun, India e Cina (1 ciascuno) – a cui il Papa ha amministrato i Sacramenti dell’Iniziazione cristiana (battesimo, cresima e prima comunione).
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La Domenica di Pasqua il Vangelo in latino e greco
Domani, domenica, papa Francesco celebra la Messa per la Solennità di Pasqua. Con il Vangelo proclamato in latino e in greco e, sempre in greco, l’augurio “ad multos annos” rivolto al Papa.

Come di consueto le preghiere dei fedeli soaranno recitate in varie lingue. In arabo «per la Santa Chiesa di Dio». In inglese «per i popoli inquieti della terra». In russo «per gli increduli e i duri di cuore». In tedesco «per i battezzati». In cinese «per i sofferenti e le persone sole».

Al termine della liturgia viene recitato il Regina Coeli, la preghiera mariana che sostituisce l’Angelus per tutto il periodo pasquale, e viene letto il consueto Messaggio Urbi et Orbi. Infine il Papa invoca la concessione dell’indulgenza «a tutti i fedeli presenti e a quelli che ricevono la sua benedizione, a mezzo della radio, della televisione e delle nuove tecnologie di comunicazione». Come accade ormai da trent’anni sono i fioristi olandesi a rendere omaggio alla celebrazione presieduta dal Pontefice con la decorazione di Piazza San Pietro con oltre 35mila fiori e piante.

avvenire

Sclerosi multipla, la speranza nelle staminali

«Un’oggettiva, solida speranza per i casi più perniciosi di sclerosi multipla». Così Angelo Vescovi, scienziato italiano impegnato da tempo su nuove cure delle malattie neurodegenerative, definisce l’annuncio degli effetti significativi di una terapia contro la sclerosi multipla utilizzata in Inghilterra dove la stampa parla addirittura di risultati «miracolosi». Avrebbero infatti ripreso la mobilità perduta anche persone sulla sedia a rotelle, mentre pazienti privi di vista avrebbero registrato segnali più che incoraggianti. Il trattamento, secondo il «Daily Telegraph», sarebbe il primo a invertire i sintomi della sclerosi multipla, per la quale non esiste una cura.

Una ventina di pazienti si sono sottoposti ai test al Royal Hallamshire Hospital di Sheffield e al Kings College Hospital di Londra vedendo «effettivamente riaccendersi il loro sistema immunitario». Benchè non siano ancora del tutto chiare le cause della sclerosi multipla, molti ricercatori ritengono che «sia lo stesso sistema immunitario ad attaccare il cervello ed il midollo spinale, causando infiammazioni e dolori, oltre disabilità e nei casi più gravi la morte».

Il metodo illustrato nella ricerca, pubblicata sul «Journal of the American Medical Association» (Jama), prevede il ricorso ad altissime dosi di chemioterapici per mettere fuori gioco il sistema immunitario dei pazienti. Questo viene poi ricostruito e riattivato con le cellule staminali ottenute dal sangue dei singoli pazienti, dunque con autotrapianto di cellule ematopietiche degli stessi malati. «È sicuramente uno studio da vedere in chiave positiva sotto gli aspetti scientifici clinici ma anche etici e morali», aggiunge Vescovi.

A ridimensionare la portata dell’annuncio inglese provvede Giovanni Mancardi, dell’Università degli Studi di Genova, presidente del prossimo Congresso della Società italiana di neurologia. «È una procedura – spiega – su cui numerosi gruppi di ricerca nel mondo stanno lavorando ormai da una ventina di anni». È noto anche come autotrapianto di midollo osseo e consiste nel resettare le difese naturali dei malati di sclerosi multipla somministrando prima una potente terapia immunosoppressiva che crei una “pagina bianca” nei baluardi protettivi dell’organismo, provvedendo poi a un’infusione di cellule staminali ematopoietiche prelevate dagli stessi pazienti.

Un trial clinico di fase II che appare su «Neurology», guidato da Mancardi e Riccardo Saccardi del Careggi di Firenze, conferma i «risultati clamorosi in termini di riduzione delle nuove lesioni (-80%) rispetto alla terapia tradizionale». «Non c’è dubbio che questa strategia produrrà grandi risultati – aggiunge Mancardi – a patto di indirizzarla ai pazienti che possono beneficiarne, e cioè malati in fase recidivante-remittente, nei quali la patologia evolve rapidamente peggiorando in pochi mesi o anni, e abbiano fallito tutti i trattamenti tradizionali: diciamo un 5-10% del totale pazienti con sclerosi multipla», complessivamente pari a circa 60mila nel nostro Paese. Ma prima di poterli trattare, precisa, «i nostri risultati, così come quelli analoghi riportati da altri colleghi, vanno approfonditi e verificati con un ampio trial di fase III. Si tratta infatti di un trattamento molto aggressivo e a rischio tossicità».

Lo studio co-coordinato da Mancardi è multicentrico e internazionale, promosso dalla Società europea trapianti di midollo (Ebmt) e finanziato fra gli altri dalla Fism, Fondazione italiana sclerosi multipla. La ricerca, durata oltre 15 anni, ha coinvolto 21 persone con sclerosi multipla secondaria progressiva o recidivante-remittente, la cui disabilità era peggiorata nell’anno precedente nonostante il trattamento con farmaci di prima linea. Tutti i partecipanti, età media 36 anni, avevano ricevuto terapie classiche senza risultato.

avvenire.it

«La speranza abita il cuore di ogni uomo»

Amos Oz non si stupisce quan­do gli si chiede di parlare della speranza. È il grande tema dei suoi libri, tra cui spicca il capolavoro U­na storia d’amore e di tenebra, autobio­grafica cronistoria di una famiglia che riesce a sopravvivere perfino al dolore più grande, quello causato dal suicidio della madre. E la speranza è anche la parola d’ordine di Israele, lo Stato in cui il giovane Amos si è formato, tra il cor­tile di Karem Avraham (il quartiere di Gerusalemme che fa da sfondo a gran parte della sua produzione) e il kibbutz, dove per un un lungo periodo ha con­tinuato a servire nonostante la sua fa­ma di romanziere fosse in continua cre­scita. Ora, all’età di 72 anni, è conside­rato uno degli autori più importanti del suo Paese, un intellettuale molto ascol­tato in patria e all’estero. Anche in que­sto, ha tenuto fede alla determinazione con cui, poco più che adolescente, de­cise di rinunciare al cognome paterno, Klausner, per assumere quello di Oz, il termine ebraico per “forza”. La speran­za, per lui, coincide con l’atto stesso del­la scrittura. Anzi, con il momento che la precede immediatamente, quando ci si siede alla scrivania, si accende la lam­pada e si cerca di fare chiarezza dentro di sé. «Ogni storia è basata sulla spe­ranza – ribadisce al telefono dalla sua casa di Arad, nel deserto del Negev. – Non importa quanto possa appari­re pessimista, malinconica o ad­dirittura disperata. Chi la rac­conta si aspetta comunque che ci sia qualcuno in ascolto, un altro disposto a leggere e a creare così un legame di con­divisione. Scrivere è un atto di speranza e la speranza è u­na necessità umana elemen­tare, irrinunciabile».


Crede che questa sua convinzione sia in qualche modo influenzata dal fatto di essere nato e cresciuto in I­sraele?

«Certo, Israele è un Paese che nasce dai sogni e dalla speranza. Anche in questo caso, è esistito nei libri prima di esiste­re nella realtà. Prenda le opere di Theo­dor Herzl, uno dei padri del sionismo. Un suo romanzo del 1902, Altneuland, descrive uno Stato ebraico che, all’e­poca, appariva del tutto ipotetico, E la stessa Tel Aviv, prima ancora di essere una città reale, è stata romanzesca­mente immaginata da Herzl. Tutto quello che oggi appartiene all’orizzon­te quotidiano degli israeliani si è mani­festato inizialmente come sogno e co­me oggetto di speranza. Proprio per questo, però, il nostro Paese ha richie­sto scelte molto pragmatiche, talvolta drastiche. Tra speranza e realismo il le­game è strettissimo, inscindibile».

Il realismo impedisce oggi una solu­zione del conflitto palestinese?
«Al contrario, direi: il realismo impor­rebbe semmai di accelerare una deci­sione che in questo momento appare più visibile e possibile di quanto lo fos­se in passato».

Si riferisce alla divisione in due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi?
«Certo, è un compromesso che in que­sto momento incontrerebbe larghissi­mo consenso. Tutto dipende dalle de­cisioni che verranno prese a livello po­litico. Diciamo così: il paziente è pron­to per l’intervento, ma i medici sono troppo spaventati per eseguirlo».

In alcuni suoi libri, come nel «Monte del Cattivo Consiglio», da poco tradot­to in italiano, domina un sentimento di attesa, addirittura di incertezza. Anche questo ha a che vedere con la speran­za?
«Vede, le storie raccolte nel Monte del Cattivo Consiglio , sono ambientate in un periodo storico molto preciso, il biennio 1946-1947. Subito dopo la Shoah, subito prima della nascita del­lo Stato ebraico. Un periodo di grande incertezza, ma anche di fortissime a­spettative. Mi ricordo bene una battu­ta che circolava a quell’epoca: “In I­sraele, si diceva, se non credi nei mira­coli, significa che non sei abbastanza realista”. La penso ancora così».

Fino a non molto tempo fa Israele e il Medio Oriente erano considerati una zona a rischio sulla scena internazio­nale. L’Occidente si sentiva al sicuro da sostanziali minacce. Poi è venuto l’11 settembre, è venuta la crisi economi­ca. E adesso come la mettiamo?
«Le ricorda anche lei le previsioni sulla “fine della storia”, vero? Circolava la convinzione che l’Occidente avesse or­mai ottenuto tutto quello che deside­rava. Da lì in poi, si sosteneva, il futuro sarebbe stato stabile, privo di sorprese. Non è andata così, ora possiamo dire che si è trattato di una previsione cla­morosamente sbagliata. Nello stesso modo, tuttavia, ci rendiamo conto di quanto sia tornata ad esserci cara la speranza. Non è una virtù per tempi tranquilli, ma è l’unica virtù di cui ab­biamo necessità assoluta nelle epoche di instabilità e incertezza, come questa che stiamo vivendo».

Ma in epoche come la nostra anche la paura rischia di avere il sopravvento…
«La paura è soltanto l’altra faccia della medaglia, per questo non va temuta troppo. Speranza e paura sono separa­te da una linea sottilissima, ma per for­tuna ciascuno di noi può decidere da che parte stare».

Come?
«Rispondendo a una domanda molto semplice: io che cosa posso fare? La re­sponsabilità individuale è il primo dei due pilastri su cui poggia la speranza».

E l’altro qual è?
«La solidarietà sociale, che personal­mente ho sempre considerato come la vera “terza via” tra il darwinismo eco­nomico del capitalismo e il totalitari­smo ideologico del comunismo. In que­sti tempi di crisi economica, occorre­rebbe un ripensamento a livello inter­nazionale sui parametri di una nuova solidarietà. Sarebbe una prova di gran­de concretezza e, quindi, un coraggio­so atto di speranza».

Per i cristiani la speranza è una virtù teologale: pensa che occorra un atteg­giamento religioso per praticarla?
«Considero la speranza un elemento u­niversale, che precede il manifestarsi storico delle religioni. Sono convinto che anche l’uomo di Neanderthal, nel­le sue caverne, coltivasse un sentimen­to di speranza. È un atteggiamento che attraversa tutta l’esperienza umana, fin dall’alba della storia».

Lei si è occupato spesso del tema del fondamentalismo: lo considera anco­ra un pericolo?
«Penso che sia la più grande sfida che il XXI secolo è chiamato ad affrontare. Ma attenzione, sarebbe un errore ritenere che esista soltanto il fondamentalismo religioso. Se ci guardiamo attorno, ci rendiamo conto che sono in atto deri­ve fondamentaliste in senso nazionali­sta e addirittura in senso ambientali­sta. L’importante è che ciascuno di noi impari a riconoscere e a contrastare il fondamentalista che cova dentro di sé. In questo senso, lo ripeto, la speranza si basa anzitutto sulla responsabilità in­dividuale ».

Molti suoi libri narrano storie di fami­glia: è lì che si può imparare la spe­ranza?
«In famiglia si impara tutto. Meglio, la famiglia è una buona scuola per qual­siasi materia. Per la speranza, ma anche per la disperazione. È il microcosmo della vita umana, oltre che il tema cen­trale della letteratura. Vede, se mi chie­dessero di sintetizzare in una sola pa­rola l’argomento dei miei libri, rispon­derei con “famiglie”. Se me ne conce­dessero due, invece, direi “famiglie in­felici” ».

E se le parole fossero tre?
Qui Amoz Oz fa una pausa, poi scandi­sce in inglese: Read my books (“Legge­te i miei libri”). E questo, giochi di pa­role a parte, rimane un ottimo consi­glio.

Alessandro Zaccuri – avvenire.it

L’altra Palermo

Gli artisti e i volontari alla riconquista dello Zen

DA PALERMO ALESSANDRA TURRISI

Cantanti, coreografi, attrici… Sono ‘Quelli della rosa gialla’. Dimostrano che a Brancaccio si produce anche cultura, non soltanto mafia
 La Palermo della speranza

Quando i riflettori si ac­cendono sulla cronaca, tutto il resto spesso resta in ombra. Il pentito Ga­spare Spatuzza, condannato per l’omicidio di don Pino Puglisi, con le sue dichiarazioni sta provando a riscrivere alcune delle parti più nebulose degli anni delle stragi di mafia; lo Zen viene messo a ferro e fuoco per contrastare il cronico fenomeno dell’occupazione abu­siva delle case; il centro storico e le periferie sono invasi dalla spaz­zatura e dal degrado. Ma in que­gli stessi quartieri, all’ombra, ci sono segnali di rinascita che han­no i volti di artisti in erba e inse­gnanti missionari, sacerdoti che sanno operare nel silenzio e vo­lontari che vogliono sporcarsi le mani. Brancaccio, la borgata in cui qua­si 17 anni fa fu decisa l’esecuzio­ne di don Puglisi, il parroco che in appena tre anni era riuscito a svegliare le coscienze degli abi­tanti, è sempre una periferia dal­le mille contraddizioni. Qui ha ap­pena aperto un grande centro commerciale, c’è la nuova scuola voluta da don Puglisi, sono stati ri­puliti i famosi magazzini di via Hazon, negli anni Novanta sede di ogni forma di illegalità, ma re­stano i passaggi a livello a chiu­dere ed emarginare questo pezzo di città. «Qui c’è un mondo in mi­niatura, dalla povertà estrema al possidente terriero – racconta don Maurizio Francoforte, parro­co di San Gaetano da un anno e mezzo. – Gli spazi non mancano, ma non c’è una progettualità. Speriamo nell’apertura della fer­mata della metropolitana – ag­giunge – ma il problema è che le periferie non possono più essere viste come gli sgabuzzini della città, dove si mette tutto ciò che non si vuole nel salotto buono. Devono essere centri promozio­nali di riconquista sociale e cul­turale. Non dimentichiamoci che anche Gesù è nato in una perife­ria ». Così, in un quartiere dove la parola famiglia assume tutti i si­gnificati tranne quello corrente, dove il pagamento del pizzo, se­condo le inchieste della magi­­stratura, è a tappeto, qualche se­gnale di cambiamento arriva. «A partire dalla promozione della fi­gura di don Puglisi – dice don Maurizio. – Finora si è sottolinea­to poco che lui è morto per la co­munità, per difenderla, da pasto­re coerente. Lui non vedeva solo degrado e miseria, lui vedeva uo­mini, persone e ogni persona è preziosa. Così, adesso noi pre­ghiamo don Pino ogni giorno. Qualche tempo fa è morta una zia dei Graviano (i mandanti dell’o­micidio di don Puglisi, ndr ) e tut­ti, ai funerali, hanno pregato per don Pino». E poi bisogna puntare sulla fami­glia, quella vera, «rimetterla al centro con un progetto educativo – aggiunge il parroco. – Bisogna responsabilizzare la famiglia, per curare la crescita nella fede dalla nascita alla morte. Ma dobbiamo anche incidere nella cultura di questo quartiere, entrare in rela­zione con la scuola, le biblioteche, dobbiamo insegnare ai bambini ad avere rispetto delle istituzioni, del creato, delle leggi, e agli adul­ti a fare emergere quello che c’è di bene». Un esempio esiste già e porta il nome del fiore preferito da don Puglisi. L’associazione ‘Quelli del­la rosa gialla’, fondata undici an­ni fa da Pippo Sicari, un medico di Brancaccio che la guerra di mafia l’ha vista in diretta, ma che ha de­ciso di «portare avanti gli inse­gnamenti di pace e legalità di don Pino e dimostrare che a Brancac- cio si può produrre anche cultu­ra, non solo mafia». Oggi sono 150 i giovani e meno giovani di tutta la città, che hanno scoperto i va­lori della vita grazie al canto, mi­gliaia quelli che li hanno assapo­rati come spettatori dei musical portati in giro per l’Italia. Un suc­cesso straordinario il Father Joe, dedicato a don Puglisi, nel 2008 al Brancaccio di Roma. Adesso la nuova missione è sensibilizzare i giovani contro l’abuso di alcol e contro le stragi del sabato sera. È questo il tema della favola-musi­cal Petali nel blu , realizzata su commissione della Polizia di Sta­to e messa in scena già a Palermo e Catania. E i primi risultati, in termini occupazionali e artistici, si sono già visti: «Nico ha canta­to a X Factor – racconta Sicari – Valentina, Serena e Angela sono diventate coreografe, Debora e Antonella attrici. Il mio sogno è creare qui, a Brancaccio, una scuola di teatro». Perché è strappando luoghi e braccia all’illegalità che si co­struisce il vero riscatto di Paler­mo. Anche a costo di diventare bersaglio di loschi interessi cri­minali. Una testimonianza arri­va dal centro storico, a due passi dal porticciolo della Cala, vecchio cuore antico della città. A piazza Tavola Tonda, è nato il Centro del­le arti e delle culture, che fra le va­rie associazioni ospita anche l’a­silo multietnico Ubuntu, più vol­te destinatario di attentati inti­midatori. Interamente gestito da volontari e collaboratori, offre un servizio gratuito ai bambini da zero a cinque anni. Per i più gran­di che frequentano le elementa­ri, la struttura si trasforma in una ludoteca dove trascorrere il po­meriggio e svolgere i compiti do­po la scuola. Ottanta bambini di diverse nazionalità, tutti figli del­le famiglie di immigrati che han­no trovato a Palermo un’alterna­tiva agli stenti dei loro Paesi. Piccoli cuori pulsanti in realtà che, dall’esterno, sembrano ari­de, immobili e piene di contrad­dizioni. L’emblema di ciò che questi quartieri sarebbero potu­ti diventare è quell’enorme inse­gna piantata al centro di una piazza dello Zen e circondata da rifiuti di ogni genere. A sorpresa recita ‘Il giardino della civiltà’. Uno scorcio di ‘paesaggio’ che le decine di bambini che fre­quentano il doposcuola e le atti­vità ricreative dell’associazione ‘Lievito’ si trovano sotto gli occhi quando escono da casa, quando aprono la porta del centro, quan­do vanno a scuola, quando gio­cano per strada. E proprio lì, in al­cuni locali incuneati in una delle insule progettate da Vittorio Gre­gotti e diventate paradigma del degrado sociale, quei volontari hanno deciso, quattro anni fa, di creare la propria sede operativa. I volontari sono tutti ragazzi dello Zen e suore di Carità che opera­no nel quartiere. «Abbiamo detto basta con l’ottica assistenziale, per cui gli aiuti vengono solo dal­l’esterno e, se sei un poveraccio, ci puoi restare» precisa il presi­dente Salvo Riso. Ed è scattata la logica della collaborazione fra le diverse realtà presenti a San Fi­lippo Neri, per tentare di diven­tare compagni di viaggio di chi è abituato ad avere come unica scelta quella dell’illegalità.