Pastore o funzionario del sacro?

cittanuova.it

A motivo della ben nota crisi vocazionale il numero di sacerdoti e religiosi/e è notevolmente diminuito, e con esso di pari passo, ma in modo inversamente proporzionale, è aumentato il vostro carico di lavoro. Sono testimone – e non credo di dire nulla di nuovo – di sacerdoti giovani e meno giovani carichi di impegni, che forse appaiono gratificanti nei primi anni dopo l’ordinazione quando alimentano il senso di onnipotenza – di cui tutti noi, a turno, siamo vittime – ma che, nel corso del tempo, finiscono per diventare degli oneri enormi.

Forse, come lei accenna con sapienza e insieme discrezione, è necessario ripensare il “modello di prete” nel terzo millennio, perché questa vocazione non si appiattisca all’essere un “burocrate del sacro”, come si autodefinisce un mio amico sacerdote.

Mi vengono in mente alcune considerazioni: ormai abbiamo superato il mito del prete come di un uomo superdotato e sempre disponibile, come se non fosse un essere umano con i suoi limiti e le esigenze più semplici di un ritmo di vita sano.

Però bisogna ancora sfatare il mito del prete inteso come uomo singolo a servizio degli altri.

Una vocazione infatti, anzi qualunque vocazione, anche quella degli sposi, non è mai una vocazione individuale che possa sussistere in se stessa, o che possa appoggiarsi unicamente sulla singola personalità, per quanto eccellente sia.

Ogni vocazione è inserita all’interno di una comunità che dà senso, sostiene, collabora alla buona riuscita della coppia, del sacerdote, dell’uomo e della donna consacrata. Forse lo si dice, ma in modo vago ed ideale, invece ha una valenza estremamente seria e concreta.

Tutti siamo reciprocamente responsabili della vocazione altrui. La vocazione del singolo chiamato da Dio, o della coppia, acquistano significato solo all’interno di un noi comunitario.

Nessuno sarebbe in grado di realizzare compiutamente l’essere marito, l’essere moglie, l’essere genitore, l’essere sacerdote, l’essere religioso senza il sostegno di preghiera, ma anche di presenza, di incoraggiamento e di collaborazione degli altri.

Di fatto accade così, ma come può il sacerdote addossarsi da solo, o al massimo con un “vice”, tutte le attività che ruotano attorno a una parrocchia, o comunque a un servizio di apostolato? Non solo per il grande carico materiale, ma anche per quello emotivo, psicologico ed affettivo.

Lo stesso vale per la famiglia che non può portare avanti da sola la chiamata a vivere l’amore in modo esclusivo e generativo, senza persone intorno che la sostengono e la aiutano a custodire il dono reciproco.

Ciascuno, secondo la propria parte – ma il discorso qui è complesso e articolato perché chiama in causa un serio ripensamento dell’organizzazione della Chiesa –, è chiamato a dare ascolto, ad offrire accoglienza, a prestare attenzione, a portare un aiuto materiale perché l’altro funzioni. E se uno di noi cade durante il cammino, tutti cadiamo con lui o con lei, e siamo in qualche modo responsabili della superficialità che non ci ha permesso di cogliere un eventuale malessere o una necessità importante.

Per la fragilità dell’essere umano attuale, per la complessità del mondo contemporaneo, per la quantità di esigenze che ci sono nel mondo,non possiamo più permetterci di ragionare con le categorie dell’io.

Certo è una mentalità oggi tutt’altro che spontanea, per il narcisismo e l’individualismo diffusissimi, e forse il discorso suona utopico, però ritengo che gli anni di formazione alla vita sacerdotale, a quella religiosa, e a quella familiare, dovrebbero introdurre questo modo di intendere la vocazione. Altrimenti tutto si concentra attorno alle capacità strettamente personali e alle doti di questo o quello.

È chiaro che ciascuno ha delle qualità e delle risorse umane uniche, non si tratta di spersonalizzare l’identità del singolo, tuttavia è la comunità di fede ad accogliere una famiglia che si forma e a collaborare perché la sua vocazione si compia, ed è la comunità di fede ad accogliere e sostenere il sacerdote o il religioso, perché la sua specifica missione si realizzi il meglio possibile.

Questo significa formare la mente e il cuore che la fraternità, la “casa”, è una sola.

Quando si percepisce un ambiente come proprio, si ha cura di ogni suo angolo senza pensare a chi tocchi pulirlo, ad esempio. Dentro casa, moglie, marito e figli si ripartiscono i compiti, perché tutto funzioni al meglio, ma ciascuno vive lo spazio della casa come proprio, e sente di essere responsabile del buon andamento generale.

Questo significa aver maturato un senso di appartenenza alla propria vocazione. Altrimenti si è solo ospiti o eternamente bambini.

La persona adulta, che ha sviluppato un senso di appartenenza alla propria comunità familiare e di fede, si impegna perché questa funzioni bene, vive come propria responsabilità il benessere dei suoi membri, si preoccupa per loro, si accorge se c’è qualcosa che non va.

Se gradualmente facessimo nostra questa prospettiva di fraternità, per tornare alla riflessione iniziale, si smorzerebbe la competizione, il conflitto, il voler primeggiare: che senso ha fare a gara in casa propria? Se l’obiettivo è comune, e il compito è portato avanti insieme, diventa molto meno importante chi lo realizza in quel momento. Ciò significa, almeno questo è ciò che riesco a intuire, far sentire la persona parte di una fraternità più vasta e non caricarla di oneri che, se possono farla sentire in gloria in alcuni momenti, possono anche schiacciarla e farla sentire isolata in molti altri.