L’emozione della curiosità nella vita presbiterale

di: Maurizio Mattarelli – Laura Ricci

“Ho visto gente andare, perdersi e tornare… / Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone… / Abbaiano e mordono… / Ma il vero Amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai (Sempre per sempre, Francesco De Gregori).

È con questo spirito che, alcuni anni fa, è venuto alla luce il Gruppo Timoteo, dal nome del giovane presbitero “ordinato” da san Paolo e da lui accompagnato e sostenuto nel suo ministero (cf. Timoteo e l’Arte della Manutenzione del Presbiterato, in Il Margine n. 7, 2018).

Sono tempi nei quali “la pioggia e il sole” della pastorale “abbaiano e mordono” ed è alto il rischio dell’esaurimento emotivo e della confusione, derivanti dal pressante carico del ruolo istituzionale che i preti devono sostenere in «questo cambiamento di epoca» (papa Francesco).

È una situazione che amplifica la separazione alienante tra spiritualità e corporeità, non solo praticata ma, a volte, inconsapevolmente teorizzata. Ciò deriva dal fatto che la formazione presbiterale favorisce, tuttora, l’aspetto cognitivo-intellettuale, senza integrarlo sufficientemente con le dimensioni affettive, emotive e neurobiologiche. Occorre allora aver cura di sé, regalarsi un tempo e uno spazio per ascoltarsi e confrontarsi, un luogo che favorisca l’intimità con sé stessi e con i membri del gruppo.

Per essere individui integri, integrati ed integranti, un aspetto fondamentale è la curiosità, intesa come la capacità primaria della mente di stabilire legami e di poter entrare così in relazione con l’Altro.

ministero

Nella nostra conduzione del Gruppo Timoteo, agiamo e promuoviamo un atteggiamento di genuina curiosità: impariamo a guardare l’altro, noi stessi, e soprattutto la relazione come ad una realtà da percepire e da scoprire, e non da pre-definire. Quest’atteggiamento curioso ci consente di evitare due errori: ignorare l’altro, riducendolo a “identico a me”, e ignorare noi stessi, come se fossimo fuori dalla relazione.

La curiosità controbilancia una certa ansia del prete nel fornire alla persona “la risposta giusta” che è più funzionale a tranquillizzare se stesso circa il proprio valore, piuttosto che al bene della persona e delle comunità che incontra.

Con questo isolamento pandemico, abbiamo poi sperimentato come essere da soli sia una delle più grandi sofferenze umane; nonostante ciò, viviamo in ambienti sociali ed ecclesiali di persone che cercano disperatamente di amarsi senza riuscirci.

Siamo molto connessi e, a volte, così poco comunicanti!

Per comunicare abbiamo bisogno di aprire nuovi varchi liturgici di possibilità e di costruire nuovi ponti di prossimità. In diverse parrocchie, gruppi di famiglie hanno ri-creato piccole comunità, ritrovando una fede e dei riti più in sintonia con la dimensione propria personale, trasformando questo momento di distanza e di crisi in opportunità. Nella gente è aumentato il bisogno di una spiritualità che dia significato al mondo attorno a noi, ai nostri rapporti interpersonali e alla nostra esistenza di cittadini e credenti.

Scoprire nuove potenzialità personali e nutrire i talenti comunitari può diventare un nuovo stile di prossimità vitale, creativa, responsabile, protettiva e densa di passione per la vita che ci attende nella società post-coronavirus.

Ascoltare le persone ed essere insieme con loro curiosi e aperti a nuove opportunità, ci permette di fare lo spazio necessario a ciò che arriverà, sostenendo il piacere di condividere il tempo insieme, con quella voglia che genera l’attesa e il desiderio dell’incontro.

C’è pure chi educa, senza nascondere / l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni / sviluppo ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci).

Usiamo l’emozione della curiosità con «l’intelligenza della pioggia e del sole», per comprendere le necessità dell’Altro anche dietro le apparenze e nei luoghi nascosti; usiamo l’intuizione, la vicinanza, l’affetto, il rispetto, la generosità e la prudenza per celebrare l’eucaristia nella vita: «Vi esorto fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spiri­tuale» (Rm 12,1).

Ci concediamo di “sognare ad occhi aperti”, di vedere noi stessi, l’altro e la relazione in un modo nuovo, inedito, mutando i sogni in progetti, promuovendo una maieutica reciproca che permetta la trasformazione d’individualità singole in un gruppo. Siamo così, promotori curiosi di una comunità sociale ed ecclesiale in cui ciascuno abbia riconosciuto il proprio potere, coniugando “il sognare” con “l’agire”.

Nel nostro percorso supervisivo di gruppo, i presbiteri si esercitano a dare spazio all’Altro: così, quando sono in relazione con le persone e le comunità a loro affidate, possono promuovere uno spazio relazionale che permette alle persone di attingere alle proprie risorse vitali e spirituali.

In questi anni, i presbiteri che hanno frequentato il Gruppo Timoteo hanno compreso cosa significhi mettere da parte la facoltà del decidere ciò che avviene a favore della capacità di contemplare quello che sta accadendo e del significato che ciò ha per la persona: quest’atteggiamento consente il silenzio e crea la possibilità di costruire una relazione profonda e autentica.

Se guardiamo alla relazione con curiosità, è perché siamo fiduciosi che può essere vitale e generativa e, perciò, imprevedibile com’è lo Spirito! È dunque fondamentale essere curiosi con gli individui e i gruppi che accompagniamo, imparare come stare con loro, incoraggiare l’immaginazione e favorire la capacità di sognare e sognarsi in un altro modo, in più modalità possibili che sostengano questo cambiamento epocale.

settimananews

Parrocchie senza prete. Quali soluzioni?

Si è svolta a Torreglia (PD) dal 24 al 27 giugno la 69ª Settimana di aggiornamento pastorale promossa dal Centro orientamento pastorale (COP). I lavori hanno avuto come oggetto “La parrocchia senza preti. Dalla crisi delle vocazioni alla rinnovata ministerialità laicale”. Tra i relatori: F. Garelli, G. Villata, A. Steccanella, L. Bressan, L. Tonello, L. Voltan e A. Mastantuono.

settimananews

I lavori hanno preso avvio con la presentazione della situazione del clero in Italia; è innegabile – ci dicono i dati statistici – che, in tre decenni, il numero dei preti si è ridotto di circa il 16%, con grandi differenze a livello territoriale (situazione assai critica al Nord e più favorevole al Sud), con un’età media di oltre 61 anni, ma anche in questo caso con rilevanti differenze territoriali 1/3 del clero ha più di 70 anni, mentre il clero giovane (con meno di 40 anni) rappresenta il 10% del corpo sacerdotale.

La consapevolezza che il fenomeno ha i caratteri della permanenza e non può essere superato con il ricorso a soluzioni tampone previste dal Codice (can. 517 §2), ha stimolato una riflessione sulla Chiesa in cui il senso di corresponsabilità di tutti e uno stile più sinodale possono contribuire allo slancio missionario, poiché quest’ultimo diviene l’oggetto di tutti i fedeli, non per salvaguardare la sua organizzazione ma per una sempre maggiore fedeltà al mandato evangelico.

Soggetto collettivo

Se nella figura “anteriore” della Chiesa, così come si è costituita nel secondo millennio, la comunità parrocchiale di fatto si è identificata con i servizi resi quasi esclusivamente dal parroco e dai suoi collaboratori, la Lumen gentium (n. 26) invita a pensarci come «soggetto collettivo». La constatazione e l’interrogativo: «Quando assistiamo alle celebrazioni domenicali e ci chiediamo chi è il soggetto: il prete che viene da fuori e continua a tener viva l’eucaristia per persone spesso anziane – cosa assolutamente legittima – oppure una comunità “soggetto collettivo” che accoglie il prete affinché la presieda nel nome dello stesso Cristo?» conduce ad abitare la mancanza di preti spostando l’attenzione dal «che cosa fare» a «chi è coinvolto», in parole più semplici: ad una riflessione sulla Chiesa che superi la tentazione del clericalismo che nasce dal dimenticare che «la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il santo popolo fedele di Dio» (papa Francesco).

Il concilio Vaticano II aveva provato a disegnare una Chiesa in cui «… comune è la dignità dei membri in forza della loro rigenerazione in Cristo, comune è la grazia di essere figli, comune la chiamata alla perfezione, una la speranza e l’indivisa carità» (LG 32). Il sogno è stato mille volte ripensato, ammorbidito e ostacolato.

Corresponsabilità e sinodalità

Ci si augura che sia ormai superata (?) la visione di comunità ecclesiali in cui la relazione dei preti con i laici era costruita sui vecchi modelli dell’accentramento e della delega benevola, che rispecchiava una visione «gerarcologica» (Congar) o «piramidale» (papa Francesco), nella quale l’unico soggetto della missione salvifica era la gerarchia, mentre i laici erano esecutori o poco più; come non è più sufficiente parlare di collaborazione dei presbiteri con i laici, quasi che solo sul piano operativo – e sulla spinta della necessità – si dovessero costruire delle convergenze; è, invece, il momento di strutturare una vera e propria prassi di corresponsabilità, che rispecchia l’ecclesiologia del popolo di Dio tutto intero come “soggetto” della missione.

Il ricorso alla «corresponsabilità di tutto il popolo di Dio» sembra essere una delle strade da percorrere per abitare e superare la mancanza del clero, ma con le necessarie specificazioni.

L’idea che rimanda alla corresponsabilità nel Concilio (ricordiamo che il termine “corresponsabilità” non è presente nei testi conciliari) si fonda sull’asserto che in forza del battesimo tutti, ciascuno per la sua parte, siamo responsabili della comunione e della missione della Chiesa. Corresponsabilità ha qui a che fare certamente con la Chiesa. Non già però con la sua organizzazione o il suo funzionamento, ma con la sua radice – la comunione – e il suo senso ultimo – la missione –, cioè l’essere segno e strumento di tale comunione.

Parrocchia senza preti
Laici, non specialisti del sacro

Nella proposizione attuale della corresponsabilità sembra assente, o poco esplicitato, l’orizzonte ampio e fondamentale della comune responsabilità di fronte al mondo, quello dell’evangelizzazione.

È necessario purificarla da una declinazione eccessivamente funzionale alla gestione ecclesiastica allo scopo di riguadagnare la corretta referenza della comune responsabilità ecclesiale. In altre parole, è indispensabile recuperare la corretta prospettiva conciliare, in base alla quale, quando si parla di comune responsabilità ecclesiale, il riferimento non è tanto alla conduzione/gestione ecclesiale, bensì al comune impegno per la testimonianza della fede. Esiste il rischio che la stabilità e la partecipazione alla «cura pastorale», proprie dei ministeri laicali, conducano a qualche forma di clericalizzazione dei laici, trasformandoli in un «clero di riserva» (a disposizione del «clero ufficiale») o in una nuova categoria di specialisti del sacro estranei di fatto alla vita del mondo.

La corresponsabilità non è prima di tutto un aiuto ai pastori, ma espressione della vita cristiana, che trova luogo e forma principalmente nella vita concreta del territorio, della gente, del luogo di lavoro.

È necessario partire da questo riferimento fondamentale, perché esso chiarisce che i laici sono abilitati e riconosciuti nella loro responsabilità ecclesiale anzitutto e propriamente come laici, cioè non in forza di eventuali incarichi intraecclesiali, ma in forza della loro concreta vita cristiana, secondo la vocazione e lo stato di ciascuno.

L’ambito dell’impegno laicale non è peculiarmente la cura pastorale della comunità cristiana, ma si esprime nella responsabilità testimoniale nel servizio della comunità ecclesiale e sociale.

Una rinnovata visione della ministerialità

Come far vivere le comunità nel «vacuum lasciato da preti diventati itineranti» (C. Theobald)?

La risposta consiste nel creare progressivamente una nuova cultura ministeriale nella Chiesa alla luce di due condizioni: in primo luogo, la presa di coscienza, da parte delle nostre comunità, del loro ruolo di presenza missionaria in seno alla società; in secondo luogo, la scoperta che esse non dispongono automaticamente di preti a volontà ma che questi sono un dono fatto alla comunità che deve, a sua volta, sempre chiedersi di quale ministero ha bisogno per compiere la missione. Un processo – questo – che rimanda a comunità sinodali consapevoli di essere un popolo in cui «tutti fanno tutto, ma non allo stesso modo né allo stesso titolo» (Conferenza episcopale francese).

Dire sinodalità è affermare il camminare insieme, in cui il pastore esercita uno specifico e irrinunciabile compito di guida in un’effettiva, e mai definibile in partenza, interazione con gli altri carismi e ministeri di natura battesimale.

Parrocchie senza prete

Il sorgere di nuovi ministeri ecclesiali non può avvenire per una sorta di accanimento terapeutico su alcuni che vengono quasi precettati per il servizio alla comunità, ma nasce da un’opera di discernimento comune di sacerdoti e laici che si pongono insieme il tema della praticabilità della vita cristiana in quel luogo.

Per quanto nasca da una radice carismatica, un ministero deve avere una figura precisa e godere quindi di una certa stabilità riconosciuta come tale almeno dalla Chiesa diocesana. Se, mediante il battesimo e la cresima, ogni cristiano diventa presenza di Vangelo nel suo ambiente, il riconoscimento di questa persona da parte della comunità e del prete responsabile la trasforma in presenza di Chiesa.

Un ministero suppone quindi un riconoscimento pubblico e un mandato esplicito, ma anche un rendere contodell’azione svolta; in effetti, alla persona inviata sono attribuiti una funzione o un compito ben definiti e stabiliti in una lettera di missione.

Esperienze

All’interno della Settimana COP sono state presentate alcune esperienze già in atto. Le ricordiamo brevemente.

  • Le unità pastorali

È un’esperienza che coinvolge ormai numerose diocesi in Italia; ha innescato un processo di revisione e di rilettura della figura classica e abituale della parrocchia che ha condotto ad una serie di acquisizioni: la riscoperta dell’evangelizzazione, come compito prioritario, appartenente a tutto il popolo di Dio; non più solo il prete come unico referente della pastorale della parrocchia, ma tutti i battezzati che desiderano vivere la loro fede in stile di corresponsabilità; non più la singola parrocchia, caratterizzata dalla coppia “campanile al centro, confini alla periferia”, ma più parrocchie insieme che agiscono, almeno in alcuni ambiti, come soggetto unitario di evangelizzazione.

  • Assunzione di responsabilità da parte di laici e di famiglie

Accanto alla figura di un responsabile parrocchiale laico (cf. can. 517 § 2) sono presenti in Italia alcune esperienze di responsabilità parrocchiale affidate ad una famiglia. In forza del sacramento del matrimonio, la famiglia non solo è luogo originario di relazioni generative al suo interno, ma anche nei confronti della comunità.

  • Le équipes di animazione pastorale

L’attivazione delle équipes contribuisce a rafforzare l’idea di Chiesa che si realizza in un luogo e permette alla singola comunità di continuare ad essere artefice della missione della Chiesa sul territorio localizzandosi e generando vita di fede. In quanto figura pastorale qualificata ed efficace, manifesta una ricca simbolica ecclesiale. Il gruppo evita l’identificazione e la concentrazione dell’azione sulla singola persona (clericalismo); permette un confronto a più voci evitandole personalizzazioni (sinodalità); consente la promozione di una collaborazione efficace (comunione); configura in piccolo la comunità stessa con la varietà dei doni e delle operazioni (soggettualità); traduce in operatività le indicazioni degli organismi di consiglio (prassi pastorale).

Pastore o funzionario del sacro?

cittanuova.it

A motivo della ben nota crisi vocazionale il numero di sacerdoti e religiosi/e è notevolmente diminuito, e con esso di pari passo, ma in modo inversamente proporzionale, è aumentato il vostro carico di lavoro. Sono testimone – e non credo di dire nulla di nuovo – di sacerdoti giovani e meno giovani carichi di impegni, che forse appaiono gratificanti nei primi anni dopo l’ordinazione quando alimentano il senso di onnipotenza – di cui tutti noi, a turno, siamo vittime – ma che, nel corso del tempo, finiscono per diventare degli oneri enormi.

Forse, come lei accenna con sapienza e insieme discrezione, è necessario ripensare il “modello di prete” nel terzo millennio, perché questa vocazione non si appiattisca all’essere un “burocrate del sacro”, come si autodefinisce un mio amico sacerdote.

Mi vengono in mente alcune considerazioni: ormai abbiamo superato il mito del prete come di un uomo superdotato e sempre disponibile, come se non fosse un essere umano con i suoi limiti e le esigenze più semplici di un ritmo di vita sano.

Però bisogna ancora sfatare il mito del prete inteso come uomo singolo a servizio degli altri.

Una vocazione infatti, anzi qualunque vocazione, anche quella degli sposi, non è mai una vocazione individuale che possa sussistere in se stessa, o che possa appoggiarsi unicamente sulla singola personalità, per quanto eccellente sia.

Ogni vocazione è inserita all’interno di una comunità che dà senso, sostiene, collabora alla buona riuscita della coppia, del sacerdote, dell’uomo e della donna consacrata. Forse lo si dice, ma in modo vago ed ideale, invece ha una valenza estremamente seria e concreta.

Tutti siamo reciprocamente responsabili della vocazione altrui. La vocazione del singolo chiamato da Dio, o della coppia, acquistano significato solo all’interno di un noi comunitario.

Nessuno sarebbe in grado di realizzare compiutamente l’essere marito, l’essere moglie, l’essere genitore, l’essere sacerdote, l’essere religioso senza il sostegno di preghiera, ma anche di presenza, di incoraggiamento e di collaborazione degli altri.

Di fatto accade così, ma come può il sacerdote addossarsi da solo, o al massimo con un “vice”, tutte le attività che ruotano attorno a una parrocchia, o comunque a un servizio di apostolato? Non solo per il grande carico materiale, ma anche per quello emotivo, psicologico ed affettivo.

Lo stesso vale per la famiglia che non può portare avanti da sola la chiamata a vivere l’amore in modo esclusivo e generativo, senza persone intorno che la sostengono e la aiutano a custodire il dono reciproco.

Ciascuno, secondo la propria parte – ma il discorso qui è complesso e articolato perché chiama in causa un serio ripensamento dell’organizzazione della Chiesa –, è chiamato a dare ascolto, ad offrire accoglienza, a prestare attenzione, a portare un aiuto materiale perché l’altro funzioni. E se uno di noi cade durante il cammino, tutti cadiamo con lui o con lei, e siamo in qualche modo responsabili della superficialità che non ci ha permesso di cogliere un eventuale malessere o una necessità importante.

Per la fragilità dell’essere umano attuale, per la complessità del mondo contemporaneo, per la quantità di esigenze che ci sono nel mondo,non possiamo più permetterci di ragionare con le categorie dell’io.

Certo è una mentalità oggi tutt’altro che spontanea, per il narcisismo e l’individualismo diffusissimi, e forse il discorso suona utopico, però ritengo che gli anni di formazione alla vita sacerdotale, a quella religiosa, e a quella familiare, dovrebbero introdurre questo modo di intendere la vocazione. Altrimenti tutto si concentra attorno alle capacità strettamente personali e alle doti di questo o quello.

È chiaro che ciascuno ha delle qualità e delle risorse umane uniche, non si tratta di spersonalizzare l’identità del singolo, tuttavia è la comunità di fede ad accogliere una famiglia che si forma e a collaborare perché la sua vocazione si compia, ed è la comunità di fede ad accogliere e sostenere il sacerdote o il religioso, perché la sua specifica missione si realizzi il meglio possibile.

Questo significa formare la mente e il cuore che la fraternità, la “casa”, è una sola.

Quando si percepisce un ambiente come proprio, si ha cura di ogni suo angolo senza pensare a chi tocchi pulirlo, ad esempio. Dentro casa, moglie, marito e figli si ripartiscono i compiti, perché tutto funzioni al meglio, ma ciascuno vive lo spazio della casa come proprio, e sente di essere responsabile del buon andamento generale.

Questo significa aver maturato un senso di appartenenza alla propria vocazione. Altrimenti si è solo ospiti o eternamente bambini.

La persona adulta, che ha sviluppato un senso di appartenenza alla propria comunità familiare e di fede, si impegna perché questa funzioni bene, vive come propria responsabilità il benessere dei suoi membri, si preoccupa per loro, si accorge se c’è qualcosa che non va.

Se gradualmente facessimo nostra questa prospettiva di fraternità, per tornare alla riflessione iniziale, si smorzerebbe la competizione, il conflitto, il voler primeggiare: che senso ha fare a gara in casa propria? Se l’obiettivo è comune, e il compito è portato avanti insieme, diventa molto meno importante chi lo realizza in quel momento. Ciò significa, almeno questo è ciò che riesco a intuire, far sentire la persona parte di una fraternità più vasta e non caricarla di oneri che, se possono farla sentire in gloria in alcuni momenti, possono anche schiacciarla e farla sentire isolata in molti altri.

Messico. Ancora violenza: trovato morto prete. Le suore lasciano Chilapa

Una protesta in Messico contro la violenza che miete sempre più vittime (Lapresse)

Una protesta in Messico contro la violenza che miete sempre più vittime (Lapresse)

L’unica certezza è che un altro sacerdote è stato trovato morto in Messico. Si chiamava padre Raúl Quiñones Arellano, 47 anni ed era parroco a El Barril, vicino a Zacates. Giovedì mattina, la domestica l’ha trovato steso sul pavimento. La polizia, accorsa sul posto, ha affermato che il prete era stato assassinato la notte precedente. Poi, le autorità hanno cambiato versione. La Procura ha detto che i risultati dell’autopsia escluderebbero l’assassinio. Padre Raúl sarebbe stato stroncato da una crisi respiratoria. I dubbi, in ogni caso, restano.

La violenza nel Paese ha ormai raggiunto livelli bellici, con duemila morti nel solo mese di gennaio. Colpa delle bande criminali che operano con il sostegno di interi pezzi corrotti delle istituzioni. È questo intreccio tra mafie e politica a rendere i poteri pubblici impotenti. Consentendo ai gruppi delinquenziali di imporre sul territorio un potere parallelo. Col terrore. Chiunque rappresenti un’alternativa al loro pugno di ferro viene considerato una minaccia. E, dunque, eliminato. Giornalisti, attivisti e, in misura crescente, sacerdoti e laici impegnati.

L’ultima dimostrazione è il “ritiro” delle suore dalla diocesi di Chilpacingo-Chilapa. Di fronte all’orrore dell’omicidio dei genitori e della sorella di una di loro, le religiose guadalupane hanno dovuto lasciare la regione del Guerrero, una delle più violente del Messico. Le suore guadalupane amministravano l’istituto Morelos, uno dei più antichi della città di Chilapa, frequentato da 700 alunni, dall’asilo alle superiori. Da settembre a dicembre per paura di rappresaglie, erano state sospese le lezioni: la mancanza di sicurezza aveva imposto i corsi telematici per protezione dei ragazzi.

«Siamo indignati e tristi per il sequestro e la morte dei familiari di una nostra suora, uccisa insieme ad altre sei persone, il 30 gennaio scorso». A parlare è monsignor Salvador Rangel il vescovo che ha denunciato le drammatiche condizioni del Guerrero. Dove l’infiltrazione dei narcos ha raggiunto livelli allarmanti. E i cittadini sono drammaticamente indifesi. In tale contesto “hobbesiano”, lo stesso vescovo ha dovuto cercare un dialogo con i narcotrafficanti scopo di salvare la vita dei suoi fedeli.

Questa volta non c’è riuscito, nonostante le suore erano state da lui al momento del rapimento dei familiari. Altre volte monsignor Rangel aveva tentato e c’era riuscito. Un intermediario aveva fatto incontrare il vescovo con i capi dei narcos della zona. Tre gruppi dettano legge da tempo nel grande serbatoio dell’eoroina del Messico, facendosi una guerra che sta insanguinando tutta la regione. Pochi giorni fa due sacerdoti, Iván Añorve Jaimes y Germain Muñiz García, uno appartenente a questa diocesi e l’altro ad Acapulco, erano stati ammazzati in autostrada.

All’inizio, la Procura locale aveva cercato di insinuare che i preti uccisi avessero legami “sospetti” con i gruppi criminali. Dopo la secca smentita della diocesi e del vescovo Rangel – che è costata a quest’ultimo anche una denuncia –, il governatore Héctor Estudillo Flores ha fatto marcia indietro. E ha ammesso che i sacerdoti in questione non avevano niente a che fare con i narcos

da Avvenire

Sacerdoti, non dimenticare chi dona la vita per noi

Preti di strada. Preti chinati sulle ferite degli altri: immigrati, emarginati, famiglie in difficoltà, nuovi poveri. Preti che guidano nel buio dell’incertezza, sostengono nel momento dello sconforto.

Il Giubileo dei sacerdoti, che durerà fino al 3 di giugno, è l’occasione per riaccendere i riflettori sui parroci della nostra parrocchia accanto che si donano senza domandare nulla in cambio. Papa Francesco per loro- immagine del Buon Pastore vicino alla sua gente e servitore di tutti- chiede  un sostegno concreto di preghiera e d’affetto. Ci sono preti come don Mimmo Zambito, parroco di Lampedusa, da anni impegnato nell’accoglienza senza riserve ai migranti giunti sulle coste di quell’isola, porta d’Europa, stremati e senza più speranza. Ci sono religiosi come padre Nico Rutigliano, guanelliano, che  nella sua parrocchia di Fondo Fucile, in provincia di Messina, ha salvato dal degrado un campo incolto con il quale ha potuto tirar via dalla strada decine di giovani ora impegnati anche nel recupero scolastico. Salvandoli da droga e mafie. Ci sono frati come fra Gabriele Onofri, titolare della parrocchia Nostra Signora degli Angeli a Genova Voltri, che dal nulla hanno creato mense, dormitori, centri d’ascolto. E ora sono diventati punto di riferimento imprescindibile per le società civili locali.  Tutto senza le luci della ribalta, senza grande clamore. Nel silenzio più profondo donano la loro vita per tutti noi. Ad imitazione di Cristo. Per favore, non dimentichiamoli. Mai.
(Federico Piana) Radio Vaticano

Papa: no a parrocchie aperte ‘a orario’ Bergoglio, non c’è porta aperta, non c’è prete che accoglie

(ANSA) – CITTA’ DEL VATICANO, 29 MAG – Il Papa parlando a braccio nel corso dell’ omelia della messa per il giubileo dei diaconi ha detto di dispiacersi quando: “vedo orario nelle parrocchie, ‘da talora a talora’, poi non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico che riceva la gente”.
“Trascurare gli orari, – ha esortato – avere questo coraggio”.
“Il servitore trascura gli orari, a me fa male al cuore”. Papa Francesco ha fatto questa osservazione a proposito della disponibilità come stile del servizio cristiano e ha aggiunto: “la mitezza è una virtù dei diaconi, il diacono non gioca a scimmiottare il prete, no egli è mite”. Nel passaggio successivo in cui descriveva “i tratti miti e umili del servizio cristiano”, “che è imitare Dio servendo gli altri: accogliendoli con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve”, papa Bergoglio ha raccomandato: “E mai sgridare, mai”.

Giornata del Seminario. Statistiche diocesane al 24 Novembre 2015

Andamento delle ordinazioni e dei decessi negli ultimi 16  anni

Dal 20 settembre 1998  ad oggi sono stati ordinati

44 presbiteri  – in media 2 / 3 all’anno e 50 diaconi permanenti.

Nello stesso  periodo sono  deceduti:  154  presbiteri  (la media  è di 9 / 10 preti  all’anno) e 14 diaconi permanenti.

Attualmente i preti diocesani sono 24289 i preti dai 75 anni in su; 26 hanno dai 25 ai 40 anni. L’età media oggi è 64,37

I diaconi permanenti sono  in tutto 105; di questi 5 sono praticamente inabili al ministero. L’età media dei diaconi è 64,39.

Preti con ministero in Diocesi

Nelle missioni diocesane ci sono ora 9 preti2 preti sono studenti a Roma e 1 a Padova (continuando a svolgere un servizio in diocesi); 1 prete insegna stabilmente alla Lateranense e saltuariamente collabora a Reggio; 5 sono incardinati a Reggio ma svolgono un ministero fuori Diocesi;  Intorno ai 26 non svolgono ministero attivo. Questo significa che i preti diocesani che svolgono un ministero attivo in Diocesi  sono, dì fatto,  poco  meno  di  219. Nella  cura delle parrocchie  ci  aiutano  12  preti  extra diocesani (di  cui 4 dalla Polonia e 4 italiani di altre diocesi);

Risiedono a Reggio due cappellani etnici:

  • un prete ghanese per gli immigrati anglofoni dall’Africa
  • un parroco in San  Giorgio  per  i numerosi ucraini di rito greco-cattolico.

Parroci, Unità pastorali, Comunità ministeriali

I parroci (tra essi consideriamo anche gli amministratori parrocchiali e i delegati alla cura pastorale) sono in tutto 107 (di cui 4 co-parroci non moderatori):

Parroci

Dagli 81 ai 90 =  9; dai 71 agli  80 = 28; dai 61 ai 70 = 25; dai 51 ai 60 = 26; dai 40 ai 50 = 17.

Le parrocchie sono 317 (con le 2 parrocchie ospedaliere). Ciò significa che i parroci hanno in media a carico 2,96 parrocchie.

Tra i 26 giovani sacerdoti (cioè che non superano i 10 anni di Ordinazione), i parroci sono 3; 19 sono i vicari e i collaboratori parrocchiali, 1 è Missionario Fidei Donum in Madagascar, 2 studenti.

Ci sono stati ulteriori accorpamenti di parrocchie per cui le Unità  pastorali (UP),  di due o più parrocchie  (con un unico parroco o con co-parroci), sono aumentate  di numero  (attualmente poco più di 72). Restano non accorpate 24 parrocchie (4  nel Vicariato urbano, 5  nel Vicariato sassolese).

Le comunità ministeriali sono poco più 25  le “comunità ministeriali” sono caratterizzate dalla presenza  da due a quattro (o cinque) preti, con un minimo di vita comune  regolare, al  servizio di una UP con due o più parrocchie.

A Montecchio i preti “creativi” del Novecento

“Parroci e comunità di fede nelle emergenze storiche del Novecento”: s’intitola così il convegno che si terrà domenica 15 novembre alle 15.30 presso il Santuario della Beata Vergine dell’Olmo a Montecchio per rievocare le figure di don Ennio Caraffi, don Nando Barozzi, don Cipriano Ferrari, don Giovanni Reverberi e don Dino Torreggiani, molto diverse per stile, carattere e carismi.
“I cinque protagonisti, dei quali saranno presentati brevi profili intrecciati alla vita delle comunità di cui seppero essere custodi, guide e garanti della loro fedeltà alla Chiesa, sono stati scelti con DONREVERBERIDONTORREGGIANIcriteri attentamente soppesati”, spiega il professor Sandro Spreafico.
In questo contesto si farà memoria di don Cipriano Ferrari, ordinato nel 1898, mentre sta per aprirsi la fase più feconda del cattolicesimo sociale; di don Giovanni Reverberi (1925) e di don Dino Torreggiani (1928), interpreti di una concezione altissima del ministero sacerdotale e di una Chiesa che deve misurarsi, sul piano pastorale, con il paganesimo dei miti funzionali del Fascismo-regime; di don Ennio Caraffi (1934) e di don Nando Barozzi (1938), che si espongono personalmente tra i gorghi di una sanguinosa guerra civile.

Intervengono:

AURELIO ROVACCHI – «Carità e coraggio nella sintesi pastorale
di don Ennio Caraffi, educatore e parroco di Montecchio»

CLEMENTINA SANTI – «“La prima cosa da fare è dire la verità”. Don Nando Barozzi, parroco per 50 anni sull’Appennino reggiano, tra il pulpito e la piazza, con intelligenza e fede»

CRISTIAN RUOZZI – «Don Cipriano Ferrari e la piccola comunità di San Faustino di Rubiera dinanzi ai totalitarismi»

MARIO PINI – «Il magistero spirituale di don Giovanni Reverberi, parroco di montagna e Servo della Chiesa»

SANDRO SPREAFICO – «“Ci sentivamo esaltati come soggetti ecclesiali”: i giovani di Santa Teresa negli anni di don Dino Torreggiani»

CORO DELL’INDACO diretto da MARCELLO ZUFFA

Coordina EDOARDO TINCANI

laliberta.info